Sulla scia dell’avanzata del Coronavirus, l’Europa si trascina e incespica. E sembra meno unita che mai. L’epidemia ha letteralmente mostrato al mondo i “panni sporchi” della cara unione, raccontando di un gruppo di paesi disgiunti e poco inclini alla collaborazione. Mentre Italia, Spagna, Francia e altri chiedono a gran voce una presa di posizione “comunitaria” per affrontare la crisi economica che farà da coda alla pandemia, gli stati del nord Europa si mettono di traverso, e scuotono il capo a misure drastiche. Parole come Eurobond, titoli di stato, patto di stabilità, Eccl… volano sui titoli dei giornali, ma di cosa stiamo parlando? Cosa sta facendo tremare le fondamenta dell’Unione? Cosa ha creato una così netta spaccatura tra gli stati membri?
Partiamo dagli Eurobond. Queste misteriose creature non sono nuove sulla bocca della finanza. Se ne parlava già nel lontano 2011, e anche allora avevano trovato la ferma opposizione della Germania e dei paesi del Nord più rigoristi; l’emergenza Coronavirus li ha scongelati e riportati nell’occhio del ciclone che è il dibattito Europeo sull’imminente crisi. Che la crisi ci sarà, è sfortunatamente una realtà alla quale necessita abituarsi, perché è impensabile uscire da questa stagnazione indenni. Il primo a parlare di Eurobond fu il presidente della Commissione europea ( 1985-1995) Jacques Delors, ma l’idea fu presa in considerazione solo nel 2011 nel pieno della crisi. L’idea originale voleva finanziare attraverso l’emissione di debito sovrano dell’Ue grandi progetti comuni di investimento in infrastrutture, ricerca, energia, ambiente. Per i “non addetti ai lavori” nel mondo della finanza, rimane una spiegazione alquanto oscura e apre le porte di un discorso molto complesso che è quello della politica finanziaria. Per vederci più chiaramente occorre fare un passo indietro e capire cosa significa emissione di debito sovrano.
Ogni stato emette dei titoli di debito per finanziare il proprio debito pubblico o il proprio deficit: semplificando in maniera esagerata, lo stato “vende” parte del suo debito ai dei risparmiatori che acquistano il titolo, con la promessa del risarcimento allo scadere dell’obbligazione. Con i soldi del titolo lo stato finanzia i propri progetti nell’immediato, mentre il privato al momento del risarcimento guadagna attraverso gli interessi. Al momento in Europa ognuno fa per sé: la Germania ha i suoi debiti sovrani, l’Italia i suoi e così via…
Per cercare di controllare le modalità in cui singoli stati gestiscono le proprie politiche di bilancio pubbliche (ovvero il controllo del deficit e del debito pubblico), e per implementare il processo di integrazione economica fra gli stati membri viene introdotto il Patto di Stabilità e Crescita stipulato nel 1997. Del patto di stabilità ne abbiamo, noi italiani in particolare, fin sopra i capelli. Ma proprio in questi giorni è stato temporaneamente sospeso ed è fondamentale comprendere le conseguenze e i retroscena di questa decisione. In sunto il patto di stabilità prevede che in particolare gli Stati membri aderenti all’euro devono continuare a rispettare i vincoli fissati sul bilancio dello Stato. Ossia un deficit pubblico non superiore al 3% del Pil e un debito pubblico al di sotto del 60% del Pil. Con deficit intendiamo il disavanzo pubblico, ovvero quando le uscite (spese) di uno stato superano le entrate, quest’ultimo non deve superare del 3% il prodotto interno lordo (che in semplificando al massimo è quanto un paese produce); mentre il debito pubblico, ovvero il debito che lo stato ha contratto nei confronti di altri soggetti non deve superare il 60% del Pil.
Queste misure devono essere prese in considerazione seriamente dal governo quando all’inizio dell’anno mette “in tavola” il piano economico per l’anno seguente, e devono essere dei binari comuni per tutti gli stati europei. Come ben sappiamo l’Italia ha sempre faticato a rientrare in questi limiti, e questo infausto patto ha guadagnato una ben triste reputazione nel nostro paese.
Poi arrivata l’ondata Coronavirus l’Europa piomba nel caos: improvvisamente un’epidemia è alle porte e tra i paesi non solo non c’è un piano d’azione collettivo, ma soprattutto, un programma economico efficiente per il “dopo”. Innanzitutto è chiaro che nel pieno di una crisi sanitaria un governo non può porsi problemi come “Se acquisto 500 respiratori e 1000 mascherine rischio di uscire dai paletti del patto di stabilità?”. In tempo di crisi le priorità sono altre, e lo stato deve avere la libertà di spendere ciò che ritiene necessario per affrontare l’epidemia. La Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha comunicato la decisione di attivare la clausola di salvaguardia del Patto di stabilità: ovvero gli stati potranno “spendere liberamente”, senza che le limitazioni possano intralciare la gestione della crisi.
Bene, tutto bello. Ma basterà? Non per il futuro. Non quando dovremo far fronte ad un’instabilità economica che succede ad un periodo di profonde difficoltà economiche (la crisi del 2008 non è poi così lontana). Non basta più allentare il guinzaglio e dare l’ok per la libertà di spesa, ma è necessario trovare una politica comune che possa salvaguardare l’unione negli anni a venire.
Qui riemergono gli Eurobond. Come abbiamo detto al momento ogni stato emette i propri titoli di debito autonomamente, ne risulta chiaramente che il mercato dei debiti sovrani europei è frammentato e disgiunto. L’Eurobond dovrebbe andare a sanare questa discrepanza, creando un’unione finanziaria.
Gli Eurobond sarebbero quindi dei titoli di debito non più nazionali, ma che vengono emessi comunemente da tutti i paesi facenti parte dell’euro. Lo scenario è ben diverso. Da una parte abbiamo un titolo di debito nazionale, legato ad un singolo stato la cui affidabilità è relativa (alta nel caso della Germania, ma bassa nel caso dell’Italia), dall’altra abbiamo titoli (o bond) europei che poggiano su una fetta consistente di paesi, la cui “sicurezza” in termini finanziari è molto più alta. In poche parole conviene di più scommettere su un’unione di stati che su di un singolo stato. La liquidità ottenuta grazie all’emissione di questi titoli andrebbe a sostenere l’unione nel pieno della crisi, ma non solo sarebbe un ulteriore passo in avanti per una maggior integrazione e collaborazione fra i membri.
Ma perché allora c’è un’opposizione così tenace?
Come abbiamo detto non tutti i titoli di stato hanno lo stesso valore, questo dipende largamente dall’affidabilità del paese che li ha emessi, ovvero la sicurezza che il compratore verrà adeguatamente ripagato alla scadenza dell’obbligazione. Paesi come l’Italia, che si trascina dietro un debito astronomico e fatica a controllare incremento del deficit e del debito, sono poco affidabili e il loro valore ne risente. Lo spread, che ci ansima nelle orecchie da anni, non è altro che la differenza di rendimento tra i titoli di debito italiani e quelli tedeschi, che vengono generalmente usati come punto di riferimento considerata la solidità dell’economia tedesca. La fragilità, soprattutto dei paesi mediterranei, è stato il più grande deterrente per gli Eurobond che hanno trovato una fiera opposizione nei paesi del nord Europa. Banalmente ai paesi del Nord conviene questa “distanza” tra i suoi titoli e quelli di paesi più deboli, poiché incentiva gli investitori verso il proprio paese.
Cosa sta succedendo quindi in Europa?
Il primo ministro Giuseppe Conte, insieme ad altri otto leader UE (Francia, Spagna, Belgio, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo e Slovenia) ha diffuso una lettera indirizzata al presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, in cui viene richiesta una risposta importante alla crisi finanziario-economica in arrivo, attraverso ” uno strumento di debito comune emesso da un’istituzione dell’Ue”. La prima possibilità come abbiamo detto sono gli Eurobond, che continuano a far tremare il Nord. La seconda sono gli Eccl (Enhanced Conditions Credit Lines, linee di credito a condizioni rafforzate) ovvero delle linee di credito (somme di denaro) messe a disposizione per tutti gli stati che corrisponderebbero circa al 2% del PIL del paese stesso. Le condizioni di uso sarebbero limitate all’emergenza Covid-19, inclusi costi sanitari ed economici.
Mentre per gli Eccl sembra vi sia la possibilità di trovare un compromesso gli Eurobond creano tensioni e disaccordi, soprattutto considerando la prospettiva della mutualizzazione (messa in comune) del debito, cioè la garanzia comune dei debiti dei Paesi del Sud, Italia in primis, da parte dei nordici. Durante la videoconferenza con gli altri 26 leader europei per affrontare le conseguenze del Covid, Conte ha ribadito che queste “vanno affrontate domani mattina e non nei prossimi mesi”. Ma sui titoli di debito comune arriva il veto di Austria, Germania, Olanda, Danimarca e Finlandia sia per gli Eurobond “permanenti”, sia per i “Coronabond” che dovrebbero essere uno strumento temporaneo per superare la crisi. La discordia nell’eurogruppo raggiunge picchi notevoli e porta a un “nulla di fatto”. Malgrado questo, i vertici europei lavorano nel cercare un punto d’incontro. Ma la situazione è tesa “Nessuno pensa a una mutualizzazione del debito pubblico, ciascun paese risponde per il suo e continuerà a farlo”. Se si vuole limitarsi a strumenti già usati in passato per affrontare la crisi allora, “ Ve lo potete tenere, l’Italia non ne ha bisogno, facciamo da soli”. Queste le parole del presidente Conte che lasciano intravedere la forte instabilità che scuote l’Unione in questi giorni.
La videochiamata si chiude in fretta, appena tre ore, senza alcuna decisione definitiva, mentre il solco che spacca in due l’Europa si fa sempre più netto. Per quanto il Commissario dell’economia Gentiloni cerchi di rassicurare il paese, dicendo che gli Eurobond sono ancora sul tavolo delle trattative, la speranza di una loro attuazione si fa sempre più utopica.
Ciò che emerge prepotente in queste ore è mancanza di coesione tra i membri UE. L’Europa trema sotto i colpi della crisi e sembra sempre più un fantasma inconsistente. La solidarietà tra stati e stata messa da parte nel momento in cui maggiormente ne avevamo bisogno. Non ci resta che aspettare nuove decisioni e sperare che l’Unione sopravviva al Coronavirus.