Michele Sanguine, 31enne di Gallarate, affetto da distrofia muscolare di Duchenne.
“Il primo sintomo attraverso il quale si manifesta la malattia è che cominci a camminare più tardi rispetto a tutti gli altri bambini. Quindi si vede che c’è qualcosa che non va, cominci i primi controlli e, attraverso test ed esami, si capisce che si tratta di distrofia muscolare. Poi, con la biopsia, ne hai la certezza.
Ho camminato fino alla quinta elementare anche se mi accompagnavano ma scrivere e mangiare, erano azioni che facevo da solo. Magari se faceva freddo, gli altri andavano fuori a giocare mentre io, siccome ero un po’ debole – stavo in piedi e camminavo ma, se mi toccavi, cadevo, quindi non potevo giocare, era pericoloso per me – stavo spesso con il bidello. Io ero contento perché chiacchieravo con il bidello, mangiavo la mia merenda e, con filosofia, ci passavo sopra. Magari ci soffro di più ora, se ci penso. Però, al momento, da bambino, vedi diversamente. Mi andava bene così.
Ho smesso di camminare nel ’94. In vacanza cominciavo a cadere e ho dovuto affittare una carrozzina manuale. Ci è successo tutto molto velocemente. Prima camminavo, salivo e scendevo le scale e non correvo. Poi le scale le scendevo e non riuscivo più a salirle, quindi mi portavano su in braccio. Poi, cominciando a cadere, abbiamo comprato la carrozzina. Abbiamo poi acquistato la carrozzina elettrica. Inizialmente ero più forte fisicamente, quindi nelle mani avevo forza, andavo a scuola e scrivevo, guidavo la carrozzina senza difficoltà… adesso ho un joystick sensibilissimo che muovo solo con il pollice. Prima uscivo di più, ora mi muovo un po’ di meno, altrimenti andrei in giro.
Per le superiori ho fatto la ragioneria a Busto Arsizio. Fino alla maturità ho scritto da solo il tema. Mi aiutavano, mi mettevano le braccia sul banco e la biro in mano e da solo scrivevo. Anche in mensa mangiavo da solo. Dopo, in università, ho iniziato a perdere anche la forza per scrivere: andavo in università e ascoltavo, poi il professore mi dava una lezione in pdf o i libri cercavano di darmeli sul computer.
Mi sono laureato nel 2010 Giurisprudenza alla Liuc di Castellanza, ho fatto la laurea dei tre anni… serve anche a poco. A me sarebbe piaciuta di più la comunicazione, ci ho sempre pensato. Mi piacere organizzare eventi”.
E frequentare l’università dell’Insubria di Varese ti sarebbe venuto troppo lontano?
“Eh, diventava impegnativo frequentare…. Poi, per studiare, io non sono un grande appassionato”.
A proposito della tua passione per la comunicazione, ho visto che conduci un programma radiofonico…
“All’università, un giorno vedo un annuncio: ‘Partecipa anche tu per il progetto di Radio Liuc’. Sono andato all’incontro. Chi voleva, poteva proporre un proprio programma. Quindi ho partecipato. È stato creato uno studio radiofonico all’americana. Abbiamo iniziato a registrare le puntate una volta a settimana”.
Di cosa ti occupavi alla radio?
“Intrattenimento in generale, leggevamo notizie… questo mentre frequentavo la Liuc. Poi, siccome sono rimasto amico dei ragazzi della radio – molti sono cambiati ma tutti sanno chi è Michele – ho continuato, ogni tanto, a fare delle dirette. Con un amico, ex vicino di casa di una 50ina d’anni, ci siamo improvvisati speaker, abbiamo messo giù delle idee e ci siamo trovati bene. Abbiamo visto che il risultato è sufficiente. Sempre su cose di intrattenimento, un po’ demenziali”.
E, invece, parlando di eventi, desideravi realizzare una gara di carrozzine e ci sei riuscito. La tua Wheelchari GP ha già visto la seconda edizione quest’anno.
“Esatto. Purtroppo quest’anno non ho più la forza di guidare veloce. Se lo avessi organizzato dieci anni fa, mi sarei divertito tantissimo. Infatti quest’anno non ho guidato, ho fatto la telecronaca, organizzando il tutto con amici. Lo scorso anno ho guidato, andavo piano… ti viene il nervoso perché vorresti andare veloce”.
Questo perché, dallo scorso anno ad oggi, è cambiato qualcosa?
“È cambiato molto nel dito, nella forza. Per muovermi in casa, mi muovo. Se trovo un prato, salite o discese, faccio fatica”.
Perché il joystick sente proprio la tua forza?
“Sente proprio la forza e funziona con una pressione di 2 grammi, è una forza leggerissima, basta sfiorarlo. Tenerlo premuto tanto è faticoso per me. Anche perché prima non avevo il respiratore 24 ore su 24. Questo non è ossigeno: ho i muscoli deboli. La gabbia toracica, mentre tu respiri, si alza e si abbassa. Questa forza io ce l’ho debolissima. Mentre, quando sei più giovane, anche se debole, riesci nella respirazione normale, poi questa forza cala sempre di più.
Quindi il movimento toracico viene simulato e aiuta: è volume d’aria che espande. Invece, per l’ossigeno, all’occhio non vedi l’espansione. Noi distrofici, non so perché ma non abbiamo carenza d’ossigeno. Con questo macchinario, semplicemente, aiuti l’ossigenazione. Nella storia dei distrofici succede così: vai a dormire, ti alzi alla mattina che hai mal di testa, cali di concentrazione, ti bruciano gli occhi. E lì è già un sentore che durante la notte non respiri tanto bene. Mi hanno quindi ricoverato per imparare a usarlo di notte. All’inizio era un po’ dura impararlo: dormire con una maschera, con una cinghia in testa, con la ventoliera che mi tiene la bocca chiusa. Sembri uscito da un film di alieni. Poi hai questo volume che entra ed esce: il corpo deve abituarsi. Poi vai avanti un po’ di anni tenendolo solo la notte, poi fai qualche ora durante il giorno e poi lo tieni sempre”.
Da quanto hai il ventilatore in modo definitivo?
“Da due anni. Prima no. Ora sto staccando la mattina: magari appena mi alzo, vado in bagno, mi lavo i denti e la faccia poi mi riattacco. Sto staccato 10 minuti, un quarto d’ora”.
E c’è sempre qualcuno che ti aiuta quindi?
“Sì, c’è sempre la mamma che è la mia ombra. Poi alla mattina viene un’assistente: per vestirmi, lavarmi e spostarmi, bisogna essere per forza in due. Mia sorella lavora, quindi ci si organizza”.
Insomma si tratta di una malattia genetica degenerativa, giusto?
“Sì, e la causa è la mancanza di questa proteina che si chiama distrofina che dà la forza ai muscoli. Proteina che tu hai e io non ce l’ho. Poi dipende, ci sono altre distrofie in cui non hai una mancanza completa. Come la distrofia di Becker, è come la mia ma si manifesta tutto più tardi: smetti di camminare a vent’anni, usi la respirazione notturna a 40 e poi si vive di più insomma”.
Ma quindi ti è stato diagnosticato subito da piccolo o dopo le prime cadute?
“Si sono insospettiti perché ho iniziato a camminare tardi e mi hanno fatto subito una biopsia muscolare a Pavia. La distrofia muscolare ha varie forme. In alcuni casi, tipo il mio, sembrerebbe sia un po’ un misto. C’è chi ha la Duchenne al 100% che sta peggio di me: non ha la voce o ce l’ha bassissima o inizia a non camminare da molto piccolo. La mia sembrerebbe principalmente Duchenne ma non solo: ad esempio ho la voce bassa ma anche mio papà e mio zio ce l’avevano”.
Quali sono i tuoi sogni?
“I miei sogni, come ho sempre detto, sono tre. Il primo: avere una casa a piano terra con giardino e l’ho esaudito.
Il secondo: è guarire. Da un lato devi essere consapevole che è difficilissimo curarla e che magari non guarisci. Però dall’altro lato, quello che ti ha fatto vivere bene, è la speranza del dire ‘un giorno guarirò’. I miei genitori, soprattutto mio papà che è morto, mi ricordo sempre che, da piccolo, mi diceva ‘quando guarirai’, ‘troveranno una cura’. Anche perché ero piccolo quindi cresci con la speranza. Magari qualche genitore crede che questo sia sbagliato e che bisogna essere più realista. Però, preferisco essere più sognatore. Se dici ‘non guarirò mai, che vita’, ti spari un colpo in testa. Poi ci sono momenti in cui ti senti più giù comunque.
Terzo sogno: mi piacerebbe avere una famiglia, avere una fidanzata, sposarmi. L’aspetto che fa soffrire, della malattia, è questo. Con le ragazze, effettivamente, è difficile già uscire. Poi succede: in qualche caso, qualcuno si è sposato. Anche la ragazza: se sta con te, si deve innamorare certo, ma deve avere anche una grande sensibilità. Parlando papale papale, se sei una ragazza normale, giovane… ti vai a prendere dei problemi. Se sei insieme a un ragazzo come me, viaggiare è un problema. Andare fuori a mangiare… faccio fatica a masticare delle cose. Guidare, deve guidare lei. È un casino, deve essere proprio tosta. È difficile ma è un mio sogno. Comunque ho conosciuto anche chi ha avuto dei figli. E poi, essendo una malattia genetica, colpisce solo i maschi ma è trasmessa dalle madri. Io, se avessi un figlio, sarebbe sano sicuramente. Mia sorella, invece, potrebbe essere portatrice. Infatti c’è sempre l’allerta per le sorelle. Oppure c’è anche chi ha avuto più figli con la distrofia. Insomma lo dico sempre: tu hai sempre avuto tanto affetto, da famiglia, parenti, fratelli e sorelle ma da una ragazza è diverso. Magari certi fanno notare che alcuni, senza problemi, non hanno neppure voglia di fare una famiglia, invece io sento questa voglia.
Per il resto sto bene. Bisogna prendere quello che c’è e non posso dire che mi manca qualcosa in particolare: c’è la tecnologia che ti permette di essere autonomo, c’è la famiglia e la casa. Certo, uno deve pensare a volte anche alle cose brutte: se non avessi nessuno… oppure se fossi nato, ad esempio in Afghanistan, hai voglia ad avere carrozzine elettriche. Tutto va un po’ pensato…”.
Hai mai subito discriminazioni?
“Direi di no però, quando vai in giro, succede che vedi che qualche bambino chiede ‘cos’è quella cosa lì’? Sento i genitori che rispondono e va bene, altri che dicono ‘zitto, zitto’. Hanno paura che sento. Ma non è che mi offendo. Questa cosa può essere una discriminazione.
Poi dipende: un posto con barriere architettoniche è una discriminazione. Molto spesso non puoi entrare in un negozio che ha le scale: c’è quello che non ci ha pensato e quello che non vuole che entri il disabile. Nei negozi normali ok ma, qualche negozio un po’ più chic, vedi l’effetto Pretty Woman, tutti mi guardano. Ma cose proprio gravi non mi sono mai capitate”.
Il 17 luglio hai partecipato al convegno “La famiglia al centro della cura” a Milano, organizzato da Parent Project.
“Loro mi hanno aiutato a fare i volantini per la gara di go kart, quindi mi hanno chiesto di andare a parlare, dopo i medici, portando il video della gara e raccontando l’idea. Ho proposto che, se mi aiutano, potremmo fare tre gare all’anno, magari anche a Torino, Milano e Varese ma è un evento molto impegnativo: una gara mi ha impegnato tantissimo, ho amici che mi aiutano ma che lavorano e hanno una famiglia”.
Quest’anno quanti eravate?
“13 lo scorso anno e quest’anno 17. Tutti della zona, due di Torino, qualcuno da Milano e da Brescia”.
Hai una pagina Facebook, Perspective from a wheelchair, racconta…
“È successo che io, quando faccio le foto, inquadro sempre per terra perché non posso far spostare l’inclinazione del telefono, al massimo la cambio dalla basculazione della carrozzina, ma non di molto. Un amico mi ha dato l’idea di fare un album. L’ho fatto, pensando di fare una pagina Facebook. Ho chiesto consigli alla mia prof di inglese delle superiori per il nome”.
La carrozzina la passa lo Stato?
Ti passa una standard base, senza questo joystick, senza inclinazione elettrica. Una classica che però ora non potrei usarla. Se devi comprarne una sofisticata, l’Asl ti viene incontro per un po’. Questa costa tantissimo: costa 11mila euro.
Quindi ti senti tutelato dallo Stato?
“Per gli ausili sì, per l’assistenza casa, no. Ci vorrebbe, per i ragazzi come noi, un’assistenza credo a casa e anche assistenza medica a domicilio. C’è ma ci dovrebbe essere di più”.
Hai partecipato alla campagna Telethon per la ricerca sulle malattie genetiche rare. Credi nella ricerca?
“Sì, credo che un giorno la ricerca potrà risolvere questa grave malattia e spero anche io un giorno di guarire. Altrimenti sono fiducioso per i giovani con distrofia, quelli più giovani di me guariranno sicuramente”.
Come passi le tue giornate?
“Solo, ascolto musica, esco al parco se posso, stare in spiaggia d’estate e organizzare cose… non riesco a stare fermo”.