Alcune settimane fa, mentre si era alle prese con il pieno della pandemia, le agenzie stampa del mondo hanno dato notizia che il “nuovo” governo del Sudan, succeduto a decenni di dittatura militare, aveva aggiunto al Codice Penale della nazione africana un articolo che rendeva illegali le mutilazioni genitali femminili.
Una piccola digressione. Con “mutilazioni genitali femminili”, l’Organizzazione Mondiale della Sanità descrive la parziale o totale rimozione degli organi genitali femminili esterni (grandi e piccole labbra e clitoride), o altre lesioni a essi, per scopi non medici. Sono divise in 4 tipi, e si estendono, ad esempio, dall’escissione del prepuzio clitorideo, alla rimozione con riposizionamento delle labbra a chiudere parzialmente l’orifizio vaginale (conosciuta come infibulazione), alla cauterizzazione dell’area genitale.
Oltre agli inevitabili traumi che esse causano durante i rapporti sessuali – vulva e clitoride sono gli organi preposti alla maturazione del piacere sessuale femminile – le MGF possono causare complicanze quali emorragie severe, cisti, infezioni del tratto urinario, shock, difficoltà nel parto e aumentato rischio di morte neonatale e materna, senza arrecare alla donna alcun beneficio clinico. Si calcola che più di 200 milioni di donne attualmente in vita siano state sottoposte a queste pratiche in 30 nazioni tra Africa, Medioriente e Asia, dove il fenomeno è ancora altamente diffuso.
In occasione della sopracitata svolta normativa della nazione sudanese, abbiamo voluto approfondire. A questo scopo, ci siamo rivolti al dottor Abdulcadir Omar Hussein, ginecologo di origini somale in Italia da più di trent’anni, dove si è laureato e specializzato: con la moglie, anch’essa ginecologa, è da decenni impegnato in Toscana nella sensibilizzazione sociale e nella cura clinico/chirurgica a tutto tondo delle pazienti con mutilazioni genitali. Ci ha raccontato le donne – e gli uomini… – da prospettive che, ci scommettiamo, saranno per molti inedite.
Dr. Abdulcadir, che cosa significano per lei, nella sua esperienza, le mutilazioni genitali femminili (MGF)?
Venendo da un Paese, la Somalia, dove le Mutilazioni Genitali Femminili sono molto in auge, avendo visto le mie sorelle esservi sottoposte davanti a me, e nei 30 anni di esperienza all’Ospedale Careggi di Firenze, ho notato che la donna mutilata non si sente tale. Queste donne sono orgogliose, hanno affrontato un rito credendo di aver fatto un atto coraggioso, spinte dai genitori in quanto era il passaggio d’obbligo nella loro cultura per diventare una donna “completa”. Nel momento in cui invece si trovano in una società in cui ciò non è contemplato, quello che ieri era nobile può diventare espressione di abuso; sono disorientate, e talvolta chiedono supporto e aiuto. Quindi due piani: la fierezza, il non sentirsi mutilate, l’avere una dignità, e il chiedere aiuto a noi.
Riscontra quindi nelle stesse donne coinvolte una comunanza di interiorizzazione culturale e tradizionale.
Nelle prime generazioni non ho trovato donne che si sentissero vittime di qualcosa. Si tratta di donne forti, con una precisa identità culturale, fiere di ciò che sono e sono state. Le vittime sono le seconde e le terze generazioni: le bambine arrivate in Italia da piccole, o nate qui, si trovano spiazzate e divise tra la cultura del Paese che le ha generate o da cui hanno origine, e quella del Paese ospite. Quindi si percepiscono prive di identità, e man mano che crescono sono donne che, anche se mutilate da piccolissime, si sentono italiane perché hanno vissuto molto più qui. Crescono con le amiche, vanno in palestra, vanno a scuola, e se si rendono conto di essere mutilate e “diverse” si perdono nel nulla.
Ci dà un quadro della situazione a livello internazionale? Si parla di 68 milioni di donne a rischio prima del 2030 in tutto il mondo.
Tutti i Paesi dell’Africa hanno promulgato leggi contro le MGF, paradossalmente. Il primo è stato proprio il Sudan nel 1947 durante il colonialismo; dopo trent’anni di dittatura, oggi il governo di transizione ha la sua nuova legge contro le MGF. Però le leggi non bastano.
Tre anni fa ho partecipato a un congresso internazionale, dove c’erano ginecologi che avevano portato casi di bambine salvate da loro in punto di morte, dissanguate da emorragie da MGF. Dopo averle mutilate, le madri stesse avevano visto che c’era una massiccia emorragia e avevano dovuto portarle in ospedale. I medici erano intervenuti, avevano salvato le bambine ma non denunciato. Alla domanda sul perché non l’avessero fatto, la risposta era: “Anche se denunci, non si fa niente. E poi soprattutto, nessuno torna da te. Tu diventi un traditore, la fiducia della persona viene meno.” Anche se per lo stato di appartenenza era un abuso, quindi, non denunciavano.
In Italia esiste la legge 7/2006 (Legge Consolo) che vieta l’esecuzione di ogni forma di MGF. Quante sono state comunque ancora mutilate in Italia?
Delle mutilate in Italia non possiamo avere numeri certi, perché nessuno lo comunica. Da dopo la legge capita che le famiglie spostino le bambine fuori Paese per aggirarla, pratichino su di loro le MGF, e le lascino all’estero per anche 3 o 4 anni. Poi le riportano in Italia quando sono più grandi, e se scoperti si giustificano dicendo che l’intervento non è stato compiuto su suolo italiano.
In che cosa è consistito e consiste il suo lavoro in Italia? Su che basi si poneva la sua proposta di rito simbolico alternativo?
Nel 2004 ho messo insieme alcuni focus group femminili tra le pazienti target. Ho diviso le donne in tre gruppi: quelle che erano restie a ogni informazione e dichiaravano che avrebbero perseguito nella loro tradizione in ogni caso, quelle che erano perplesse e magari comprendevano, ma erano comunque frenate dalla loro cultura, e quelle che, forti di un livello di istruzione sopra la media, avevano solo bisogno di un incoraggiamento e di supporto per uscire da quello schema.
Ai primi due gruppi, ho proposto un rito alternativo simbolico, che non è una sunna nè una mutilazione, e che è diffuso in tutta l’Africa già da tempo. Secondo il mio parere bisognava dare alle donne resistenti a ogni educazione qualcosa che sostituisse – appunto simbolicamente – la vera e propria mutilazione. Si tratta di una semplice puntura clitoridea, praticata dopo una piccola anestesia locale, con un ago sottile da insulina.
Il mio obiettivo non era quello di fare un vero e proprio rito: la donna che ieri era molto attaccata alla pratica dell’infibulazione, dell’escissione, della mutilazione, e oggi accetta invece di fare una puntura simbolica con il massimo rischio rappresentato da una ridottissima fuoriuscita di sangue (e spesso non succede!), vuol dire che è arrivata al superamento del muro culturale, e non ne ha nemmeno più bisogno.
Il Comitato Etico della Toscana, a cui avevo presentato l’intervento, quando si è riunito alla mia presenza ha approvato la proposta da un punto di vista etico, ma ha dovuto comunque respingerla in generale, perché per legge non potevano usare i soldi dei contribuenti per finanziare il rito in ospedale pubblico. Se avessi voluto praticarlo nel mio ospedale privato avrei potuto. Tuttavia non ne ho mai fatto neanche uno. Quello che ho fatto e faccio è sensibilizzare le pazienti.
Un notevole ma necessario cambio di prospettiva.
Il mio intento era quello di andare per gradi: non puoi sradicare in un sol colpo una tradizione in atto da secoli. Piano piano ho proposto questo tentativo. E ci sono riuscito, nonostante gli attacchi che ho subito e l’aver diviso il mondo scientifico in due parti.
Dopo tanti anni di battaglie, un anno e mezzo fa c’è stato il Congresso Internazionale sulle MGF a Bruxelles, e io ho riportato il resoconto della mia proposta: in quella riunione erano tutti concordi nel dire che il rito simbolico ha una validità, e si vuole continuare a discuterne. In Africa lo adottano. Io sono in comunicazione con la Somalia, dove il 98% delle donne sono mutilate: chi vive in città ormai non fa più niente, a parte la “punturina”.
In Italia abbiamo invece praticato la deinfibulazione, per aiutare donne con MGF che volevano avere rapporti sessuali non dolorosi o partorire naturalmente senza ricorrere a taglio cesareo. Ne abbiamo fatte più di 200. Tra queste pazienti, chi ha avuto bambine, poi, non le ha mutilate a sua volta, perché il percorso di sensibilizzazione comprendeva anche l’arrivare a evolversi sul futuro delle figlie. “Un domani se avrai una bambina che farai?”
Che cosa pensa della recente decisione del nuovo governo sudanese di aggiungere un articolo al Codice penale (sembra il numero 14) per mettere fuori legge le mutilazioni femminili? Anche a fronte della larga diffusione del fenomeno ancora in auge – si parla di 65%. Come ha detto, sembra improbabile che una singola legge sia sufficiente a eradicare il fenomeno.
Anche se c’è la legge, che non è nemmeno la prima nella storia della nazione, quello che è più forte è la tradizione, e non c’è possibilità di eliminarla subito, nel giro di poco tempo. Ci vorrà pazienza, educazione e informazione, ma soprattutto ci vorrà “economia” per le donne, e istruzione. Finché la donna sarà sottomessa all’uomo, senza istruzione, non economicamente autosufficiente, non potrà decidere della sua vita.
Una drammatica questione di genere?
In 30 anni di attività del mio centro italiano contro le MGF, alla domanda rivolta alle piccole pazienti su chi le avesse operate, rispondevano: “La mia mamma”. Chi era presente? “La mia nonna, la mia zia, le mie parenti.” E insieme a te, chi c’era? “Le mie cugine.”
Mi è venuta quindi l’idea di riunire in un focus group tutte le provenienze africane che abitavano in Toscana, sia i nuovi arrivi, sia chi era lì da anni, considerando il livello d’istruzione. Ho separato maschi e femmine e ho chiesto agli uomini perché non parlassero mai di MGF. “Sono cose da femmine”, hanno risposto. “E se oggi tua moglie, tua sorella, decidessero di non mutilare una bambina?” “Eh no, l’ultima parola tocca a noi.” Dietro a tutto questo, come è evidente, c’è il maschio.
Le persone più resistenti tra i vari gruppi nazionali erano i Nigeriani e gli Egiziani. I Nigeriani rivendicavano la necessità di frenare la sessualità femminile, arbitrariamente, senza considerare che ogni donna è un essere umano, con la sua autonomia, la sua psiche, il suo modo di comportarsi, e non perché c’è un organo che decide per lei.
Gli Egiziani invece, nonostante il Corano non prescriva alcun dettame religioso sulle MGF, si riferivano ai Detti del Profeta che le includono. “Dottore, lei può dire quello che vuole. Mia moglie, mia madre, sono mutilate. Mia figlia lo sarà. È solo un’intenzione, e con le intenzioni non si va in carcere”, mi dicevano. Ci vuole pazienza e molta, molta informazione.
Ha parlato delle donne di seconda o terza generazione. Nella pratica clinica e chirurgica, come le approcciate?
Negli ultimi anni stiamo aiutando queste donne a “recuperare” quello che hanno perso, quando possibile. In particolare cercano un intervento abbastanza semplice, detto di riesposizione clitoridea, durante il quale viene proprio riesposto il clitoride che invece era stato chiuso al di sotto delle grandi e piccole labbra, rimosse e riposizionate. Queste donne sono contente non per il fatto stesso, ma perché in parecchi casi riprendono possesso della loro sessualità in maniera serena.
Ancora adesso prima dell’emergenza mi arrivavano telefonate da tutta Italia, di ragazze e donne che richiedevano l’intervento, e alcune parlavano in accento bergamasco stretto! Chiedevamo da dove venissero, e loro – sempre in accento stretto – rispondevano di essere del Burkina Faso, o della Costa d’Avorio, o del Mali. Sono al 100% italiane! E non vogliono essere escluse dalla società in cui vivono, forse non torneranno mai nei Paesi d’origine. Sono cittadine italiane.
Ringraziamo il dr. Abdulcadir del suo prezioso tempo e dell’impegno instancabile, che ci auguriamo continui a lungo.