Un ragazzo cantava su un mare trasparente. Aveva la pelle bronzea dal sole, opaca di salsedine, ruvida dalla sabbia finissima su cui sedeva. I suoi occhi erano castagni, ampi e meditabondi, come il deserto infinito che lui conosceva in ogni suo angolo. Aveva un sorriso argenteo, flebile ma copioso. Le sue mani importanti scuotevano i corti capelli folti e indomabili riempiti di granelli di sabbia.
Il mare era un cristallo sbriciolato che danzava al ritmo perpetuo delle onde. Si scioglieva sulla riva e poi riprendeva vita per tornare verso il blu più lontano e raggiungere il sole calante. Il nome del ragazzo era Senosi e il mare era il mare di Marsa Matrouh, in Egitto.
È qui che l’Egitto si presenta al Mediterraneo. A 240 km da Alessandria d’Egitto, Matrouh nacque come villaggio di pescatori nell’epoca degli Antichi Egizi e divenne Amunia sotto Alessandro Il Grande e poi Paraitònion al tempo dei Tolomei e dei Bizantini.
Quell’anno rimasi a Matrouh sei giorni, il tempo necessario perché i miei amici Kareem e Senosi arrivassero in automobile dal Cairo, lontano 500 km, con una chiassosa e travolgente famiglia al loro seguito. Rimasi il tempo necessario per gustare le abbondantissime prelibatezze della cucina egiziana in ogni nostro pic sic: interi polli arrosto cucinati perfettamente, pane egiziano e fichi, tantissimi fichi soffici appena colti che Kareem riusciva – stupefacente! – a mangiare in un solo boccone.
Capii subito che a Matrouh il tempo non esiste e gli orologi non funzionano mai. Si vive col sole, si dorme con l’ombra, si respirano i minuti, i secondi, le ore che non troviamo mai e che non sappiamo di poter avere. Riuscii subito ad adorare un bambino vispo e divertente di nome Hisham, che correva sulla spiaggia instancabile, sempre pronto a una risata per gli scherzi da ragazzacci che gli venivano rivolti dai suoi fratelli. Il piccolo Hisham, in perenne agguato tra gli spruzzi, che mi prendeva per mano e mi mostrava i posti più fantasiosi e magici del mare.
Trovammo una roccia concava, ampia e incurvata, che divenne il nostro palazzo, di due re, una regina e un piccolo principe, che si infangavano per gioco e si tuffavano poi tra le onde tiepide quando la marea riusciva ad accedere al nostro regno segreto.
Quante parole con le ali e vere risate dietro a quel sasso! Quanta immaginazione di libertà! Quanti sentimenti scoperti e quanti pensieri! Contrasto e assonanza, tra due mondi: il mio e il loro, così diversi a volte, da farci arrabbiare, o così simili da farci credere nati dandoci la mano.
Un pomeriggio, i miei amici mi portarono alla spiaggia di Cleopatra. “Qui fecero il bagno la regina d’Egitto, Cleopatra, e Marco Antonio”, mi spiegarono, mentre camminavamo insieme ad altri visitatori curiosi lungo la sabbia ora umida, poi bagnata e morbida, cuscino di freschi granelli.
Come non immaginare allora Cleopatra nei suoi panneggi bianchi di regina immergersi e nuotare insieme al suo Antonio. Proprio qui, in queste acque un po’ più fosche e agitate, ma attraenti e avvolgenti, forse per nascondere dei segreti di mille e mille anni fa.
Cantava, Senosi, la mia canzone preferita, non ricordo se per puro caso o su mia richiesta. Ricordo solo che un pomeriggio, sul far del tramonto, sedevo con i due amici egiziani migliori che potessi avere, su quella riva umida, mentre il cielo si tingeva di arancio e rosa e un sole tondo e fiammeggiante toccava le colline sabbiose dall’altra parte dei nostri sguardi.
Ricordo di aver chiuso gli occhi un istante, per provare a sentire senza vedere, per provare a ricordare quell’odore di raggi salati, quel senso di vita invincibile che a volte ci manca. Ricordo di aver origliato le confidenze dei flutti, di aver sorriso agli spruzzi che mi solleticavano le gambe e di aver pensato che, se il tempo si fosse fermato allora, sarei stata felice per sempre.
Ricordo una voce che d’improvviso intonò le prime parole di una canzone, la mia canzone più amata, forse perché la prima che ascoltai quando, anni prima, ricevetti un pacchetto per posta, con un timbro e una busta egiziana, un biglietto di auguri spumeggiante, una scrittura tremolante e grossa, il regalo di un amico che mi voleva bene e che era lì con me allora.
Ascoltai la voce fin dalle primissime timide note, come un richiamo inevitabile e udibile ovunque, benché sussurrato. Cantava così bene, Senosi, senza sforzo alcuno, come se le note fossero parte delle sue parole, come se la musica non fosse per lui un’arte imparata, ma un linguaggio innato.
Cantava, Senosi, senza aspettarsi di essere ascoltato o ammirato. Cantava per sé o forse per quel luogo, come in un bisbiglio da accompagnare al vento, come un passaggio trascurabile e ordinario. Non sapeva che tuttora quella sua canzone resta il più bel concerto che io abbia mai udito, la voce più memorabile e unica che ricordo.
Non sa, Senosi, che a volte ripenso a quei giorni passati a Matrouh con la nostalgia di un’innamorata, con l’amarezza della tempesta che si sarebbe scagliata sull’Egitto da lì a poco, con la gioia della pienezza del giorno e dello scorrere lento del tempo, senza l’orologio al polso e con la pelle sempre bagnata.
Non sa, Senosi, che la prima cosa a cui penso quando ricordo Matrouh, prima del mare, dei colori e della vita invincibile è solo e sempre la sua voce che canta.