“Dietro ogni problema c’è un’opportunità” ci ricorda Stefania Piscopo. Ed è per questo che la sua esperienza di caregiver è diventata un’occasione preziosa per fare gruppo e sollevare un grande tema ancora da normare in Italia. Da dicembre 2018 – quando a sua mamma Graziella è stata diagnosticata la SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) – la sua vita è cambiata.
Da infermiera, “all’improvviso mi sono ritrovata dall’altra parte della barricata diventando una caregiver a tempo pieno” spiega. E una scossa così forte ha dato luce al libro – appena pubblicato – “Mi manca la tua voce – Da figlia a caregiver, contro la SLA” (ed. La Memoria del Mondo) la cui prefazione è stata scritta da Mina Welby. È acquistabile in qualsiasi libreria e su internet. Parte del ricavato verrà devoluta all’Hospice di Abbiategrasso (MI), dove Graziella è stata in cura.
Una grande menzione d’onore, invece, Stefania la riserva all’Ambulatorio SLA dell’Ospedale Maggiore di Novara: “Un fiore all’occhiello della Sanità Nazionale. Sono stati davvero eccezionali”, sottolinea.
Dal libro, poi, sono nate le pagine di Facebook e Twitter “Essere un caregiver”. L’obiettivo è quello di creare “una community che possa dare voce e ascoltare tutte quelle persone che ogni giorno si prendono cura di un loro caro, tra mille difficoltà”.
Oggi Graziella non c’è più. Se n’è andata alla fine di novembre all’improvviso lasciando il segno indelebile nel cuore di tutti i familiari e di tutti gli amici che le hanno voluto bene. Ma la lotta al cambiamento legislativo, in Italia, ora è più forte. Stefania continuerà a far crescere la sua community online e a presentare il libro dove possibile (date in fondo all’articolo). Ed ecco cosa ci ha raccontato in questa nostra intervista.
Chi è Stefania? Presentati
«Come dico sempre: non faccio l’infermiera ma sono un’infermiera. All’inizio ho studiato lingue e letterature straniere a indirizzo marketing, ho lavorato 9 anni in una multinazionale in questo ambito e poi ho mollato tutto per seguire la mia passione. Ho fatto da sempre volontariato in ambulanza e mi sono sempre interessata al mondo della sanità. Così mi sono iscritta a scienze infermieristiche, ho poi lavorato quasi 10 anni in rianimazione. L’anno scorso, in tempi non sospetti, cioè prima che mia mamma si ammalasse, ho avuto un problema di salute io e ho dovuto lasciare il mio lavoro.
Oggi ho 45 anni, sono sposata con un “collega” (anche lui è infermiere), abbiamo due cani, e sono una runner, ho fatto del podismo la mia passione».
Com’è arrivata la SLA nella tua vita? Raccontami i primi passi che vi hanno fatto scoprire l’arrivo della malattia e come avete reagito
«La SLA è arrivata in maniera conclamata, con una diagnosi scritta nera su bianco, a dicembre del 2018. Era il ponte dell’Immacolata. Mia mamma è stata ricoverata per una serie di accertamenti. Da lì, il sospetto è diventato subito forte e poi abbiamo avuto la diagnosi del medico attorno al 20 dicembre.
I primi segnali, in realtà, sono arrivati prima. Mia mamma ha iniziato ad avere difficoltà nell’articolare le parole a luglio. In quel periodo mia mamma stava facendo dei lavori importanti ai denti, così abbiamo pensato che parlasse male per questo motivo. Ma lei stessa aveva paura di scoprire che, in realtà, qualcosa non andasse.
Per questo, direi che la SLA è entrata in modo dirompente nelle nostre vite, come uno tsunami, a dicembre. Abbiamo reagito male. Io provavo rabbia e disperazione. Essendo un’infermiera, e avendo lavorato tanti anni in rianimazione, sapevo già cosa ci aspettava. Mio papà invece per mesi ha negato tutto, ci dava dei matti: “Figurati se la mamma può avere una cosa del genere” diceva. Mio fratello invece era spaesato. Insomma, tre reazioni diverse».
Qual è il consiglio primario che ti senti di dare a chi vive in questa situazione? Ho letto che consigli di fare video…
«Ognuno è a sé e non voglio dare consigli a nessuno. Però questo esula un po’ dal “consiglio personale”: mai nessuno, all’inizio, ci ha consigliato di registrare la voce di mia mamma, né medici, né specialisti. Il problema grosso dei malati di SLA è che prima o poi perdono, oltre la voce, anche le espressioni: mia mamma poteva essere triste, felice o depressa ma dal viso non si capiva più. I suoi muscoli facciali sono stati i primi a essere intaccati. Per rivedere mia mamma sorridente ho dovuto ricercare foto di qualche anno fa. Ecco, per questo consiglio di fare video di ogni singolo momento, registrate la voce fino a che potete. Le foto non sono come un video.
Il pomeriggio in cui mia mamma è mancata avevo una presentazione e sono andata. L’ho fatto perché l’ultima cosa che lei ha scritto con il sintetizzatore vocale è stata: “Scusa se ti ho tenuta sveglia tutta la notte, mi raccomando domani vai alla presentazione”. Poi, quella sera, mio fratello ha iniziato a inviarmi dei file su whatsapp: era andato a cercare tutti i video recenti di mia mamma. Ne ho preso ogni singolo spezzone dove lei parlava e ho ricavato un vocale di 2 minuti e 49 secondi dove c’è solo la voce di mamma. Solo quella. Per me è un regalo, perché mai nessuno mi aveva detto “registra la voce”. Nessuno ci aveva pensato e ti assicuro che è uno degli aspetti che ti mancano di più. Io ho paura di dimenticare la sua voce. Così sono sicura che non me la dimentico. Quando ho voglia di coccolarmi un po’, come dico nel libro, la ascolto».
La SLA vi ha insegnato molto: “Gioire delle piccole cose che prima ritenevamo futili”, ad esempio….
«Vero. Ora stento un po’ a crederci e, in questo momento, non riesco a rileggere il libro. Mi sorprende comunque che siamo riusciti a trovare una modalità per esorcizzare e sdrammatizzare una situazione davvero drammatica. Ricorderò sempre: mia mamma, fino all’ultimo, fino a che aveva un filo di voce, provava a parlare. Noi la prendevamo in giro: “Compra una vocale”, le dicevamo. Le facevamo il mimo. Ecco, così siamo riusciti a trovare un modo per sorridere.
Nel libro tutte le foto sono in bianco e nero: questo perché è come se noi avessimo perso la possibiltà di vedere il mondo a colori. Per noi era tutto in bianco e nero e triste. In questi piccoli “scherzi” trovavamo un modo per sorridere con lei».
Hai creato le pagine Facebook e Twitter “Essere un caregiver” con l’obiettivo di far nascere “una community che possa dare voce e ascoltare tutte quelle persone che ogni giorno si prendono cura di un loro caro, tra mille difficoltà”
«La mia vita è cambiata, sono cambiate le mie priorità. All’inizio scrivevo su un file word il mio sfogo, poi è diventato un libro. Da lì ho pensato alle pagine social. Vorrei dare voce (anche se io non lo sono più), ai caregiver di Italia. Mia mamma mi ha insegnato sempre di combattere anche per i diritti degli altri: quando ne hai bisogno tu, se nessuno combatte per te, rimani solo.
C’è una legge in Senato che aspetta di vedere la luce ed è quella del riconoscimento legale del “caregiver”: verrebbe riconosciuta questa figura anche attraverso i permessi, le ore lavorative e una eventuale retribuzione. Ad oggi, per essere un “cargiver”, devi prendere un part-time e lasciare parte del tuo lavoro dedicandoti anima e corpo senza nessun riconoscimento legale. Ho dovuto prendere ferie, permessi, ore accumulate. E oggi vorrei far sentire la voce di milioni di caregiver: non c’è solo la SLA, c’è l’ictus, chi ha parenti paraplegici, tetraplegici, Alzheimer, Parkinson… Vorrei creare una community dove ci si trova, ci si aiuta, ci si confronta e ci si dà una mano».
Indipendentemente da quando passerà la legge sul “caregiver”: lo Stato è assente? È una costrizione essere tu, parente, vicino al familiare o una scelta per affetto?
«Non è un’accusa ma, se io non fossi stata un’infermiera, ammetto che non sarei stata in grado di avere un ruolo del genere. Un caregiver è un passo successivo all’essere una badante o un semplice aiuto in casa. Già il fatto che non esista una vera e propria traduzione in italiano di questo termine ci fa riflettere: significa “colui che dona la cura”. Insomma, non ci si può improvvisare, devi imparare tantissime nozioni ed io, essendo infermiera, partivo avvantaggiata.
Da parte dello Stato, di sicuro, c’è una falla, c’è un buco enorme. Noi ci siamo affidati alle cure palliative dell’Hospice di Abbiategrasso (MI): un fiore all’occhiello e un’eccellenza della sanità lombarda. Loro garantivano l’assistenza un’ora al giorno, dal lunedì al venerdì… e le altre 23 ore come le riempio? Per questo noi abbiamo chiamato una ragazza che ha seguito la mamma di notte ma io le sono stata accanto e le ho insegnato di tutto prendendo un’aspettativa dal lavoro. Il nostro salotto era diventato una sala di rianimazione. Quindi lo Stato ha un buco enorme nel riconoscimento ma, soprattutto, nel dare le risorse per potersi prendere carico di persone che necessitano assistenza».
Insomma, le risorse dello Stato, fisicamente, non ci sono
«No, devi prenderle internamente. Noi abbiamo fatto domanda per la formula “B1” (sostegno alla disabilità gravissima), grazie alla quale ricevi 900euro al mese. Devi entrare in graduatoria e non è detto che la diano subito. A noi è servita un mese, non di più. Ma nessuno ci aveva detto nulla, nessuno ci aveva detto dell’esistenza di questa risorsa, nessuno ci ha informato. L’abbiamo scoperto troppo tardi. 900euro sono un grandissimo aiuto, possono fare la differenza.
Inoltre, il carico assistenziale, oggi, è dei familiari. C’è tanto, tanto da lavorare. La popolazione italiana sta invecchiando e tutti, potenzialmente, potremo aver bisogno di un caregiver o diventarlo. Quindi un riconoscimento, anche a livello legale, sarebbe un segno di “civiltà di uno Stato”».
Come hai detto, tu hai una formazione idonea quindi partivi avvantaggiata. Allora non ci si può improvvisare “caregiver” ma ci si deve prima preparare e studiare…
«Se parti dal presupposto che un caregiver, solitamente, è colui che si occupa di una persona con gravissima disabilità, significa parlare di una persona non autonoma. Pensiamo a mia mamma: non mangiava, usava il ventilatore di notte, doveva essere aiutata per andare in bagno e prendeva medicine. Un “caregiver” deve sapere a cosa servono quelle medicine, deve avere un’idea di base almeno, sapere come riconoscere i segnali della persona che non sta bene ma non è in grado di comunicarlo. Insomma, il caregiver è quasi infermiere. Se io non fossi stata infermiera, non so davvero dove avrei sbattuto la testa.
Mi sono rivolta all’AISLA, Associazione Italiana SLA: loro, come altre associazioni, fanno dei corsi per persone che seguono chi ha la SLA. Questi corsi sono importanti ma la vera formazione la fai sul campo. Per questo ci vuole tempo, pazienza. Chi decide di seguire una persona malata di SLA (o malattie simili), lo deve fare per lavoro.
Io l’ho fatto con un part-time ed è stato davvero pesante. Non riuscivo in nessun modo a smaltire la stanchezza accumulata. Il caregiver deve essere davvero tosto e preparato».
Parte del ricavato verrà devoluta all’Hospice di Abbiategrasso che ha preso in carico tua mamma. Di cosa hanno bisogno, in particolare?
«Direi che hanno bisogno di tutti ciò che serve per prendersi cura di una persona. Sottolineo il “prendersi cura”: quello con cui ci siamo scontrati spesso era l’utilizzo del termine “inguaribile”. È vero, la malattia è inguaribile ma la persona è curabile, sempre. E l’Hospice di Abbiategrasso si prende cura delle persone.
Quando mamma è mancata abbiamo portato di tutto a loro: le traverse, i pannoloni, la tavoletta elettronica per comunicare, il deambulatore, farmaci e tanto altro. Insomma, a loro può servire di tutto.
Luca Crepaldi, il responsabile della comunicazione che mi ha aiutato tantissimo per il libro, ha detto che in un anno, l’Hospice di Abbiategrasso, per stare in piedi – al di là dei soldi dalla Regione – ha bisogno di 500mila euro di donazioni. Questa somma permette di fornire al paziente e alla sua famiglia servizi come pet-therapy, arte terapia, supporto psicologico: tutto ciò che dà qualità di vita. Quindi un mondo. E mia mamma voleva che i nostri aiuti andassero all’Hospice di Abbiategrasso. Loro hanno fatto ciò che la Sanità Pubblica non ha fatto».
Ho letto che all’inizio di ogni capitolo hai messo una canzone. Quindi, quale associ al tuo libro?
«“No Hero” di Elisa: ha rappresentato la mia malattia e mia mamma che per me è stata un eroe. È tutto nato grazie a lei e grazie a lei andrà avanti».