Margaret Mazzantini, autrice ormai più che affermata nel panorama italiano, pubblica nel 1998 il romanzo Manola: un esilarante stream of consciousness tragicomico. Due gemelle, Anemone e Ortensia, ci regalano un’intima confessione della loro femminilità, e del loro diritto ad “indossare” il ruolo che prediligono.
“L’inizio. Il problema è l’inizio. Ho tante cose da raccontarle, Manola. Sono così piena. È una pienitudine piuttosto dolorosa, mi creda. Lo so, basterebbe buttare lì il primo sassolino, a caso. Temo che verrebbe giù una irrefrenabile slavina”.
Così comincia Manola, con le parole di Ortensia, una delle due protagoniste, che in seduta pseudo-psicologica con una sorta di fattucchiera/cartomante stazionata in una roulotte ci racconta la sua vita e sé stessa; alternata dalla sorella, Anemone, il suo alter ego, il suo opposto.
Due gemelle non monozigote: ognuna con il proprio ovulo, diverse come la notte e il giorno, che piano a piano confidano la loro vita – ambientata nell’improbabile albergo appartenuto ai genitori – alla silente Manola.
Ortensia è porosa: “Capace di accogliere la grande energia universale che ci sovrasta”. Nata tredici secondo dopo la gemella, si fa strada nel modo violacea e pelosa “come un piccolo struzzo”. Ortensia è ipocondriaca, idrofobica, ansiolitica, nervosa, insicura, problematica, claustrofobica, cervellotica, negativa e volta all’inevitabile fallimento.
Anemone è spumosa e leggera come la schiuma di mare, un farfalla che svolazza senza pensieri e preoccupazioni
Ortensia gira con un vecchio sidecar e un grosso tacchino di nome Grogo al fianco.
Le mutandine di Anemone sono più affollate della Stazione Centrale a Milano.
La prima coltiva una collezione di vermi e vive nel reparto caldaie. La seconda si spazzola i lunghi boccoli d’oro e vive sempre su di giri.
Creature più lontane e inconciliabili non sembra possibile incontrarle, circondate dal mondo assurdo e grottesco dipinto dall’autrice, dove la bellezza di Anemone e la sua vacuità diventano una medaglia al valore e l’elisir della felicità; mentre i turbamenti di Ortensia e la sua grossa testa sempre in movimento hanno un che di pestilenziale.
Ma nulla è immobile e immutato, e la donna – così magistralmente dipinta dalla Mazzantini- è un’entità volubile e caotica che si sdoppia nei suoi due estremi: la frivolezza e leggerezza contro la pesantezza e sensibilità. Ma non ci sono barriere, non ci sono divisioni (se non quelle imposte da una società che ama vedere la donna in bianco e nero). Ortensia è Anemone, e Anemone è Ortensia. Insieme raccontano l’essere femmina con pungente ironia, giocando sui ruoli che con troppa leggerezza vengono affibbiati al gentil sesso: la bruttona impegnata nel sociale, con paranoie grandi come elefanti e la concretezza di un manuale di filosofia, la belloccia appiccicata al proprio riflesso, che vive la vita pattinando tranquilla in un sogno. Ma non siamo forse entrambe?
Non esiste forse in ognuna di noi una piccola Ortensia piagnucolante, aggrappata al suo mondo interiore e terrorizzata di mettere il naso fuori casa; tormentata da insicurezze e paure, così bisognosa d’amore, ma pronta a struggersi e flagellarsi per i male del mondo? E al suo fianco non c’è forse una bella Anemone vogliosa di vita e di gioia, un fuoco d’artificio di positività e sicurezza: di quelle che ci fa alzare la mattina con la voglia di indossare quell’abito che: “Non metterò mai mi fa sentire una botte”, perché ci sentiamo “belle da paura” e incredibilmente vive.
Possono forse la riflessività e ipersensibilità sopravvivere senza la frivolezza (brutta, brutta parola la donna non può essere frivola) di Anemone. Non è forse nostro diritto leggere le notizie di politica economica la mattina con yogurt e caffè, e volteggiare fra negozi o chiacchierare dell’ultimo reggiseno acquistato nel pomeriggio?
Quando poi i ruoli si invertono, ci appare quasi inevitabile: in un ciclo infinito la donna si crea e rinnova, un tessuto adiposo in costante cambiamento.