Analizzando le statistiche fornite dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), a ottobre 2016 i profughi nella terra di Erdogan sono circa 3 milioni, quasi interamente siriani.
Questi dati definiscono una montagna di incertezze, emergenze e sfruttamenti sulla cui vetta sventola traballante la bandiera dell’Unione Europea, lontano e problematico traguardo per il Paese. La scalata verso la cima è vista da molti esponenti del mondo istituzionale come un’impresa impossibile, nonostante ciò il fenomeno migratorio tiene unito il destino della Turchia e quello di diversi stati membri.
Ad avere un occhio di riguardo per la longevità delle trattative è soprattutto la cancelliera tedesca Angela Merkel, consapevole che la Germania è meta prediletta dalla maggior parte dei migranti che il presidente turco ospita nelle sue strutture (in cambio dei 6 miliardi di fondi stanziati dall’UE).
Ma cosa succede una volta varcato il confine?
La Turchia ha concluso da tempo una serie di accordi con l’ONU per collocare sul territorio, in particolare a sud est, una sequenza di strutture d’asilo presidiate da personale altamente qualificato. Tuttavia il numero esorbitante di migranti rende queste aree sempre più simili a luoghi di detenzione, dove il sovraffollamento impedisce una corretta ed efficace distribuzione dello spazio e delle risorse.
Una sorte analoga interessa i campi profughi predisposti dal Governo: in entrambi i casi l’ambiguità giuridica e la lentezza dei relativi procedimenti, obbligano i richiedenti asilo a vivere in condizioni umanitarie pessime, anticamera di criminalità e disagi.
Da questo quadro preoccupante si rafforza il fenomeno dei bambini costretti a lavorare per mantenere le famiglie, una disfunzione che la Turchia conosce già molto bene. Circa un milione di minori in Turchia sono attualmente sfruttati all’interno di fabbriche e laboratori. La legge in vigore proibisce il lavoro minorile fino ai 15 anni, un limite che si innalza a 18 per le attività più usuranti, ma che viene in ogni caso scavalcato senza alcuna difficoltà.
È così che nella città di Gaziantep, più volte negli scorsi mesi teatro di attentati kamikaze, si muove un apparato industriale importante per il mercato interno e per le esportazioni in tutto il continente.
Nella città più grande dell’Anatolia sud orientale, bambini e giovani siriani non lavorano mai meno di 10 ore al giorno. Gli stipendi sono miseri, i magazzini di periferia umidi e inospitali, ma quei pochi soldi rimangono essenziali per provare a ridefinire gli equilibri delle famiglie in fuga dai bombardamenti e dall’ISIS.
Qui all’età media di 13 anni ci si muove con una manualità acquisita in fretta, spesso assistiti da bambini più piccoli, i quali pur non possedendo le medesime competenze, cercano in qualsiasi modo di rendersi utili, di far percepire ai compagni la loro presenza. Nella maggior parte dei casi non esiste la scuola, così come nessun tipo di percorso formativo: l’istruzione ha dei costi irraggiungibili per chi ha lasciato tutto sotto le macerie nel tentativo disperato di mettersi in salvo. Nel clima ostile dei capannoni i movimenti meccanici degli arti si ripetono senza sosta e scandiscono il tempo della ricostruzione morale e sociale.
Tutti sanno ma nessuno interviene, nella convinzione che il denaro, come strumento indispensabile al risveglio della vita, sia in grado di cancellare qualsiasi esigenza insita in quel delicato percorso che parte dall’infanzia e sfocia nell’adolescenza.
Foto Wikipedia: Prime Minister of Turkey Recep Tayyip Erdogan at a meeting of the Russia High-Level Russian-Turkish Cooperation Council.