Project manager, personal life e love coach nel lavoro. Un vulcano di energia e creatività nella vita. Maximiliano Ulivieri, ha fatto della sua esperienza l’esempio lampante di come i limiti possano essere tali fino a quando non si cambia punto di vista e, quindi, atteggiamento.
E così ha iniziato a impegnarsi a tutto tondo affinché il mondo che ci circonda non sia discriminante verso le persone con disabilità. Prima di tutto con il suo blog sul turismo accessibile, poi con il lancio del comitato LoveGiver e, quindi, con l’introduzione della figura in Italia dell’OEAS, ovvero l’Operatore all’Emotività, all’Affettività e alla Sessualità. Un progetto ambizioso ma concreto sostenuto anche da professionisti di vari settori, come Fabrizio Quattrini (psicologo e vicepresidente del comitato), Maurizio Nada (segretario), il dottor Rocco Salvatore Calabrò e tanti altri.
«La premessa basilare – spiega Max riguardo all’assistenza alla sessualità – è che tutti noi dobbiamo lottare e far capire che le persone con disabilità, se hanno le possibilità e le occasioni, possono vivere la sessualità, le relazioni e l’affettività, come tutti gli altri, in maniera soddisfacente, per se stessi e per gli altri».
E così, nell’attesa che il Governo torni a discutere attorno (all’ormai ex) Disegno di Legge n. 1442, abbiamo intervistato Max Ulivieri per conoscerlo più da vicino e per supportare, anche noi, questa importante battaglia. Perché la sessualità è un diritto che tutti gli esseri umani devono poter vivere. E perché – citando proprio il suo libro LoveAbility, «un cambiamento culturale non è purtroppo un processo naturale, occorre continuamente “pro-muoversi” e superare difficoltà affinché ogni volta cada un altro confine e tutti possano partecipare ed esistere».
Chi è Max Ulivieri?
«Sono toscanissimo. Nato e cresciuto in Toscana, mi sono trasferito a Bologna 10 anni fa con mia moglie siciliana. Siamo sposati dal 2008. Ho la malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT1A) che colpisce i nervi e, per induzione, i muscoli. È una malattia ereditaria, non solitamente così aggressiva. Ce l’ha mia madre ma, alla vista, sembra che non abbia quasi nulla. Con me, invece, è stata particolarmente aggressiva. Insomma, sono una rarità (ride ndr.). All’età di 2 anni il nervo della gamba destra ha iniziato ad accorciarsi e non riuscivo ad appoggiarmi. Così, da quell’età non ho più camminato. Poi, dai 16 anni in poi, il mio corpo si è deformato. Colpendo i muscoli, che sono dappertutto nel corpo, la schiena non reggeva più. Quindi, alla fine sono diventato un mucchio di ossa storte.
Ho iniziato a lavorare nel 2009 in ambito disabilità e turismo accessibile realizzando il portale “diversamenteagibile.it”. Una sorta di turisti “per caso”, per persone con disabilità. Qui si trova una raccolta di racconti di viaggio fatti da persone in carrozzina con foto dei locali accessibili. Insomma una condivisione fatta di immagini.
Inoltre, nel 2013 è nato il comitato LoveGiver di cui sono presidente. E, visto che tutto questo non mi fa pagare il mutuo… sono un web designer. Grazie al comitato sono inoltre docente e realizzo corsi di formazione. Sono anche scrittore e attore».
Com’è cambiata la tua consapevolezza, negli anni, fino a divenire tu stesso love coach?
«La prima parte della mia vita è stata difficoltosa per quanto riguarda la mancanza di privacy, intimità e una serie di situazioni che, molto spesso, capitano a chi ha una disabilità come la mia. Da adolescente mi è mancata quella parte di scoperta della sfera relazionale/affettiva/sessuale e, quella parte, non la ritroverò mai. Anche se ho vissuto tutto il resto successivamente nella mia vita, non ho vissuto questi aspetti con gli occhi dell’adolescente, soprattutto in concomitanza con altri adolescenti. Crescere con altre persone della tua età significa scoprire insieme molti ambiti, io questo non l’ho avuto.
Poi sono arrivati i cambiamenti. Questo grazie alla conoscenza delle persone perché, nella vita, ogni persona che incontri è importante. Alcune possono cambiarti la vita in meglio. Inoltre l’arrivo di internet mi ha aiutato tantissimo. Internet mi ha portato ad esplorare la parte interiore di me stesso e a presentare prima quella parte. Nelle chat tradizionali – non pensiamo ai social di ora – c’era solo il nick name. Quindi esploravi l’altro leggendo quello che scriveva e basta. Così mi sentivo più sereno: non c’era l’approccio fisico e quindi non mi sentivo giudicato e osservato sotto l’aspetto estetico cosa che, nella mia città, mi capitava sempre. Quindi mi sentivo un po’ bloccato e non ci provavo con nessuna.
Le mie prime esperienze fisiche sono state con una escort, a 24 anni. A parte il mio primo approccio, a 18 anni, con un’altra ragazza. Questi incontri però non hanno cambiato l’aspetto psicologico. Sì, potevo in qualche modo dar sfogo a qualche bisogno fisico ma non cambiava per nulla l’atteggiamento nei confronti del mio corpo e con gli altri. Quindi era fine a se stesso.
Poi ho incontrato una ragazza, una pittrice. Come racconto anche nel mio libro, grazie a lei la mia idea di fisicità è cambiata. Fino a quando mi riportavo a una fisicità mediatica, a uno stereotipo di bellezza comune, mi sentivo inferiore. Quando ho rapportato tutto sul piano dell’arte, le cose sono cambiate completamente. Nell’arte, la diversità è un pregio, non un difetto, è unica e rara. Se hai l’occhio per percepirla, la diversità diventa di una bellezza straordinaria. Quindi, vedendomi nell’arte, mi sono visto come essere appartenente a qualcosa di unico e quindi diverso dagli altri. Questa mia diversità però non era negativa ma, al contrario, la diversità mi rendeva unico, apprezzato e amato.
Da quel momento, se una persona non mi voleva o non era attratta da me, non mi dicevo più: “Sono inferiore agli altri”. Mi dicevo, semplicemente, che quella persona non aveva gli occhi artistici adatti a un certo tipo di bellezza. Quindi aspettavo la persona giusta. Così, i rifiuti non erano più qualcosa che poteva annientarmi. Come dico sempre, mi paragono a un Picasso. È un paragone che trovo calzante seguendo questa mia idea.
Ecco, da quel momento ho avuto una vita sentimentale e relazionale più che soddisfacente. Ovviamente, le delusioni d’amore ci sono state ma non dipendevano più dalla condizione fisica. Ecco com’è avvenuta la mia trasformazione.
Credo però che non basti una serie di eventi a trasformarti ma penso che, dentro di me, ci fosse già qualcosa. Sarà capitato di vedere delle persone che hanno provato esperienze molto brutte o difficoltose e restano così arrabbiate con il mondo. Insomma dipende anche dal proprio essere. Nel mio caso, ho tirato fuori l’aspetto positivo. Chiaramente penso che io possa essere d’esempio per molti altri. Ecco allora la mia idea, non di insegnare, ma condividere la mia esperienza. Per questo ho pensato di fare un lavoro di life coach con lo scopo di condividere ciò che in me ha trasformato in meglio tutto quello che avrebbe potuto schiacciare un’altra persona».
Nei tuoi incontri da life coach, c’è un consiglio che dai più frequentemente alle persone che si rivolgono a te?
«Tendenzialmente, un buon love coach, non dà consigli. I caratteri possono essere molto diversi, gli uni dagli altri. Quello che può essere utile a te non lo sarà necessariamente per un’altra persona e così via. Quindi mi sentirei “guru” dando i consigli. Non amo chi diffonde “perle di saggezza”. Cerco piuttosto di percepire le paure della persona, il primo passo è quello. Cerco di capire cosa la spaventa della vita, delle relazioni e di loro stesse. Il primo passo da fare è trovare i tuoi mostri. Quando li abbiamo individuati, lavoriamo su di loro».
Spesso consigli di chiedersi: “Perché dovrebbero scegliere me”?
«Sì, è una partenza. Ho sempre pensato che si debba conquistare una persona. Se ci si chiede perché non riesci a farlo e aggiungi una serie di motivazioni negative che ti sei già preconfezionato, non ti porta a niente. Invece, trovare il modus operandi di dire: “Come posso conquistare questa persona?” è molto importante, ti dà un’energia diversa. E l’energia è molto importante quando conosci qualcuno. Inoltre questo approccio non ti fa generalizzare le questioni, pensando che gli aspetti negativi siano sempre uguali per tutti».
Cos’è un OEAS (Operatore all’Emotività, all’Affettività e alla Sessualità) e qual è il suo obiettivo?
«Prima di tutto, è una persona che viene sottoposta a un test di accesso, quindi a un percorso di formazione con medici, psicologi, avvocati etc. Il principio base è quella di dare la massima autonomia possibile alle persone con disabilità anche in ambito affettivo, relazionale e sessuale. È un obiettivo meraviglioso ma che, a seconda dei casi, è complicato o va pensato ad hoc.
L’obiettivo principale, comunque, è quello di cercare la massima autonomia che preveda di iniziare un percorso temporaneo con queste persone permettendo loro di raggiungere la piena autonomia. Si vuole quindi portare ad avere le motivazioni e gli strumenti corretti per poter avere una vita relazionale, affettiva e sessuale nel modo più “normale” possibile».
Questa figura nasce anche perché spesso la vita di una persona con disabilità soffre della mancanza di intimità con se stessa ed è “toccata” da altri solo per essere lavata e cambiata…
«Sì, ovviamente se pensiamo alla maggior parte dei casi (senza però generalizzare): alcune persone con disabilità non hanno la possibilità di vestirsi, spogliarsi e lavarsi da soli. Io, ad esempio, potrei anche spogliarmi e vestirmi da solo (anche se ci metterei una giornata), ma non riuscirei a mettermi le scarpe. Quindi, anche andare in bagno, lavarsi, etc, diventa difficile o impossibile per molti: così queste mansioni sono svolte da genitori o operatori. L’aspetto paradossale è che noi siamo toccati continuamente ma mai in relazione a una forma di ricerca del piacere.
Ecco quindi l’importanza dell’OEAS. Si parte, prima di tutto, con la scoperta del proprio corpo. Ci sono infatti persone di 40 o 50 anni che non hanno mai scoperto neppure l’ABC. È inutile parlare di sesso se non ci sono neppure le basi…».
Intendi l’autoerotismo…
«Esatto, l’autoerotismo. È qualcosa che ognuno di noi può vivere da solo. È un piacere gratuito, non si esaurisce mai e, in teoria, non ha bisogno di un aiuto esterno. Invece, persone come me non possono accedere neppure a questa forma di scoperta e di piacere per via delle problematiche della propria disabilità».
Che caratteristiche deve avere una persona per divenire un Operatore all’Emotività, all’Affettività e alla Sessualità ?
«Una mente aperta, un atteggiamento verso il proprio corpo sereno e viva la sessualità in maniera equilibrata. Questo è l’aspetto più importante. E poi che abbia empatia. L’area empatica, durante il test, è quella più ricercata».
L’OEAS è ben differente dalla prostituzione. Di fatti, avete escluso la possibilità di avere un rapporto completo, penetrazione compresa quindi. Come avete stabilito questo limite? Qual è la differenza tra un sex worker e un OEAS?
«Prima di tutto, la formazione. Un OEAS affronta un lungo percorso di studio prima di essere operativo. Un sex worker, inoltre, cerca di fidelizzare il cliente. L’OEAS fa proprio l’opposto: fa di tutto affinché tu non abbia bisogno di questa figura.
La differenza è anche nel target: i sex worker vanno da chiunque. Un OEAS invece ha un target, quello delle persone con disabilità fisica, intellettiva e sensoriale. Quindi formazione, obiettivo e target sono le differenze.
Per quanto riguarda gli aspetti legati a ciò che si può fare fisicamente, abbiamo escluso la penetrazione essendo particolarmente invasiva. Ci possono essere anche rischi, precauzioni a parte. Ogni azione che si fa, anche fisica, durante il percorso con un OEAS deve avere un obiettivo. L’obiettivo non è quello del soddisfacimento fisico strettamente legato alla libido o al piacere fisico, l’obiettivo è quello di darti autonomia.
Se tu non riesci a praticare l’autoerotismo e non hai la possibilità di scoprire questo aspetto, è normale che ci sia una pratica che ti accompagni e ti aiuti alla masturbazione. In quel caso è previsto. La penetrazione però non riguarda un processo di autonomia, ma è un atto meccanico in sé da vivere».
Legislazione italiana in merito agli OEAS: a che punto siamo?
«È stato ripreso il disegno di legge 1442 che era stato abbandonato visto il cambio di Governo durante il percorso. Ora è stato rielaborato, comprese le aggiunte fatte a seguito delle esperienze del comitato LoveGiver. Verrà ripresentato dal deputato Aldo Penna (5 Stelle)».
A proposito del disegno di legge – in questo caso parliamo della Regione Lombardia – c’è chi ha screditato la proposta lanciando l’accusa di “violenza sessuale verso le persone con disabilità psichica”…
«È un’opinione scorretta data senza un minimo di informazioni. In realtà, è proprio il contrario: l’abuso può avvenire proprio in un contesto dove non ci sono persone formate e che non hanno caratteristiche di un certo tipo. Tra l’altro, alcuni arrivano a parlare di pedofilia… è assurdo preoccuparsi dell’OEAS che passa attraverso un test di ingresso con Fabrizio Quattrini, uno degli psicologi più importanti d’Italia, presidente dell’Istituto Italiano di Sessuologia scientifica.
Gli aspiranti OEAS passano con lui due giorni intensivi dove sono “risvoltati come un calzino”. Poi seguono 200 ore di tirocinio. Non ha senso preoccuparsi di loro. Ci si dovrebbe invece preoccupare dell’educatore che non si è formato o delle persone nelle strutture che non sono state formate da nessuno. Insomma, chi parla di “violenza sessuale” vedendo negativamente l’OEAS, sta in realtà mettendo in luce un pericolo che proprio l’OEAS va a togliere. Tra l’altro, oltre al percorso citato, l’OEAS deve riportare ogni incontro e realizzare degli aggiornamenti ogni 3 mesi. Proprio grazie a questo i genitori si sentono molto più sicuri. Anche perché tutto è alla luce del sole: tutti hanno un nome, un cognome e una faccia».
Quali difficoltà avete riscontrato nel portare avanti il progetto dell’OEAS?
«A parte le difficoltà riguardanti il contesto sociale in cui viviamo (visto che la sessualità è vista ancora come argomento tabù per tutti), spesso viene attaccato il fatto che questo tipo di figura possa ghettizzare ancora di più e chiudere maggiormente le persone in casa.
Secondo alcuni, portando la “sessualità a casa”, si fa allontanare ancora di più le persone dall’inclusione nel sociale. No, non è così. Come detto, gli operatori e le operatrici fanno di tutto proprio per promuovere l’autonomia personale al di fuori del contesto in cui si è intrappolati.
Inoltre, un’altra critica riguarda i “pettegolezzi” che possono venir fatti verso chi si rivolgere a un’OEAS. E, di conseguenza, al rischio che le persone si allontanino da te sapendo che ti sei rivolto a un operatore perché hai “gravi problemi sessuali”. Chiariamolo, non siamo un mondo a parte, no. Abbiamo gli stessi desideri e gli stessi bisogno degli altri ma, proprio per questo, abbiamo bisogno di aiuto per poterli vivere e rendere parte della nostra vita.
Oltre tutto questo discorso, la premessa basilare è che tutti noi dobbiamo lottare e far capire che le persone con disabilità, se hanno le possibilità e le occasioni, possono vivere la sessualità, le relazioni e l’affettività, come tutti gli altri, in maniera soddisfacente, per se stessi e per gli altri. Questo è il primo messaggio che deve passare.
Gli operatori servono ma soltanto in alcuni casi straordinari e, soprattutto, si deve considerare che esiste anche la disabilità intellettiva: dal 2013, la maggior parte dei genitori che si sono rivolti a noi hanno figli autistici. Quindi è necessario pensare a questo mondo dove la massima autonomia possibile è più complicata: dalla persona che non riesce a masturbarsi perché non sa come si fa e quindi glielo si insegna, a quelli che sanno come si fa ma lo fanno in contesti, posti e luoghi “non idonei” e quindi vanno educati, ad altri che hanno soltanto bisogno di contatti di un certo tipo, come un semplice abbraccio, una carezza, che dia loro modo di vivere la sfera dell’affettività che manca. Poi, a seconda delle disabilità intellettive, è possibile aiutare queste persone a vivere anche delle relazioni».
Dopo il primo corso, ci sono stati altri tirocinanti o state formando ulteriormente gli stessi?
«Il gruppo di tirocinanti sta continuando con il tirocinio. Proprio ad ottobre, queste persone seguiranno altre 100 ore di corso focalizzato sulla disabilità intellettiva. Intanto alcuni hanno già fatto un percorso accanto a persone disabili. Inoltre, a febbraio del prossimo anno, a Parma, partirà un nuovo gruppo di tirocinanti».
Parlando di persone con disabilità in generale, come pensi siano rappresentate nei media?
«Proprio recentemente, in Francia una ragazza down ha presentato le previsioni del tempo. Era il suo sogno e l’ha realizzato. Spesso, invece, si chiamano le persone in tv soltanto per parlare proprio della loro disabilità in sé o della ricerca scientifica legata alla loro malattia.
L’evoluzione nella rappresentazione dei media invece dovrebbe essere la presenza di persone con disabilità nei più disparati ambiti, mostrando le proprie capacità in ogni settore della vita, indipendentemente dalla propria disabilità. Anche nella pubblicità dovrebbe essere così: ci dovrebbero essere persone disabili che presentano prodotti, come chiunque altro. Servirebbe quindi più visibilità per dare un ventaglio nuovo ai nostri occhi e alle nostre abitudini.
Grazie ai media, potrebbe divenire più “normale” vedere una persona con disabilità. Per ora, invece, gli occhi delle persone non sono abituati. Pochi giorni fa, in una spiaggia di Riccione, un bimbo vedendomi ha urlato a sua mamma: “Guarda com’è brutto quello!”. Lo capisco, non è abituato a vedere la diversità.
I miei nipoti, invece, mi hanno visto fin da piccoli e per loro è normale. Quindi, si devono abituare le nuove generazioni a vedere corpi differenti nei media, nelle pubblicità, in televisione. È così “banale” nell’idea, ma complicatissimo nell’attuarlo. Ci sarà, prima o poi, qualcuno che avrà il coraggio di fare una pubblicità di un dentifricio con protagonista un disabile…».
Nell’attesa che i media cambino… cosa consigli ai genitori?
«Bisogna educare a rispettare le diversità. Non pensare che scherzare su una diversità non possa ferire delle persone. Quello che per te può sembrare scherzoso, magari per l’altra persona non lo è. Pensiamo a quante persone si sono suicidate proprio per essere state derise.
Bisogna insegnare la diversità e farla conoscere, farla vivere, non solo a parole. Ovviamente parlo per tutte le diversità, non solo per le persone disabili. Penso alle persone di colore, alle persone omosessuali e via dicendo. Basta con le battutine per “scherzare”. Non c’è nulla da ridere: devi capire quando lo puoi fare e con chi lo puoi fare».
C’è qualcosa che non ti chiede mai nessuno ma vorresti ti chiedessero?
«Sì, spesso si chiede alla gente: “Hai una passione che vorresti mettere in pratica? Hai un sogno?”. Ecco, lo si chiede molto ma quasi mai alle persone con disabilità…».
Non ci crederai, ma la prossima domanda che avevo previsto è proprio: “Sogni per il futuro?”
«Mi piacerebbe guidare la macchina, provare la sensazione di guidare, di indipendenza del viaggio. Quello mi manca. Una delle questioni più pesanti, oltre alla mancanza di privacy, è di essere sempre dipendenti da qualcuno. Sarebbe possibile… ma servono molti soldi. Sarebbe un auto gestita da un joystick. Tra il mezzo e la tecnologia, costa 100mila euro. Quindi io, ovviamente, me lo scordo».
Per concludere, qual è la tua canzone preferita? E, se l’avete, la canzone tua e di tua moglie?
«Lullaby, The Cure, la mia preferita. Questa canzone è inserita nell’album “Disintegration”. Al suo interno si trovano la disperazione di chi si è perso, di chi non si ritrova, e la forza di chi non si arresta alla discesa di un mostro ma lo combatte e ci canta sopra.
Io non so parlar d’amore di Celentano, invece, è la canzone che ho cantato a mia moglie per il matrimonio».