Il pregiudizio in stazione – Racconto

Vedi il treno sfrecciare davanti ai tuoi occhi delusi. Solo un minuto prima e l’avresti preso, solo due minuti e in questo preciso istante non staresti sentendo il rantolo soffocato di un senzatetto che sembra stia per morire. Bloccata in stazione, pensi che nemmeno il sole pomeridiano riuscirà a cancellare il disgusto.

Una bambina si mette a strillare e ti sembra quasi di esser sul treno, ma non lo sei. Catturata nella rete del tempo morto dell’attesa, ascolti il frastuono assordante di questo luogo maleodorante e caotico. Qualcuno verrà a chiederti dei soldi oppure infrangerà la tua bolla protettiva di silenzio e distrazione, sarai disgustata una volta ancora dal fragore dell’umanità in transito e penserai che non c’è dignità nel non sapere dove stai andando.

Guardi lo smartphone che ti restituisce un’espressione stranita nel riflesso dello schermo nero. Ma appena sollevi gli occhi, un ricordo si impossessa di te. Un sorriso affiora sulle tue labbra che si contraggono leggermente a sinistra, un tuo sguardo divertito si posa tra l’aiuola e le scale. In un luogo così pubblico, un ricordo così privato.

Ritorni a sette anni prima, quando, adolescente, frequentavi questa stessa stazione ogni giorno per transitare tra le tue diverse prigioni. C’era una ragazza con la sigaretta tra le labbra che ti aveva sedotta per il suo modo d’apparire, una ragazza fragile, all’apparenza incurante di tutto, che percorreva quel breve tragitto con te fino alla stazione. Un giorno, all’improvviso ti aveva confidato senza mezzi termini che la sua confusione riguardava te.

Dopo averti dato un bacio sulle labbra che tu desideravi senza nemmeno esser conscia di avere quel desiderio, lei ti chiede se può dirlo a qualcuno. Non rifletti nemmeno un istante perché una voce meccanica risponde al posto tuo. Dici “no, non parlarne“. Quando torni a casa hai le farfalle nello stomaco al pensiero di ciò che è successo, non per il bacio in sé, ma per la sfida che aveva rappresentato, l’averlo ricevuto e dato senza che fosse, per te, qualcosa di sbagliato.

Era strano, eccitante e pericoloso, desiderato e sognato, intenso, ma giusto. Quando ancora non sapevi nulla, era facile non giudicare. Ripensi a questo episodio dolce e malinconico, perché lei nemmeno ti piaceva. Ciò che ti trascina nel presente è un’inspiegabile sensazione di disgusto, sai bene chi sei ora e sai bene quale etichetta ti sarebbe affibbiata se ti vedessero mano nella mano con la tua ragazza.

I tuoi desideri ora sono consci e potresti anche rivendicare quell’etichetta con orgoglio. Anzi, già lo fai e senti di non aver paura quando ne parli. La stazione che ti circonda però, è un luogo così squallido da farti venire una morsa allo stomaco, perché solo ieri eri sull’autobus con lei, la persona che ami con un’estrema ed equilibrata costanza, e lei ti guardava come se desiderasse una carezza.

Ma tu, come se avessi indossato una maschera di cera le diedi come risposta il sorriso scostante che riservi agli estranei. Per proteggerla, ti dici, mentre tenti di giustificare con i fatti di cronaca questa freddezza. Perché proprio ieri hai anche letto sul giornale che due lesbiche sono state insultate e che hanno sputato loro addosso, non nella periferia di un paesino, ma a Parigi. Allora dici a te stessa che se in pubblico eviti di guardare i suoi occhi è per non mostrarle la paura che provi. Congeli ogni manifestazione del tuo amore.

Ogni cosa che ti dici è una bugia perché in te non ci sono né paura né forza di proteggerla, lì nel fondo delle tue pupille c’è la vergogna. Il giudizio spietato che disumanizza i drogati della stazione così come chi, per te non ha un aspetto decente, è lo stesso che altri occhi hanno posto su di te. Ti vergogni di esser simile a chi ti giudica, il tuo disgusto così umano e radicato nel pregiudizio ti fa venir voglia di fuggire da qualsiasi luogo per trovare la pace e l’orgoglio necessari a sentirti meno ferita.

Nei tuoi baci qualcuno vede ciò che tu vedi in stazione, questo pensiero così limpido e semplice ti rende triste, rassegnata. Gli occhi che vedono l’indecenza e sono disgustati, non distolgono il loro sguardo ma incidono la realtà con violenza. Penso alla mia ragazza e al suo sguardo dolce che si posa nel mio, qualcuno potrebbe guardarla con un tale odio da volerla morta.

Questo pensiero mi trasmette un’ultima scarica di angoscia e terrore, ingiustificata perché sono una ragazza che sta in piedi in una stazione in un giorno assolato di marzo. Non passa il disgusto, non cessa di esistere il degrado attorno a me e non riesco a provare pietà. Perché non voglio. Vorrei non dover guardare la realtà con occhi che giudicano, perché negli occhi degli altri riconosco troppo accuratamente quella calcolata distanza del rifiuto.

Vorrei arrivare al punto in cui sono vittima e posso perdonare il qualcuno che mi umilia, ma fino a quando sarò io quella persona? Mi riprometto di tenere stretta la mano della persona che mi rassicura sul mio valore, ma ogni volta che le sue dita sono intrecciate alle mie, giudico uno sbaglio e un errore mettere in mostra ciò che rappresentiamo. Possiamo esistere solo negli spazi in cui troviamo la libertà di non aver né paura né vergogna, ma nessuno che lotti per noi o con noi può toglierci l’orrenda sensazione che esse suscitano.

Il mio ultimo sguardo è per il tabellone che segna un ritardo del treno di trentacinque minuti, se solo lei fosse stata qui con me, forse oggi l’avrei baciata. Vorrei che questo fosse il treno che mi porta a casa ma sono immersa nella solitudine, invasa dal contatto con l’Altro e sono un’estranea tra gli estranei.

Quando finalmente salgo sul treno, un uomo anziano mi sorride come se avesse captato nei miei pensieri un’ombra di tristezza. Quando gli sorrido di rimando, gli sto dicendo che l’ho scelto per aver fiducia in qualcuno, sto cedendo all’illusione che ripristina la vergogna in fiducia e so che quando il viaggio sarà finito mi sarò lasciata tutto alle spalle.

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