Amanda Gorman. Questo il nome della ventiduenne di Los Angeles che con la sua coinvolgente poesia: “The Hill we Climb”, ha emozionato tutti nel momento dell’insediamento presidenziale di Joe Biden.
Amanda non solo è la più giovane poetessa a recitare durante questa cerimonia, ma vanta il titolo di National Youth Poet Laureate. Con la performance del 20 gennaio, Amanda è entrata in un ristretto club di poeti intervenuti in chiusura delle cerimonie di insediamento presidenziale: tra gli altri Robert Frost per John F. Kennedy, Maya Angelou per Bill Clinton e Richard Blanco per Barack Obama.
Con una cadenza ritmica che ricorda lo slam (uno stile enunciativo discorsivo, quasi fosse un flusso di coscienza), tra echi di “Hamilton”, Amanda ha fatto sentire la sua voce di “magra ragazzina nera cresciuta da una madre single”, ha parlato dell’America divisa di ieri e della speranza che quella di oggi, superando gli ostacoli, torni a essere unita. Un’inno alla democrazia, sempre più a rischio, sempre più esile, ma fino a ora, invitta.
Testo poesia The Hill We Climb di Amanda Gorman
When day comes, we ask
ourselves where can we find light in this never-ending shade?
The loss we carry, a sea we must wade.
We’ve braved the belly of the beast.
We’ve learned that quiet isn’t always peace,
and the norms and notions of what “just” is
isn’t always justice.
And yet, the dawn is ours before we knew it.
Somehow we do it.
Somehow we’ve weathered and witnessed a nation
that isn’t broken,
but simply unfinished.
We, the successors of a country and a time where
a skinny Black girl descended from slaves and raised by a single mother can
dream of becoming president, only to find herself reciting for one.
And yes, we are far from polished, far
from pristine,
but that doesn’t mean we are striving to form a union that is perfect.
We are striving to forge our union with purpose.
To compose a country committed to all cultures, colors, characters, and
conditions of man.
And so we lift our gazes not to what stands between us, but what stands before
us.
We close the divide because we know, to put our future first, we must first put
our differences aside.
We lay down our arms so we can reach out our arms to one another.
We seek harm to none and harmony for all.
Let the globe, if nothing else, say this is true:
That even as we grieved, we grew.
That even as we hurt, we hoped.
That even as we tired, we tried.
That we’ll forever be tied together, victorious.
Not because we will never again know defeat, but because we will never again
sow division.
Scripture tells us to envision that
everyone shall sit under their own vine and fig tree and no one shall make them
afraid.
If we’re to live up to our own time, then victory won’t lie in the blade, but
in all the bridges we’ve made.
That is the promise to glade, the hill we climb, if only we dare.
It’s because being American is more than a pride we inherit.
It’s the past we step into and how we repair it.
We’ve seen a force that would shatter our nation rather than share it.
Would destroy our country if it meant delaying democracy.
This effort very nearly succeeded.
But while democracy can be periodically delayed,
it can never be permanently defeated.
In this truth, in this faith, we trust,
for while we have our eyes on the future, history has its eyes on us.
This is the era of just redemption.
We feared it at its inception.
We did not feel prepared to be the heirs of such a terrifying hour,
but within it, we found the power to author a new chapter, to offer hope and
laughter to ourselves.
So while once we asked, ‘How could we possibly prevail over catastrophe?’ now
we assert, ‘How could catastrophe possibly prevail over us?’
We will not march back to what was, but
move to what shall be:
A country that is bruised but whole, benevolent but bold, fierce and free.
We will not be turned around or interrupted by intimidation because we know our
inaction and inertia will be the inheritance of the next generation.
Our blunders become their burdens.
But one thing is certain:
If we merge mercy with might, and might with right, then love becomes our legacy
and change, our children’s birthright.
So let us leave behind a country better
than the one we were left.
With every breath from my bronze-pounded chest, we will raise this wounded
world into a wondrous one.
We will rise from the golden hills of the west.
We will rise from the wind-swept north-east where our forefathers first
realized revolution.
We will rise from the lake-rimmed cities of the midwestern states.
We will rise from the sun-baked south.
We will rebuild, reconcile, and recover.
In every known nook of our nation, in every corner called our country,
our people, diverse and beautiful, will emerge, battered and beautiful.
When day comes, we step out of the shade, aflame and unafraid.
The new dawn blooms as we free it.
For there is always light,
if only we’re brave enough to see it.
If only we’re brave enough to be it.
Traduzione poesia The Hill We Climb di Amanda Gorman
Quando arriva il giorno, ci chiediamo:
dove possiamo trovare una luce in quest’ombra senza fine?
La perdita che portiamo sulle spalle è un mare che dobbiamo attraversare a
guado.
Abbiamo sfidato il ventre del mostro.
Abbiamo imparato che la quiete non è sempre pace,
e le norme e i concetti di quel che è «e basta» non sono sempre giustizia.
Eppure, l’alba è diventata nostra prima che ce ne accorgessimo.
In qualche modo, ce l’abbiamo fatta.
In qualche modo, abbiamo resistito e siamo stati testimoni di come questa
nazione non sia rotta,
ma, semplicemente, incompiuta.
Noi, gli eredi di un Paese e di un’epoca in cui un’esile ragazza nera,
discendente dagli schiavi e cresciuta da una madre single, può sognare di
diventare Presidente, per sorprendersi poi a recitare all’insediamento di un
altro.
E certo, siamo lontani dall’essere
raffinati, puri,
ma ciò non significa che il nostro impegno sia teso a formare un’unione
perfetta.
Noi ci stiamo sforzando di plasmare un’unione che abbia uno scopo.
di dar vita ad un Paese che sia devoto ad ogni cultura, colore, carattere e
condizione umana.
E così alziamo il nostro sguardo non su ciò che sta a dividerci, ma su quel
che ci sta davanti.
Colmiamo il divario, perché sappiamo che, per poter mettere il nostro
futuro al primo posto, dobbiamo prima mettere da parte le nostre differenze.
Abbassiamo le armi così da poterci sfiorare le braccia l’uno con l’altro.
Miriamo a ferire nessuno, a un’armonia per tutti.
Lasciamo che il pianeta, se non altro, ci dica che questo è vero:
Che anche mentre piangevamo, crescevamo.
Che anche mentre soffrivamo, speravamo.
Che anche mentre eravamo esausti, continuavamo a provarci.
Che saremo sempre legati l’uno all’altro, vittoriosi.
Non perché non conosceremo mai più sconfitta, ma perché non mostreremo mai
più divisione.
Le Scritture ci dicono di immaginare che
ciascuno possa sedere sotto la propria vite e il proprio albero di fico e non
avere paura.
Se riusciremo a essere all’altezza del nostro tempo, la vittoria non sarà
sulla lama di un’arma, ma nei ponti che avremo costruito.
Questa è la promessa di sollievo, questo è il colle da salire, se avremo il
coraggio di farlo.
Questa è la ragione per cui essere Americani è più di un orgoglio ereditato.
È il passato in cui entriamo ed il modo in cui lo ripariamo.
Abbiamo visto una forza che avrebbe frantumato il nostro Paese piuttosto
che tenerlo insieme nella condivisione.
Lo avrebbe distrutto, se ciò avesse ritardato la democrazia.
Questo tentativo è quasi riuscito.
Ma se la democrazia può essere per un periodo ritardata,
non può mai essere definitivamente sconfitta.
In questa verità, in questa fede, noi crediamo,
perché finché abbiamo gli occhi sul futuro, la storia ha gli occhi su di
noi.
Questa è l’era della giusta redenzione.
Ne abbiamo avuto paura, al suo inizio.
Non ci sentivamo pronti a essere gli eredi di un tempo tanto orribile,
Ma al suo interno abbiamo trovato la forza di scrivere un nuovo capitolo,
di offrire a noi stessi speranza e risate.
Una volta ci siamo chiesti: “Come potremmo mai avere la meglio sulla
catastrofe?”. Oggi ci chiediamo: “Come potrebbe mai la catastrofe avere la
meglio su di noi?”.
Non marceremo all’indietro per ritrovare
quel che è stato, ma ci muoveremo verso ciò che sarà:
Un Paese ferito ma integro, caritatevole ma coraggioso, fiero e libero.
Non cambieremo rotta né saremo interrotti da alcuna intimidazione, perché
sappiamo che la nostra immobilità, la nostra inerzia andrà in lascito alla
prossima generazione.
I nostri abbagli diventeranno i loro fardelli.
Ma una cosa è certa:
Se uniremo misericordia al potere, e potere al diritto, allora l’amore sarà
il nostro solo lascito e il cambiamento un diritto di nascita per i nostri
figli.
Perciò, lasciamo un Paese migliore di quello che abbiamo trovato.
Con ogni respiro di cui il mio petto martellato col bronzo sia capace, trasformeremo questo mondo ferito in un luogo meraviglioso.
Risorgeremo dalle colline dorate dell’Ovest.
Risorgeremo dal Nord-Est spazzato dal vento, in cui all’inizio i nostri Padri fondatori conquistarono la rivoluzione.
Risorgeremo dalle città circondate dai laghi, negli stati del Midwest.
Risorgeremo dal Sud baciato dal sole.
Ricostruiremo, ci riconcilieremo e ci riprenderemo.
In ogni nicchia conosciuta della nostra nazione, in ogni angolo che chiamiamo Paese,
La nostra gente, diversa e bella, spunterà, malconcia eppure stupenda.
Quando arriva il giorno, facciamo un passo fuori dall’ombra, in fiamme e senza paura.
Una nuova alba sboccia, mentre noi la rendiamo libera.
Perché c’è sempre luce,
Finché saremo coraggiosi abbastanza da vederla.
Finché saremo coraggiosi abbastanza da esserla.
[Revisione traduzione: Ileana Ceriani]