Per la ripresa del talk L’Intervista l’ospite scelto da Maurizio Costanzo ha prodotto ondate di indignazione che si sono riversate in più direzioni, dal profilo personale del conduttore sui social alle edizioni cartacee e digitali di numerose testate.
Da giovedì scorso, giorno in cui il faccia a faccia è andato in onda in seconda serata su Canale 5, l’opinione pubblica sta promuovendo una campagna di dissenso nei confronti del conduttore per l’azzardo di portare davanti alle telecamere il responsabile di uno degli omicidi più efferati degli ultimi vent’anni.
Impossibile non ricordare, o non conoscere oggi per chi non c’era all’epoca, la vicenda di Pietro Maso, il diciannovenne di Montecchia di Crosara (pochi chilometri da Verona) che nell’aprile del 1991 massacrò i genitori grazie alla complicità di 3 giovanissimi amici. L’obiettivo di mettere mano alla sua parte di eredità, per soddisfare il bisogno del lusso e del denaro da sperperare (e per saldare un debito accumulato riproducendo la firma della madre su un assegno), gli costerà 22 anni di carcere, una vita dietro le sbarre.
In un’epoca, la nostra, in cui la televisione rigurgita quotidianamente immagini e storie di crimini, omicidi e persone scomparse mai più ritrovate, il volto adulto e disorientato di Pietro Maso, nel salotto de L’Intervista, ha urtato la sensibilità degli spettatori, andando evidentemente oltre la capacità di coinvolgimento dimostrata per numerosi casi precedenti (Novi Ligure, Cogne o la recente vicenda di Noemi Durini, per citarne alcuni).
Il Maso a dire il vero l’attenzione dei media l’aveva già riacquistata tempo fa, per almeno due ragioni: la scarcerazione definitiva, ottenuta nel 2015 e il successivo ricovero presso una clinica psichiatrica dovuto alla caduta nel vertice della cocaina.
Su Pietro Maso è stato detto e scritto di tutto ma il motivo per cui la televisione ha scelto di riproporcelo sembra all’apparenza inedito: l’uomo che oggi ha 46 anni vuole liberarsi di ogni peso e di ogni incubo appartenente al passato, levare ogni maschera, far vedere al paese che lo ha conosciuto per la sua furia omicida di essere un uomo nuovo. Lo racconta il promo dell’intervista e chi meglio di Costanzo può accompagnare “questo” Pietro sulla soglia di una vita diversa?
Nessuno, Maurizio Costanzo è l’uomo giusto per questo genere di situazioni (vedi Anna Maria Franzoni). Si tratta di fare domande, ascoltare le risposte e non giudicare.
Quello che ci viene proposto, nella cornice di uno studio stilisticamente perfetto e impeccabile nel raccogliere il primo piano di ogni singola espressione e reazione, è tuttavia un riassunto dei fatti che la cronaca ha scandagliato per anni, con l’aggiunta in questo caso della multimedialità e del protagonista al centro del quadrato formato dai maxischermi. Alle immagini di quei giorni lontani sono accompagnate frasi salienti estratte da un libro che Maso ha scritto insieme alla giornalista Raffaella Regoli, presentato da chi conduce con qualche anno di ritardo (è uscito nel 2013 edito da Mondadori).
Non servono molti minuti per capire che Pietro Maso non ha in realtà nulla da comunicare e che le telecamere di Mediaset sono su quel set per altre ragioni (ad ogni spettatore il diritto di trarre le conclusioni in questo senso), ma vale forse la pena resistere fino alla fine (un’ora spaccata di confronto) per dedicarsi ad una sempre utile riflessione.
La panoramica costruita dai filmati stimola una reazione emotiva molto forte, resa ancor più d’impatto dalla componente musicale che insegue i fotogrammi di una famiglia che oggi non esiste più. Le personalità che Pietro portava in giro, il suo palcoscenico di provincia, la sera dell’omicidio, la sentenza e il carcere. Poi ancora il pentimento e la scoperta della fede. Si rimane incollati allo schermo, a tratti con difficoltà, domandandosi più che altro come faccia il Maso a non crollare circondato com’è da quel mix di ricordi. La vera risposta, una delle poche, la fornisce lui stesso:
“Non riesco ad esternare la sofferenza attraverso le lacrime”.
E’ qualcosa di autentico e inspiegabile o si tratta dell’ennesima maschera? Questa volta la risposta non arriva diretta ed esplicita ma va ricercata nel finale dell’intervista che Costanzo definisce la più interessante della sua carriera. Il conduttore è un fiume in piena, non si accontenta dei monosillabi e vuole aperture reali. Per ottenerle accantona i panni dell’intervistatore e indossa quelli inadatti dello psicoterapeuta alle prime armi, producendosi in una serie di maldestri strafalcioni.
Vuole capire in primo luogo il percorso mentale compiuto da chi uccide i propri genitori per saldare un debito (come fosse l’unica ragione del massacro), vuole la vera motivazione del gesto, percepisce la presenza di una corazza ancora troppo rigida per poter comunicare in totale sincerità. Tornare ad ogni costo a quella notte, applicando la moviola agli eventi che si sono susseguiti, produce come risultato una bella pagina bianca. Non era infondo necessario il tentativo di disegnare sfumature alternative a quello che già si conosce, attribuire le responsabilità alla droga (arrivata dopo in età adulta), lanciare enigmi concettuali (sei libero e hai il passaporto, lascia perdere le sostanze). Forse non era necessario complimentarsi proprio con Maso per la sua eleganza, per il gusto nella scelta delle scarpe da indossare in tv.
Ma cosa aggiunge allora in definitiva questa intervista all’identikit del nuovo Pietro? Ha davvero strappato le maschere che lo hanno portato alla follia?
E’ qui che Costanzo ha la sua seconda risposta, che è anche l’ultima, arenata dietro il senso del perdono, l’entità del pentimento e soprattutto dietro uno degli ultimi filmati, quello che riguarda la sua vita fuori dal carcere. Quello in cui compare Stefania, la donna conosciuta al bar della comunità dove Pietro presta servizio durante gli ultimi anni di detenzione. La donna che sposa da uomo libero e che poi gli dice addio per i suoi problemi con la droga e per la sua instabilità.
Per tutta la durata dell’intervista Maso ha avuto al suo fianco un piedistallo con un bottone da premere per interrompere i contributi filmati, nel caso in cui questi avessero toccato troppo in profondità il suo dolore o i suoi sensi di colpa. Quel pulsante rimane lì per più di quaranta minuti mentre passano i volti di papà Antonio e Maria Rosa, la madre, delle sorelle Nadia e Laura, di lui spavaldo in tribunale e bugiardo ai microfoni dei cronisti.
Maso crolla solo davanti a Stefania, il labbro inferiore inizia a tremare, gli occhi si riempiono di lacrime. Il palmo della mano affonda il pulsante, musica e filmato si interrompono.
“E’ questo il passaggio che ti ha colpito di più?”.
“ANDIAMO AVANTI”.
L’incontro è terminato ma Costanzo trova il tempo per inserirsi con un ultimo energico consiglio:
“Ricorda che l’amore non è un sentimento negativo”.
In conclusione abbiamo assistito all’ingiustificato ritorno di una brutta vicenda consegnata agli archivi, ugualmente consultabile per riflettere sui lati più oscuri dell’animo umano, senza la necessità di nuove luci o di un nuovo accompagnamento sonoro. Era importante dopo il delitto capirci qualcosa di più, sia per la crudezza degli omicidi, sia per la giovane età dei carnefici, andando così oltre le loro confessioni. E’ stato fatto per esempio da Gianfranco Bettin, inviato a Montecchia di Crosara per conto della trasmissione Rai “Profondo Nord”, in onda per raccontare il mutamento sociale, economico e culturale in atto nelle regioni settentrionali sul finire del secolo.
Le ricerche di Bettin, improntate dopo i fatti di Montecchia sul disagio giovanile, sul rapporto dei figli con i genitori, con le dipendenze, con la violenza e con molto altro, sono racchiuse in un libro che Costanzo non ha presentato e che si intitola L’Erede (Feltrinelli, 1992). Nel libro è contenuto quello che per l’intervista poteva essere un ottimo punto di partenza ma si trovano anche le ragioni per cui è giusto raccontare un simile fatto di cronaca, soprattutto quando la normalità di un luogo ristretto e sconosciuto viene stravolta da un evento tragico e inaspettato, alterando la quotidianità di tutti i suoi abitanti.
E’ un dovere di chi racconta i fatti attraverso i mezzi di comunicazione scavare a fondo e trovare risposte grazie alla voce di chi c’era e grazie a tutti gli strumenti che rendono l’indagine giornalistica uno strumento potente al servizio della collettività. E’ giusto, legittimo e utile farlo soprattutto se si parla di gente comune. Con i dovuti modi.