Il cammino lo attira come la luna attira le maree. Pietro Scidurlo, classe 1978, originario di Somma Lombardo (Varese), fino a una decina di anni fa non avrebbe mai pensato di riuscire ad affrontare il Cammino di Santiago. Ma lui, che dalla nascita non può camminare a causa di un errore medico, ha accettato questo inaspettato destino. Così, alla fine, di cammini ne ha fatti almeno 10, per un totale di 6mila km, in compagnia della sua handbike e di fedeli amici.
Da quella prima esperienza, nel 2012, è nata Free Wheels Onlus, con lo scopo di mappare percorsi e itinerari per persone con esigenze specifiche, associazione di cui lui è presidente. Insieme a Terre di Mezzo, invece, ha pubblicato il libro “Santiago per Tutti”.
Oggi Free Wheels Onlus è impegnata nella mappatura di nuovi percorsi, tra cui la Via di Francesco, da Firenze ad Assisi, in collaborazione con l’Associazione On. Per le sue esplorazioni ha scelto di viaggiare con il suo Klaxon Klick, una terza ruota che trasforma la carrozzina in uno scooter elettrico.
Lo abbiamo intervistato per scoprire insieme la sua esperienza…
Chi è Pietro Scidurlo?
«Pietro è un ragazzo che, a causa di un errore di valutazione medica durante il parto, ha avuto una lesione midollare che non gli ha permesso di camminare, da sempre. Questo non mi ha aiutato negli anni. All’inizio l’unica cosa che mi ha aiutato è stata l’educazione che mi hanno dato i miei a non arrendermi mai alle difficoltà della vita. Arrendersi è la scelta più semplice che possiamo fare, vale in ogni campo e per tutti. Abbiamo tutto il tempo per poterla fare. Nel frattempo possiamo fare altri tipi di scelte, per esempio non arrenderci, trovando altre soluzioni.
Così, ho cercato di non arrendermi di fronte a questa quotidianità ad ostacoli che mi è stata imposta. In ogni caso, sono cresciuto in un tessuto sociale che non era pronto ad accogliere persone con esigenze specifiche – nel mio caso persone a ridotta mobilità – e ancora oggi non è pronto.
Un esempio tra tanti: anche le persone che ruotavano intorno a me, o in generale le persone negli anni ‘80 e ‘90, non erano pronte a interfacciarsi nel modo giusto con le persone con disabilità. Quest’ultime rappresentavano infatti un tabù. Oggi quando diciamo che si ha paura di ciò che non si conosce, è verissimo. Si ha paura di qualcosa di cui non ci si informa. Nel momento in cui ci ragguagliamo in merito, le cose diventano più semplici.
Un altro esempio: se un giorno scopriamo di avere una malattia a noi sconosciuta, siamo molto spaventati. Nel momento in cui prendiamo la giusta distanza con quella che è la realtà, tutto diventa invece più semplice. Questo l’ho riscontrato in tantissimi aspetti, dalle amicizie all’affettività, alla sessualità, ai rapporti sul lavoro, alla scuola. Tantissimi sono stati i frangenti della mia vita in cui le cose non potevo viverle come le altre persone. Questo creava una persona difficile da gestire, proprio perché ero molto insoddisfatto.
Il “problema” non era il fatto di essere trattato in maniera diversa, quanto piuttosto il fatto che non mi capacitavo di come le persone non avessero quella curiosità tale da permettere a noi persone con disabilità di farci conoscere, quindi di avere meno paura di noi, meno timore di quello che rappresentava la disabilità in quegli anni. Insomma, questa mancanza di voglia da parte degli altri di scoprirci rendeva complicato approcciarsi a me».
Cosa significa “le barriere più grandi sono quelle della mente”, motto della tua associazione Free Wheels Onlus?
«È una domanda che nessuno mi ha mai posto. Forse tutti davano per scontato di averla compresa o forse solo perché piace. Questa frase ha però delle radici importanti. “Le barriere più grandi sono quelle della mente” significa che, nel momento in cui ci convinciamo che una cosa non possiamo farla, automaticamente ci poniamo nella condizione di non poterla realizzare, pertanto non la compiremo mai.
Potrei raccontarti milioni di esempi che mi sono capitati in ogni aspetto. Alcuni mi hanno detto: “Il Cammino di Santiago non riuscirai mai a farlo”. Ho sempre risposto così: ciò che noi reputiamo impossibile da fare è ciò che non abbiamo il coraggio di fare. Siamo noi a rendere impossibile qualcosa, mancando di coraggio, costruendo una barriera mentale, difficile e a volte impossibile da abbattere, dove ci auto-convinciamo che quella cosa non possiamo farla.
Mi è capitato in varie occasioni, anche a causa della non conoscenza della mia situazione da parte di altre persone. In un caso di affettività, se ci si convince che qualcosa è impossibile, si è capaci di buttare a rotoli una bella storia d’amore, un’avventura che ti cambia la vita, un rapporto di lavoro etc.
Tu ti sei buttata in questa nuova avventura di Sguardi di Confine. Se ti fossi costruita una barriera mentale dove ti auto convincevi che non avresti mai potuto creare un giornale, non lo avresti potuto fare. Invece hai avuto il coraggio di non farti fermare dalle paure che la mente ti suggeriva ma che in realtà non esistevano. Hai permesso a te stessa di non costruire una barriera mentale e sei andata avanti. Insomma, l’unico limite di cui dobbiamo avere paura è quello che solo noi possiamo costruirci dentro, non con i mattoni, ma con i pensieri sbagliati».
Cosa ti aspettavi dal Cammino prima di partire?
«Quando sono partito ero in cerca di redenzione, perdono per me stesso. Questo, perché, una delle cose che ancora oggi fatico a perdonarmi, anche se non è stata colpa mia, è stata quella di aver significativamente cambiato la vita a tutte le persone che ruotano attorno a me, dalla mia famiglia in passato ad oggi alla mia morosa con la quale, se Dio vorrà, cercherò di costruirmi una vita.
Mi spiego. Una persona che ruota attorno ad un’altra che ha delle difficoltà viene segnata; non come accezione negativa, sia chiaro, ma viene portata a vivere qualcosa che gli altri non vivono. Ci sono aspetti piacevoli e altri meno piacevoli. E qui torniamo al discorso del proprio Paese. Se si vive in un luogo che non è pronto ad accogliere persone con esigenze specifiche, alla pari degli altri, allora le questioni negative possono essere più di quelle positive.
Un esempio su tutti: una volta andai a Venezia e passai 8 ore al telefono per trovare una struttura dove poter andare a dormire e che fosse facilmente raggiungibile per me attraverso i ponti. Alla fine trovai una bettola dove, per poterci arrivare, ho dovuto passare 3 ponti con l’aiuto di altre persone. Ho trovato lì un bagno non accessibile, grande 1 metro quadro. Questo fa capire come le nostre città ancora oggi non sono pronte. Certo, se metti mano al portafoglio e vai a dormire in un hotel di lusso, allora risolvi tutti i problemi. Credo però che il mercato dovrebbe offrire pari opportunità a tutti».
Cosa significa per te il Cammino?
«Intraprendere un’esperienza di cammino o pellegrinaggio, ti porta a contatto con un mondo al quale non vorresti più rinunciare. Prendi misura della vera realtà, della vera relatività, di quanto alcune cose che reputiamo importanti nella nostra vita, forse non sono così essenziali. Per esempio, gli oggetti di cui ci circondiamo, forse non sono così fondamentali. È una continua presa di consapevolezza. Questo fa comprendere il vuoto che si auto genera nel momento in cui non riesci più a camminare.
Se un’esperienza ti tocca in maniera così profonda il cuore, inevitabilmente te lo solca e, quando non riesci più a farla, il ricordo ti divora un po’, perché continui a vivere in quella realtà dove l’immagine conta più dell’essere. In cammino, re o schiavo che tu sia… siamo tutti persone con una mano tesa verso l’altro.
Il primo cammino che ho fatto è stato nel 2012. Nacque in maniera totalmente casuale, ovvero circa 8 anni prima, quando incontrai una persona di cui oggi ho infinita stima e che mi piace sempre ricordare. Questo perché poi feci insieme a lui anche altri cammini. Si dice che “le strade dei pellegrini si incrociano sempre” e questo è un detto davvero valido. Si chiama Giovanni Baracchetti e ci conoscemmo ad un pranzo; aveva appena percorso il Cammino di Santiago. Vide che non ero una persona serena e mi raccontò della sua esperienza. Mi disse che nel Cammino c’erano tante parti in asfalto e che avrei potuto farcela.
Gli risposi: “Cos’è, una di quelle robe religiose? Non fa per me”. Invece questa proposta cominciò a lavorare dentro di me da quel giorno. Tacitamente si è fatta spazio e strada nella mia anima. È come quando assaggi un gusto per la prima volta, da piccolo. Inizia a piacerti sempre di più e, a un certo punto, vuoi solo quello.
Così è stato per me. Inconsapevolmente, 8 anni dopo sono arrivato a un punto dove sentivo che potevo solo partire. Mi sentivo come in un tunnel: troppo dentro per tornare indietro, troppo avanti per non proseguire e tentare di vedere cosa mi riservava il mondo al di fuori. Non accettavo la mia disabilità, non mi capacitavo degli errori che erano stati commessi verso di me e non mi rassegnavo a delle scuse che non mi erano mai state fatte, né da chi ha commesso l’errore, né dalle famiglie vive e vegete, ancora oggi coscienti della superficialità di chi ha dato loro la vita e a me l’ha tolta.
Mi aspettavo un rimborso che mi spettava e non è mai stato riconosciuto. Tra loro dottori, nessuno avrebbe dichiarato a suo tempo di aver commesso un errore. Non avevamo in mano nessuna carta, nessun documento che asserisse l’errata valutazione medica al parto, quindi i miei genitori non potevano chiedere alcun risarcimento. L’unico pensiero dei miei genitori era quello di cercare di farmi inserire in un tessuto sociale nel quale crescere sereno e così hanno fatto. I miei genitori hanno costruito delle solide basi su cui poi io ho edificato il mio futuro. Però soffrivo del fatto che nessuno si era preoccupato di scusarsi con noi o venirci a cercare, neppure i figli di questi medici, pur consapevoli dell’errore dei loro genitori.
Nessuno è mai venuto a bussare alla nostra porta. Forse per mancanza di coraggio, forse attendevano che il silenzio calasse su questa brutta storia o forse attendevano un perdono che sicuramente non arriverà mai, almeno se le cose rimarranno così. Insomma, tutta la questione ha creato in me la sensazione di non accettazione della mia forma di disabilità.
Nel 2012 questo mio amico, Giovanni, seminò in me il seme del cammino che poi mi portò a farlo germogliare. In realtà sarei dovuto partire con un’altra persona che all’ultimo mi abbandonò per futili motivi. Ma mio padre mi disse: “Non ti preoccupare, veniamo noi con te”. Oggi, con il senno di poi, penso sia stato il mio più bel viaggio con la famiglia. Fino ad allora avevo visitato molti luoghi con loro, ma per arrivare in cliniche ospedaliere. Questo Cammino ci ha così restituito un’identità di famiglia più unita e capace di vivere un’esperienza anche borderline, come il cammino, insieme».
Cosa ha significato per te il primo Cammino di Santiago?
«Il Cammino di Santiago del 2012 fu il cammino che cambiò tutta la mia vita. Ci fu un momento in cui mi ritrovai a Pedalare, Pregare e Piangere. Le definisco le 3P. Questo mi ha aiutato a tirare fuori una sofferenza come non ero mai stato in grado di fare. Ho incontrato persone di ogni età, sesso, religione e provenienza. Il Cammino di Santiago ti dà davvero la possibilità di toccare il mondo e le emozioni che il mondo stesso può regalare a te.
In questo, l’esperienza dell’incontro ti può aiutare a superare la tua sofferenza. Così è stato. Quest’esperienza ha inciso così fortemente su di me che, dopo 8 mesi dal mio ritorno, mi sono sentito richiamato. Ho sentito che il Cammino mi attirava come la luna attira le maree.
Questa esperienza ha assunto diversi connotati. Quando ho abbracciato quest’idea, pensavo al cammino come la mia via d’uscita, la mia possibilità di trovare la strada per riuscire a (ri)costruire una vita fatta di serenità. Così è stato. Il cammino per me era una possibilità insomma. Poi, man mano che lo percorrevo, mi rendevo conto che ciò che pensavo del Cammino cambiava dentro di me. Ho iniziato a vederlo non più come un’opportunità solo per me ma anche per gli altri.
Quindi, ho iniziato a raccogliere informazioni sull’accessibilità dei luoghi che toccavo per permettere ad altri di visitarli un domani. Oggi mi sento parte di esso. Sono rimasto appeso a questa esperienza. Oggi il cammino per me è quell’occasione di restituire al cammino stesso il bene che ha fatto a me, perché ciò che ha dato a me lo può concedere a tante altre persone. Un pellegrinaggio dà la possibilità di diffondere questa esperienza e la sua potenza. Il Cammino, insomma, è un’opportunità prima per se stessi, poi verso gli altri e quindi per il cammino stesso».
Durante il tuo primo Cammino ti ha accompagnato un blog…
«Quando partii nel 2012, mia sorella Chiara mi disse, per ridere: “Cerca di farmi sapere qualcosa, altrimenti qui crepiamo tutti”. Così, insieme a Haitham ho deciso di aprire un blog a mio nome. Lì cominciai a scrivere quello che facevo. Da quando mi alzavo a quando andavo a dormire, compresi i pensieri che mi passavano per la testa.
Questo mi portò presto, e inconsapevolmente, a essere sotto gli occhi di tante persone. Non lo sapevo perché ero molto raccolto in ciò che facevo. Non sapendo neppure dove potermi fermare a fare pipì, ero concentratissimo sul percorrere il mio sentiero. Ovviamente nella guida che avevo comprato non trovavo informazioni per me, le informazioni sugli alberghi accessibili le ottenevo dagli stessi gestori dell’albergo dove dormivo la notte prima. Facendo segreto sugli insegnamenti ricevuti durante la preparazione fisica e mentale sulla gestione del respiro e della fatica, cercavo di portare a termine la mia tappa senza pensare ad altro.
Quando guardavo dietro di me, c’erano mio padre e un ragazzo atletico di 22 anni. Mio padre è stato per me il vero eroe di quel Cammino, aveva 60 anni. Uno “zaino” da 90 kg da trasportare e una Spada di Damocle fissa sopra la sua testa: l’impossibilità di deludermi nel non riuscire ad arrivare assieme a me a Santiago. Delusione che non esisteva nella mia testa perché fin da subito partii pensando che il primo aiuta l’ultimo e viceversa. A Santiago saremmo arrivati tutti insieme.
Poco prima del mio arrivo nel capoluogo galiziano, una macchina fece inversione di marcia e mi parcheggiò davanti: “Sei tu l’italiano che sta facendo il cammino? Ti chiamano ‘il ragazzo dei braccialetti’”. Non era una scelta di moda: ero partito con alcuni di essi a me cari, ma ogni volta che incontravo un pellegrino, questo mi lasciava un braccialetto di ricordo. E così scoprii di essere stato soprannominato “El Chico de las pulseras” e quel signore che mi fermò mi disse che “todo el camino habla de ti”, ovvero “tutto il cammino parla di te”.
Quando arrivammo in Plaza d’Obradoiro, davanti alla cattedrale trovai diverse facce amiche che erano state per me come bordone e calabaza, oggetti molto cari al pellegrino storico. E trovai anche alcune testate giornalistiche spagnole che mi attendevano. Non me lo aspettavo e non era pianificato. Solo attraverso il blog e i social si conobbe la mia storia.
In 14 giorni di questo primo cammino feci 36mila visitatori. Ero in cerca di redenzione per me stesso e l’ho trovata. Ma arrivò anche molto di più. Il mio vero merito non fu quello di percorrere il cammino, in molti prima di me lo fecero. Uno di essi – che mi aiutò a partire – fu l’amico Antonio Spica. Quel che io feci in più fu raccontare a tutti come risolvere i problemi prima e durante il percorso, in modo tale da renderlo possibile anche per gli altri».
Dalla tua esperienza è nato il libro “Santiago per Tutti”. Come si arriva a questo passo?
«Già durante il mio primo cammino pensai che sarebbe stato bello trovare un modo per aprire il Cammino di Santiago ad altre persone che potevano avere difficoltà simili alle mie o di altro tipo. Così cominciai a scrivere un taccuino durante quel viaggio. Prendevo appunti nelle strutture dove andavo. Nel secondo cammino ho preso altri appunti. E così, senza rendermene conto, ho preso informazioni per chi voleva partire dopo di me.
Presentammo il libro nel 2015 a “Fa’ La Cosa Giusta” insieme all’amico e testimonial Max Laudadio, inviato di Striscia La Notizia. Il giorno stesso, la guida venne distribuita in più di 1.500 copie. 800 erano già prenotate e le altre furono comprate in 3 giorni di fiera. In breve tempo ci fu la ristampa e oggi siamo a 8 mila copie stampate, 1.500 persone con esigenze specifiche che si sono rivolte a noi per partire.
Il risultato più bello è sul sito dell’Officina del Pellegrino: i numeri delle persone con disabilità che fanno il Cammino sono sempre più in crescita. Non è stato merito di Santiago per Tutti, ma ci piace pensare che forse abbiamo buttato un sassolino in uno stagno e questi numeri che vediamo in costante crescita non sono altro che i cerchi sempre più grossi di quel sassolino. Questa è una soddisfazione che nessuno ci può togliere».
“Santiago per Tutti” è un libro solo in italiano…
«Questo libro, essendo di proprietà della casa editrice, è un’opera unica ma ha anche qualche difetto. Aspettavamo una traduzione in spagnolo o in inglese che non è mai arrivata. Questo è un gap da ogni parte. La guida non è ancora conosciuta come dovrebbe anche in altri paesi e popoli. Con una traduzione si potrebbe dare la possibilità a molte più persone di intraprendere questa esperienza dell’anima».
Quanti cammini hai fatto dopo il primo?
«Da quel momento fermarsi è stato impossibile. Ho percorso 4 volte il Cammino di Santiago, 3 volte la via Francigena e infine la via Francigena della Val Susa per un video di promozione della regione Piemonte. Lo scopo era promuovere il turismo lento per tutti nella regione. Eravamo seguiti da due registi del Gian Maria Volonté che ripresero quest’avventura, “La nostra via”.
Abbiamo poi mappato il Cammino di San Benedetto, da Norcia a Cassino e abbiamo trovato una via accessibile per tutti anche su quell’itinerario grazie ad un progetto cofinanziato dalla Comunità Europea. Si possono trovare le informazioni o contattando Free Wheels Onlus o sul sito Open Up Routes.
In tutti questi progetti è stata fondamentale la collaborazione con SloWays e Radio Francigena che ci hanno aiutato – ci aiutano tutt’ora – nell’organizzazione e nella promozione dei cammini a cui ci accingiamo. Oltre a condividere con noi il concetto dell’universalità dei cammini.
Ora ci chiedono di mappare nuovi percorsi. Quest’anno abbiamo partecipato a due bandi, all’interno di un partenariato. I due progetti sono stati vinti alla grande, ma di questi vi sveleremo più avanti. Inoltre l’Associazione On, operante nel Parco delle 5 Vette, ci ha finanziato una mappatura della Via di Francesco, da Firenze ad Assisi. Sono progetti che avverranno con il tempo nei prossimi anni. Abbiamo già iniziato a lavorarci, scrivendo il progetto e ora il piano operativo. Ovviamente anche in questo caso cercheremo ulteriori fondi: per fare un lavoro fatto bene qualche piccolo aiuto serve sempre, intendo anche sponsor tecnici e Fondazioni.
Come dico sempre, non conto mai i cammini che faccio ma i km. Oggi posso dirlo: ho alle spalle 6 mila km, di ricordi, di emozioni, di pianti, di gioie, di abbracci. Migliaia di km di tutto quello che un’esperienza di pellegrinaggio può dare davvero, compreso il riavvicinarmi a una fede che in me era latitante da un po’».
Quali sono le barriere architettoniche in Italia?
«Questa domanda ha un inizio e non una fine, tanto quanto l’argomento. L’Italia di certo non è un paese all’avanguardia su questa tematica. Non permette alle persone con disabilità di vivere come gli altri. Questo dipende da fattori anche non modificabili, come la conformazione del territorio stesso. Non si possono mettere asfalti nei boschi per dare la possibilità a una persona a ridotta mobilità di percorrere i sentieri del CAI. È giusto trovare la corretta distanza tra fruibilità del territorio per tutti e rispetto per l’ambiente. È una questione alla quale Free Wheels tiene molto.
Ciò non toglie che ci sia moltissimo da fare su altri campi. Ad esempio pensiamo ai PEBA: Piani Eliminazione Barriere Architettoniche, emanati già una 30ina di anni fa. Se tutti i comuni li avessero applicati, saremmo un passo avanti. Invece ci sono state delle deroghe che hanno rovinato l’Italia da questo punto di vista. Le amministrazioni si attaccavano a queste deroghe per non applicare questi piani. Basta prendere un passeggino con un bambino per rendersi conto di quanto possiamo migliorare le nostre città, a cominciare dagli scalini e i marciapiedi troppo piccoli.
Quanto parlo di quotidianità ad ostacoli intendo questo. La mia disabilità più grande non è la ridotta mobilità ma quella di essere nato in un Paese non ancora del tutto accogliente. È un Paese che non mette il cittadino ignoto al centro delle proprie progettazioni.
Antonio Giuseppe Malafarina, amico e giornalista che stimo di InVisibili di RCS, cita il grande architetto Achille Castiglioni. A lui la Triennale di Milano ha dedicato una mostra in cui lo stesso progettista ricordava che “bisogna progettare per un fruitore ignoto”. Un concetto molto inclusivo, perché l’ignoto riconduce al chiunque, cioè a tutti. Questo auspico, che il mondo sia sempre più a misura di tutti».
Hai dei consigli pratici per la mobilità delle persone in carrozzina?
«Oggi esistono una serie di ausili tecnologici che ci permettono anche di andare su sentieri più o meno impervi. Abbiamo avuto modo di collaborare con diverse aziende. Oggi ci troviamo molto bene con la Klaxon che produce il Klick, una terza ruota che trasforma la carrozzina in uno scooter elettrico. Le caratteristiche principali che ci hanno colpito sono la robustezza e la resistenza agli urti, la maneggevolezza per gli spostamenti e altre caratteristiche tecniche che le permettono di resistere alle sollecitazioni alle quali si è sottoposti in un sentiero. Nonché la serietà dell’azienza.
Ha sede in Austria e ha creduto fin da subito in noi e siamo certi di poter concretizzare altri progetti a breve assieme. Questo ausilio lo si può avere anche tramite supporto dello Stato, in alcune regioni anche senza ulteriori contributi personali».
Cos’è per te la vita?
«La vita, come il cammino, ha assunto diverse forme. Prima pensavo a una vita itinerante dove avrei camminato molto a lungo, conosciuto in continuazione nuove persone e magari comprato o gestito un Albergue lungo il cammino del nord, in Cantabria.
Oggi invece la mia vita è cambiata, è arrivata una persona, Giulia, la mia ragazza. Con lei abbiamo deciso di costruire un futuro che non può prevedere soltanto cammini e viaggi. Questo futuro prevede altro. Insomma, oggi la vita per me è pensare di avere una casa, alzarmi la mattina sereno, avere un lavoro che mi permetta di stare bene ed essere soddisfatto e mantenere una famiglia che spero possa arrivare. Insomma serenità e pace con una casa e dei bambini, quelli che il Signore vorrà mandarci.
Poi, se sarò ancora in salute, penserò anche a ripetere un’esperienza di cammino. Nel frattempo cercherò di aprire nuovi itinerari per tutti attraverso l’associazione Free Wheels Onlus».
Qual è la tua canzone preferita?
«I miei passi di Fiorella Mannoia».