“Come ti chiami?”.
“Manas”, mi rispose.
Si chiamava Manas, come l’eroe epico del suo Paese, il Kirghizistan. Vedevo appena il suo viso tondo e arrossato, e poi quello sguardo sconfinato e vivido, brillante come una poderosa luce di strane stelle cadenti finite proprio lì, in quegli occhi. Un ciuffo nerissimo sfuggito al cappello di lana pesante, le vigorose mani che giravano e rigiravano le massicce coperte del letto dentro alla tenda yurta.
Faceva freddo d’estate al lago Son Kul. Me lo aveva detto l’autista. Il suo nome era Evgenij ma tutti lo chiamavano John. “Chissà, forse domani mattina ti sveglierai e vedrai la neve fuori dalla tua yurta”. Non avrei dovuto, perché discendere da quell’altezza in una tormenta di neve non è augurabile a nessun autista, neanche ad uno dai nervi saldi come Evgenij, ma non riuscii a fare a meno di desiderare quella neve. Chissà, mi aveva detto…
Mi trovavo a 3016 metri sul livello del mare anche se era proprio un piccolo mare ciò che mi sembrava di avere davanti. Il lago Son Kul, 270 km² di acqua. Vasto come il respiro blu intenso delle sue carezzevoli onde che lavano via qualsiasi rancore. Mansueto come i cavalli che vi galoppano intorno, sull’erba smagliante del mattino. Argenteo come il sollievo di un sogno notturno che sembrava reale.
Le montagne del Tien Shan lo circondano, una corona di rocce e picchi di prati e terra. Camminai intorno all’accampamento in quello spazio infinito e sospeso e scorsi figure lontane di pastori. Uno di loro, più degli altri, attirò fin da subito il mio sguardo.
Era un ragazzo giovane ma con la pelle del volto increspata dal sole alpino, il sorriso come una fessura sottile, la voce timida, ma gli occhi – sì, quegli occhi – riempiti di muschio e di fieno dorato, di cieli stellati eminenti, occhi abbacinati dalla luce riflessa ma saldi e silvestri come quelli delle creature selvatiche. Non parlava russo ma rispondeva alle mie domande.
“Dove vivi?”
“Qui”.
Poi, un rombo di zoccoli e un concitato arruffarsi di grida maschili. Il ragazzo sorrise il suo sorriso più grande – la fessura sottile si fece ampia, splendente. Partì al galoppo, facendoci cenno di seguirlo e di stare a guardare.
Ci ritrovammo davanti ad una partita di kok boru. I giocatori sui loro agili cavalli si combattevano, scontrandosi e schivandosi, per lanciare una carcassa di capra nel campo avversario. Era uno spettacolo insolito, uno scapigliato intrecciarsi di braccia calate a terra, di redini tirate e lasciate, di nitriti e di giubilo, di schioccare di lingua e richiami.
Quando scendeva la sera, sul lago Son Kul, le stufe di ogni bianca yurta fumavano mentre ribolliva la zuppa nella grande pentola della cucina. La tavola era semplice, imbandita di dolci biscotti e caramelle alla menta da accompagnare all’asprissimo latte fermentato di giumenta, chiamato kumyz.
Il lago Son Kul imbrunì e le sue acque tacquero. Freddo era il silenzio. Il cielo corvino rifulgeva di piccole stelle. Guardai Aizada, che era ormai divenuta un’amica. Poche sere prima avevo ballato con lei una danza, energica e vigorosa, che evocava cavalli al galoppo e vento tra i capelli.
‘La culla d’oro’, così i kirghizi chiamavano il loro Paese: rifugio materno e caro tra le grandi montagne. Le lanterne delle yurta si accesero con delle candele e solo il falò rifulgeva di oro e di rosso nell’immensità dello spazio.
Tè, grandi e fumanti tazze di tè, mentre un ragazzo pizzicava le corde del suo virtuoso strumento di ginepro: il komuz. Suonarono delle note incantevoli, vibrò l’aria freddissima intorno ai nostri volti ammaliati.
Il ragazzo cantò e furono parole sconosciute ma così eloquenti: parlavano di vite, di amori e di guerre, ardito eco di avventure vissute da eroi come Manas, di languide imprese e indomabili sguardi.
Raccontavano di un popolo nato da un salvataggio secoli e secoli addietro: due bambini sopravvissuti a un massacro e portati proprio lì, in quelle valli sconfinate, dalle robuste zampe di una magnifica cerva bianca dalle ramose corna, indimenticata Madre di tutti i kirghizi.
Sull’ultima nota la voce si fece lieve e riscivolò dentro al ragazzo mentre ancora pizzicava le corde del suo affezionato komuz.
Poi, la notte. Silenziosa e densa notte, che pesava sui nostri corpi come le spesse coperte di lana rossa.
“Come ti chiami?”.
“Manas”, mi rispose, girando e rigirando le massicce coperte del letto dentro alla yurta.
Fuori, tutto era luce. Scostai il duro tappeto e arrotolai la paglia d’ingresso della tenda. Di nuovo mattina: splendente mattina di erba umida, di benefici raggi del sole, di profumo caldo del tondo pane nan, dell’aspro sapore delle marmellate di bosco.
Quel giorno, due ragazzini erano arrivati con i mandriani dei cavalli. Camminavano fino alla riva, abbracciati e sicuri nei loro cappotti pesanti, sui loro erbosi passi, e i loro occhi – sì, quegli occhi – erano valorosi e dimessi.
Era ora di partire. D’improvviso il cielo si affannò, le nuvole si fecero cineree e l’aria marmorea. I mandriani gridavano ai loro cavalli che già galoppavano verso casa. Gli animali si raccolsero. Si chiusero i deboli chiavistelli delle yurta. Manas mi salutò con la mano e ci guardò partire, stretto nella sua giacca pesante, controvento.
Guardai ipnotizzata allontanarsi la riva del lago Son Kul, così alto da togliere il fiato, così benevolo da averci accolto tra le sue verdeggianti braccia – noi, minuscole creature venute da un altro universo dello stesso pianeta. Chiusi gli occhi un istante – perfetto, rigoglioso istante – poi riaprii gli occhi e la vidi. La neve.