Lidia Borghi Sagone, 51enne di Genova. Donna, giornalista, lesbica e spirituale. I quattro pilastri tramite i quali svela la sua storia, dalla scoperta, solo dopo i 40 anni, della sua omosessualità e del suo bipolarismo (con un sottofondo di depressione), passando per un attivismo – a colpi di scrittura – sui diritti Lgbt.
“Lidia è, prima di tutto, una persona – sottolinea – Poi, della sua identità personale, fa parte il fatto di essere lesbica con una scoperta che sarebbe definita dalle mie colleghe, tardiva… l’ho scoperto a 42 anni e, questo, mi ha posto al riparo da un sacco di problemi che, di solito, le lesbiche hanno da adolescenti. Io, nel mentre, avevo da vivere un altro dramma: la mia infanzia fatta di tante privazioni, di tanti problemi, di mancanza d’amore… che mi hanno portata ad essere quello che sono oggi. Non è facile parlarne perché è una questione complessa.
Sono crollata in depressione due anni fa: la causa scatenante è stata una storia finita male con tradimenti da parte della donna con cui stavo e manipolazioni. Era una narcisista patologica. È stato come se il mio iceberg si fosse cappottato: prima ne emergeva un decimo, ora è emerso fuori il grosso. Non ne sono ancora uscita, sto soffrendo come un cane perché sono in cura da due anni ma non riesco a riemergere. Grazie alla psicoterapia sto scoprendo che questo mio disagio ha le sue radici nell’infanzia: tante manifestazioni di bipolarismo le ho avute fin da piccola. Poi, magari in famiglia ci scherzavano sopra, mi davano nomignoli poco simpatici”.
Ad esempio? Come si rivolgevano a te per scherzare sul tuo bipolarismo?
“Ad esempio… io sono del ‘65: all’epoca c’era la tv dei ragazzi. C’era la favola della principessa con il principe azzurro (ovviamente). C’era questo folletto molto focoso di nome fafifurnio. Questo folletto aveva un compito fondamentale: custodire l’anello della principessa… io ero fafifurnia a casa perché avevo questi scatti di rabbia e nessuno si era accorto che fossero dovuti a qualcosa. I bambini che crescono sani non hanno questi scatti di rabbia. Chi diceva di volermi bene, in realtà, non me ne voleva tanto.
Ora insomma fa parte di me questo stato depressivo che si protrae, la diagnosi di bipolarismo, la diagnosi maniaco depressiva e mi sento un po’ come una carcerata: le mie non sono sbarre di metallo inaccessibili dal di fuori ma mi sento come in un buco nero. Nel senso che non ho appigli, non ho punti di riferimento, dal di fuori l’orizzonte degli eventi non si vede, io non lo vedo e, dentro, mi sento immersa come nel catrame. Questo fa parte di me, del mio essere. So che mi dovrò abituare a questo stato dal quale non si guarisce mai del tutto ma si può migliorare. Aspettiamo perché, per ora, gli psicofarmaci non stanno facendo molto e mi danno anche effetti collaterali non molto belli.
Come dicevo, della mia identità personale è parte integrante e fondamentale l’essere lesbica. L’essere giornalista pubblicista è un’altra parte importante perché mi permette – anche se sono una giornalista squattrinata – di divulgare nel mio piccolo ciò di cui riguardano i diritti civili e umani”.
Ho visto, infatti, che scrivi molto riguardo gli stereotipi di genere e i diritti civili
“Il fatto di essere lesbica, comporta una doppia discriminazione: in quanto femmine e lesbiche. Il fatto di essere femmine, rientra in quel maschilismo e patriarcato in cui siamo tutte noi donne imbevute. Quindi, questa doppia discriminazione comporta il fatto di essere invisibili. Molte non riescono ancora oggi ad uscire allo scoperto perché la paura è quella di perdere il lavoro”.
Tu hai rischiato di perdere il lavoro dopo aver dichiarato la tua omosessualità?
“Sì, ho perso il lavoro ma ho scoperto dopo che il motivo fosse stato quello. Ho fatto una causa di lavoro per altri motivi perché non mi potevo appellare a una legge contro l’omofobia, perché non esiste una legge che consideri come aggravanti le violenze verbali o fisiche di stampo omofobico. Salvo poi scoprire da un’avvocata di Milano che c’era un precedente ma, all’epoca, non lo sapevo. Era tra il 2010 e il 2011.
La metodica, nel mio caso, è consistita dal farmi terra bruciata intorno: dapprima mi hanno messo a part-time (e la causa l’ho scoperta dopo e tralascio di dire tutte le frecciatine ricevute).
Le frecciatine sono iniziate quando ti sei dichiarata?
“No. Il problema è che io, all’epoca, non mi dichiaravo se non a persone di cui ero sicura perché la mia compagna di allora mi aveva messo in guardia. Lei mi diceva ‘lo vuoi dire a tutti perché ti sei liberata, ma stai attenta. Cerca di discernere tra gli ambienti in cui puoi farlo e quelli in cui non puoi”. E così mi ero comportata. Però, una collega non propriamente etica, un giorno durante la pausa pranzo, scesa dalla mensa, mi ha sentita al telefono con la mia compagna di allora e ha captato la desinenza, secondo lei, sbagliata: al femminile anziché al maschile. L’outing conseguente di questa donna, su in mensa, è stato terribile. Quando lo sono venuta a sapere tramite un’altra collega, sono morta. L’outing è, per chi non lo sa, quando si parla alle spalle di una persona omosessuale, come successo nel mio caso: quando viene detto di una persona che lo è (anche se non lo è).
Questa è stata la causa scatenante di questa pratica omofobica nei miei confronti. E, come spesso dico, sono riuscita a liberare totalmente me stessa grazie ad un bagaglio di esperienza forte, nel momento in cui ho perso il lavoro”.
Questo perché, avendo perso il lavoro a causa dell’omofobia, hai reagito?
“Sì, per quanto male mi abbia fatto questa cosa, ho capito che stavo vivendo nel terrore di venire scoperta. Penso sempre che dal male nasca sempre il bene: da questo evento negativo e violento nei miei confronti è nata la mia libertà. Non ho nemmeno mai avuto la sicurezza in me stessa… poi ho capito che quello che conta sono io, la mia persona. Da lì, è iniziato questo cammino di liberazione vera che era solo iniziato. Nel 2007, a 42 anni, quando ho scoperto che cercavo dalla parte sbagliata, era solo un cammino all’inizio. Forse lo stato depressivo mi ha portato a non contenermi più: ho passato la mia vita a contenermi, a non far vedere la mia rabbia… e mi chiedo ‘perché lo devo fare?’. Sono forte di una carica diplomatica: decido io quando devo buttare fuori tutto. E, per il resto, ‘muoia Sansone con tutti i Filistei’. Non è scritto da nessuna parte che io non debba e non possa farmi le mie ragioni”.
Dicevi che ti sei resa conto della tua omosessualità a 42 anni. Cosa ti ha fatto aprire gli occhi capendo di essere lesbica?
“Un’amica bisessuale mi aveva parlato di sé. Mi è passato per la mente: ‘Vuoi vedere che, visto che non sono insensibile alla bellezza femminea, forse sarò anche io bisessuale?’. È stato un pensiero di un giorno, poi ho capito che i maschi, proprio, non mi dicevano nulla. Tra l’altro avevo un passato da eterosessuale convinta: le bambine, quando vengono al mondo, non hanno modelli alternativi. Viene detto loro che devono crescere e studiare, sposarsi e mettere al mondo figli.
Ero sempre stata attratta dalle bambine da piccola. Il problema è che – a parte che in casa non eravamo mai giudicati per qualcosa che riguardasse noi – non avendo un altro modello, ho pensato che anche io avrei dovuto studiare, laurearmi, cercare il fidanzato, mettere su famiglia e fare dei figli… il problema è che è stato un disastro”.
Quindi sei stata fidanzata con degli uomini per lungo tempo?
“Gli anni di galera più lunghi che mi sono data sono stati 10, tra l’altro con un carnefice veramente tosto. Quando ho detto basta, ho ricominciato a rifiatare. Convivevamo e quando sono riuscita a tirarmi fuori con le mie mani, mi sono chiesta cosa ci fossi rimasta a fare lì… a farmi violentare psicologicamente tra l’altro.
Quindi, quando mancano questi modelli alternativi, si cresce pensando di dover essere come impone la società e impone il cattolicesimo. Invece no”.
Quindi, in fase adolescenziale, ti innamoravi di donne ma ti imponevi di stare con uomini?
“Sì. Poi, a livello fisico, mi piacevano i ragazzi. Ma finiva lì. Non avevo attrazione fisica forte. Ci andavo per dire ‘vediamo come va’. Poi, si è scatenata questa cosa e… sono tornata a ‘casa’”.
Quali opere hai realizzato in tema diritti civili?
“Parto dal mio primo libro cartaceo: L’amore Autentico. Contiene le interviste a due madri cristiane di due ragazze omosessuali. Una è cattolica, di Livorno. L’altra è credente ma non si identifica in una particolare religione, ed è di Milano. Sono Milla e Ursula. Questo libro mi è costato tanta fatica, non tanto per la stesura ma per la ricerca dell’editore… poi ho trovato le Sorelle Gabrielli di Verona. Era il 2014. Si parla del difficile e spesso rapporto travagliato delle persone credenti a vario titolo ma soprattutto cattolici, con figli o fratelli o sorelle omosessuali.
Poi ho scritto un libricino di poesia Haikus: quando si scopre la poesia, si rende pubblico un atto intimo. Queste brevi poesie sono racchiuse in Soul Seasons Haikus (gli Haikus della stagione dell’anima) riguardano un percorso che ho iniziato verso la mia spiritualità e penso non terminerò mai. Fa parte della mia intimità ed è inscindibile dalla mia identità personale. Qui ho messo tutta la mia natura, l’amore lesbico e i nomi delle persone a me più care.
Ho pubblicato anche A testa altra: è una raccolta di brevi biografie lesbiche, è fuori produzione. Sono coautrice con altre tre attiviste. È un progetto al quale tengo molto e voglio abbia una continuazione. Ho già le storie di altre ragazze. È il mio modestissimo contributo ad aiutare le ragazze lesbiche ad uscire allo scoperto: con le testimonianze di altre ragazze che ci sono riuscite, forse, si dà una spintarella. In questo libro ho scritto anche la mia storia. C’è anche quella di una docente che si era resa conto di essere lesbica da bambina. Poi c’è la storia di una scrittrice e femminista. Le altre storie che inserirò nel secondo volumetto saranno quelle di due lesbiche femministe, si parlerà dell’attivismo lesbico degli anni ’80. Poi ci sarà anche una storia di una ragazza lesbica che fa la commessa: è una madre, ex moglie che, un giorno, si è innamorata perdutamente di una donna entrata al suo negozio… così sono andate a vivere insieme.
L’ultimo libro che ho scritto è Drag Queen, del fotografo Daniele Robotti. Una tematica che anche Claudio Bottan ha approfondito. Sono stata onorata di aver curato i testi di questo libro fotografico.
Tornando alla tua vita personale, mi accennavi di essere in una coppia di fatto con il tuo gatto…
“Le persone sorrideranno ma io ci tengo molto. Topolino, il mio micio, è arrivato in questa casa ad aprile 2014. È un trovatello che stava morendo di noia e solitudine in un gattile di Genova. Quando mia madre l’ha visto, ha pensato di portarlo via. Arrivato a casa, era impaurito. Ora è ambientato e sano. Non so cosa gli sia successo.
Quando ho avuto il crollo, era agosto 2014, trascorrevo le mie giornate al sole, sul terrazzo, sulla sedia a sdraio, o a dormire o leggere… e lui era sempre accanto a me. Era l’unico individuo che io volevo accanto e che riuscisse a starmi accanto. Mi ha salvato da molte situazioni, io non sopportavo neppure i miei: c’era mio padre malato di sclerosi multipla che litigava spesso con mia madre e io ero tornata a casa loro dopo la separazione dalla mia compagna. E Topolino mi stava accanto: i gatti, di solito, sono molto individualisti mentre lui mi ha cercata mentre io non facevo altro che piangere e avere pensieri neri. Per questo dico di essere in una coppia di fatto con lui. E questo rapporto continua: attraverso il suo esempio ho capito che le persone vanno lasciate libere di fare quello che si sentono di fare e non vedo perché, se noi riusciamo a farlo con un gatto o un altro animale, non possiamo riuscire a farlo con le persone. Questo mi ha dato un po’ di conforto. Non nego di non avere più i pensieri di morte: spesso mi chiedo cosa sono al mondo a fare, mi sento inutile non avendo un lavoro retribuito a quasi 50 anni e stare a casa con mia madre, ora vedova, non è la migliore delle scelte. Ma per lo Stato Italiano non sono più abile al lavoro e pazienza… ma qualcosa troverò.
L’idea di lasciare libere le persone, per me, è diventata fondamentale. Topolino si deve sentire libero con me di fare ciò che vuole, non ha vincoli. E, secondo me, questo dovrebbe essere un bell’esercizio anche con l’essere umano. Certe volte mettiamo i blocchi di cemento ai piedi: così le persone le rendi impotenti, non si possono più muovere. La libertà dovrebbe essere la spinta più forte dell’essere umano insieme all’amore. Abbiamo capito che così non è, perché siamo un branco di disillusi e disilluse. Però, quando troviamo delle persone che ci sono affini – non parlo più di anima gemella tanto non ci credo più – il più grande regalo che possiamo far loro è di lasciarle libere. Ed è quello che ho dovuto imparare da questo stato depressivo annichilente”.
Quindi hai accettato di non stare più con la compagna con cui stavi, però hai speranza di trovare un altro amore?
“Non lo so, non ci credo più. Perché, se io mi dovessi mai mettere, di nuovo, con una manipolatrice… no. Ora conto io, il mio benessere, ciò che voglio io. Dopo aver passato la vita a volere il bene degli altri, senza avere un riscontro, non mi piace: non voglio più queste cose. Certo, la speranza c’è sempre… ma vorrei essere lasciata libera di essere ciò che sono”.
Qual è la tua canzone preferita?
“Ne ho una marea… come faccio a rispondere? Ce n’è una che, a livello spirituale, mi apre il cuore. È di Yanny, To the One Who Knows. È un assolo di pianoforte che dedica al suo rapporto con Dio, è una dedica a Dio, ‘al solo che sa’. Lì ritrovo la mia parte spirituale, mi riconcilio con essa perché non è facile ritrovare la propria spiritualità.
Poi c’è Ovunque Proteggi di Vinicio Capossela: è un brano di amore puro. Nelle parole percepisci la volontà di far sì che le persone che ami stiano bene, senza sé e senza ma. È un inno all’amore, al benessere, al tentativo di trovare qualcosa che vada bene in un grande dolore. Sono un inguaribile romantica… e per me ora le amicizie sono tutto: ho un cerchio di amici e amiche che mi tiene con i piedi per terra e mi coccola. Purtroppo sono tutti fuori Genova, addirittura una a Reggio Calabria”.
Vuoi aggiungere altro?
“Tengo a dire che scrivo per Tempi di Fraternità. È un mensile cartaceo che le redattrici e i redattori colleghi miei stanno tentato di portare avanti con enormi sacrifici perché, la crisi dell’editoria, lungi dall’essere passata, è nel suo pieno. Invito sempre tutti ad abbonarsi perché ci sono delle combinazioni molto belle che consentono di avere anche un settimanale di altro cristianesimo ad un prezzo interessante. I temi trattati non sono solo di cristianesimo progressista (sulla falsa riga della teologia della liberazione, nata dagli esiti del Concilio Vaticano II). Ogni mese ci sono articoli belli: si parla di carcere, problemi sociali, povertà, commento al Vangelo, LGBT, infanzia e gioventù. Uno sguardo sociale a tutto tondo tenuto insieme da un gruppo di persone preparate”.