Magistrato Gian Carlo Caselli: “Legalità significa migliorare la qualità della vita”

Una vita all’insegna di antiterrorismo e antimafia. Ha seguito per 10 anni il processo a Brigate Rosse e Prima Linea a Torino. Dopo l’assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ha sentito il dovere morale di prendere in mano il destino di Palermo, per 7 anni, in nome di legalità e giustizia. Il Magistrato Gian Carlo Caselli, in pensione dal 2013, è ora un instancabile testimone itinerante per portare a tutti la propria esperienza vissuta come una vocazione.

La scelta della sua carriera derivò proprio dalla decisione di poter “far qualcosa di utile per la comunità. Di contribuire a questo sforzo per la crescita di tutti i cittadini in termini di diritti e uguaglianza”.

Così Libera Varese, ANPI Busto Arsizio, Comitato Soci Coop di zona Busto Arsizio e Cassano Magnago, Gruppo Missionario di Sacconago e Filarmonica Santa Cecilia di Sacconago, sostenute da Coop Lombardia, hanno deciso di coinvolgerlo in prima persona per il tradizionale evento realizzato in rete in occasione della Festa della Repubblica. In un teatro Manzoni di Busto Arsizio, gremito, il 29 maggio 2018, Gian Carlo Caselli ha scosso le coscienze fedele al nome che ha dato il titolo a un suo libro e all’evento stesso, “Nient’altro che la verità”. Di seguito le sue dichiarazioni, (quasi integrali), della serata e gli incipit letti dalla presentatrice, Sara Genoni.

Fotografie di Alessandra Pini

La mia casa era dentro il complesso della fabbrica, dove mio papà lavorava come autista del padrone e mia mamma come impiegata. La fabbrica era il mio mondo, la mia prima scuola.

“La mia era una famiglia molto modesta, i miei genitori avevano tirato la cinghia per farmi studiare. L’università, ai tempi, non era uno sbocco naturale. Mio padre era autista del ‘padrone’, di un industriale. Vivevamo h24 a sua disposizione, dentro la fabbrica, in un alloggio in questa struttura. Molto del mio tempo l’ho passato lì. Ho visto da vicino il lavoro, la fatica. Ho imparato come ci fossero, insieme ad operai che lavorano e basta, quelli che si facevano carico dei diritti di tutti, i sindacalisti, che ai tempi non erano visti molto bene.

Mio padre, inoltre, era tifoso di una squadra di calcio della quale io sono matto, il Torino. Mi portava alla partita e lavorava duro in fabbrica, rivendicando i diritti degli altri. Non riuscivo a capire come una persona così brava, che mi portava alla partita, trovasse difficoltà nel rivendicare i diritti dei lavoratori.

Ho imparato nel tempo l’importanza della coerenza, di credere nelle cose, di saper essere minoranza, contro corrente, pur di rimanere fedeli alle cose che si pensano e si ritengono importanti e decisive. Devo dire che la mia formazione in fabbrica, con questi operai, è qualcosa che mi ha accompagnato anche in seguito nella mia esperienza professionale.

Difficile dire che diventai magistrato tifando Torino, ma è anche vero che si tratta di una squadra di calcio segnata dalla sofferenza, come il tragico episodio di Superga. Nella nostra città, poi, c’è un’altra squadra nota per il suo potere. Ecco, tifare il Torino è il fascino della minoranza, della coerenza, sono questioni che mi hanno segnato”.

Ho frequentato le scuole dei Salesiani. All’oratorio noi giovani si bighellonava, si giocava a carte… e si guardavano le commesse della Upim. Poi la scelta decisiva: liceo e università, dove alternavo studio e lavoro.

 “Devo ricordare ancora che la mia famiglia non era ricca, era assai modesta. Quelli della mia generazione erano destinati prevalentemente alla Fiat, in qualità di operai specializzati, di tecnici, etc. Non tutti potevano accedere a liceo e università.

Il mio dopo scuola era dai Salesiani, sono sempre stato un secchione e non riuscivo ad andare a scuola impreparato. Questo ai Salesiani è piaciuto e così hanno proposto ai miei genitori di farmi seguire il ginnasio da loro. La mia famiglia, però, ha ammesso di non farcela. Così, il grande regalo che mi hanno fatto i Salesiani, ai quali sono tuttora riconoscente, è di far pagare ai miei genitori una retta molto ridotta rispetto al normale. Grazie a questo favore ho potuto fare il liceo.

Dai Salesiani ho imparato tante cose, mi sono innamorato di quella scuola, di quei tempi. Sono tempi di adolescenza. Il messaggio fondamentale della scuola salesiana, lo sanno tutti, è di creare buoni cristiani e onesti cittadini. Questo insegnamento – dove onestà vuol dire legalità e rispetto delle regole – me l’hanno iniettato fin da piccolo ed è rimasto il punto di riferimento per la mia attività professionale.

L’università, poi, la scelsi con la prospettiva di fare qualcosa che potesse ricompensare e gratificare i miei genitori. Allora la facoltà di giurisprudenza era congeniale ai miei interessi ma anche quella che offriva maggiori prospettive: il notaio, l’avvocato, il magistrato, il legale di grandi aziende. Tutte cose che avrebbero potuto rappresentare insomma una arrampicata sociale. Scelsi Legge perché significava anche imparare le lingue, l’importanza del rispetto delle lingue, del rispetto dei cittadini. Ecco una sorta di anticamera di quella che sarà la mia professione”.

Ho iniziato a pensare alla magistratura negli anni Sessanta, quando nella società italiana affiorò l’esistenza della difesa dei diritti fondamentali dei cittadini. Cominciò così la battaglia per una magistratura indipendente, dove i giudici possano avere la forza e le garanzie per inseguire l’obiettivo di una interpretazione e applicazione della legge uguale per tutti.

“Molti della mia generazione, in particolare torinesi, hanno pensato alla magistratura nel momento in cui veniva riscoperta o ritrovata la Costituzione. Siamo negli anni ’60, la Costituzione è del ‘48 e per lunghi anni, la parte più significativa della nostra Costituzione Repubblicana Democratica, quella che riguarda i diritti e le garanzie, è rimasta in un cassetto. A un certo punto la si riscopre, si fa di tutto per tradurla in concreto nel quotidiano: soprattutto per quanto riguarda l’articolo 3 della Costituzione – tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge – e ancor di più la seconda parte di questo articolo – È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

Ecco, molti della mia generazione pensano alla magistratura come un’opportunità – alla luce dell’Articolo 3 – di far qualcosa di utile per la comunità. Di contribuire a questo sforzo per la crescita di tutti i cittadini in termini di diritti e uguaglianza. Ecco, io ho fatto il magistrato per questa prospettiva.

A proposito di Costituzione, viviamo dei tempi tormentati, travagliati, di grandi fratture e lacerazioni. Non entro nel merito ma vorrei ricordare solo una cosa che dovremmo sapere tutti. In calce alla nostra Costituzione ci sono 3 firme: De Nicola, Terracini, De Gasperi, tre persone che la pensavano in maniera assolutamente diversa ma che hanno trovato la forza di fare insieme questa Carta Costitutiva fondante della nostra comunità, superando le differenze. Ecco la nostra Costituzione è un patto sociale, che spinge tutti i cittadini e li spinge a stare insieme e cercare il bene comune, ciascuno con le proprie idee ma senza lacerazioni, divisioni, senza contrapposizioni che siano diverse da quello spirito costituente che ha portato alla Carta.

Uno dei Padri Costituenti, Piero Calamandrei, grande costituzionalista, spesso si rivolgeva ai giovani con grandi discorsi (vedi quello del 1955), con questa frase:

Ricordatevi che la libertà è come l’aria, si sente, si capisce la sua importanza quando comincia a mancare”.

L’augurio che ci faceva è di non riprovare più quel senso di asfissia derivante dalla mancanza di liberà che la dittatura, la prepotenza che ha qualcuno sugli altri, inevitabilmente causa”.

Anni difficili: nel 1977 avviene l’omicidio dell’avvocato Croce a Torino, causa shock e impedisce la formazione della giuria popolare. “Sindrome depressiva” compare su certificati medici per non scrivere paura.

Per una decina di anni, come giudice istruttore a Torino mi sono occupato, prima da solo, poi con tanti colleghi, di terrorismo, di sinistra, terrorismo rosso, brigate rosse. Comincio nel 1974, per dieci anni, con la scorta. Quindi non posso che ringraziare mia moglie e tutta la mia famiglia per essermi stati sempre accanto nonostante abbiano dovuto subire una serie di privazioni, ansie, preoccupazioni, paure. Senza di loro accanto, anche emotivamente, non so cosa avrei potuto fare.

Brigate Rosse e Prima Linea sono state un fenomeno nazionale ma l’epicentro è stato Torino. Perché era una città operaia e comunista prevalentemente, una specie di palazzo di governo che per i terroristi era da conquistare. E per conquistarlo hanno sparato, sparato e ancora sparato, uccidendo e gambizzando la città. In particolare segnalo il processo ai capi storici delle brigate rosse che al centro aveva il sequestro del magistrato Mario Sossi.

Per le Brigate Rosse, se eri in questo processo eri fuori luogo, ‘noi, uccidendo, ti costringeremo ad accettarci e convinceremo il popolo che tu non sei democratico ma fascista’, pensavano. Le Brigate Rosse hanno ucciso e ancora ucciso affinché il processo non si facesse o si facesse soltanto violando le regole dello stato democratico.

Allora ecco che nel ‘76 uccisero il procuratore generale di Genova e la sua scorta. Nel ‘77 uccisero l’avvocato Fulvio Croce, presidente dell’ordine degli avvocati di Torino che aveva la colpa imperdonabile di fare il suo dovere. In democrazia, un processo senza difensori è una farsa e Croce, presidente degli avvocati, organizzava le difese di ufficio. Così loro lo ammazzarono.

Il processo quindi è stato anticipato e in questo caso non si poteva neppure cominciare. La Corte d’Assise non trovò nemmeno 6 torinesi disposti a fare i giudici popolari. Si accumulano così faldoni di giustificati in termini medici di sindrome di depressione, traduzione in termini clinici della paura.

La città in quel momento era in ginocchio, le Brigate Rosse avevano vinto. Però alcuni cittadini reagirono, si organizzarono assemblee per rialzarsi, tra partiti e sindacati, anche operai della Fiat. Si convinsero tutti insieme che si stavano mettendo a rischio e repentaglio i nostri diritti, la nostra libertà, la nostra convivenza. Allora ci fu una reazione di rigetto che determinò l’isolamento politico dei terroristi: nel momento in cui si sentirono isolati cominciarono a non crederci più, scoppiarono dal punto di vista politici e fu l’inizio della loro fine. Siamo al ‘78, il processo prova per la 3a volta cominciare e si conclude nel rispetto delle regole.

Il presidente della Corte d’Assise aveva deciso di partire dal processo consentendo agli imputati, ai brigatisti detenuti, di contro interrogare le loro vittime a partire da Sossi. Io ho pensato fossero matti. Non avevo capito che quel presidente era intelligente e lungimirante: consentii questo perché così rispettò anche pubblicamente, in pubblica udienza, oltre alle regole, anche l’identità politica e terrorista. È stato un punto importante e decisivo di una struttura fino a quel momento ferita dal terrorismo”.

Dopo la strage di Capaci partecipo a molti incontri per commemorare Falcone e le altre vittime dell’attentato. In uno di questi, a Milano, Borsellino mi manda a dire che “non è ancora arrivato il momento di andare in pensione”.

“Dieci anni di anti terrorismo, poi 4 anni al Consiglio Superiore della Magistratura in cui si è discusso più di Falcone e Borsellino, di pool di Palermo, che di qualsiasi altro argomento. Con delle lacerazioni e contrapposizioni nel CSM incredibili.

Rivendico allora di aver sempre votato per Falcone anche se spesso la maggioranza la pensava diversamente. Falcone è stato umiliato, ha cominciato a morire da quel momento. Di fatti, Nino Caponnetto non nominò Falcone come suo successore ma un altro magistrato, con meno anni di esperienza.

Io dopo l’esperienza del CSM torno a Torino e vengo nominato presidente della Corte d’Assisi di Torino. Bellissimo lavoro. Ma ecco che dopo la strage di Capaci, in una manifestazione a Milano organizzata da Nando dalla Chiesa in cui partecipo anche io per commemorare Falcone, un colonnello dei carabinieri, sorridendo, sotto voce, mi dice:

Borsellino mi manda a dire che per lei non è ancora arrivato il tempo di andare in pensione”.

Giuro che io questa frase non l’ho capita, mi sembrava stramba e non avevo l’età per andare in pensione, stavo facendo il presidente della Corte d’Assise. Cosa voleva dire? Quando pochi giorni dopo, nella strage di via d’Amelio, anche Borsellino viene ucciso, queste parole mi girano dentro. Risuonano dentro di me come una specie di chiamata. Tra i tanti motivi che mi hanno portato poi a chiedere il trasferimento a Palermo, avevo anche questa sorta di chiamata. Per me non era ancora arrivato il momento di andare in pensione, per me c’era l’opportunità.

Dieci anni di terrorismo sono stati dieci anni di fatiche. I miei figli sono cresciuti in mezzo ai mitra dei ragazzi della scorta. Finito il terrorismo, con la mia famiglia, si inizia a sperare che tutto torni tranquillo. Ma a un certo punto dico loro: “So quanto avete sofferto, ma io avrei pensato di andare a lavorare a Palermo, ben consapevole che vi infliggerò una ulteriore dose di sofferenza, ansia, paure, fatiche”. Abbiamo a lungo discusso ma alla fine hanno accettato la mia decisione ed ecco che chiedo di essere nominato Procuratore Capo di Palermo e comincia così la mia esperienza antimafia. Ancora un grazie al sostegno e alla presenza positiva alla mia famiglia anche perché prendere quel ruolo significava ficcare la testa nella bocca del leone. A Palermo non avevo la scorta, ero prigioniero della mia scorta. Ero libero soltanto di respirare. Tutto il resto lo decidevano, stabilivano, valutavano loro. Ero prigioniero per motivi di sicurezza”.

Il ricordo di quattro amici e colleghi magistrati – Emilio Alessandrini, Guido Galli, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – mi fece accettare il sacrificio del trasferimento a Palermo subito dopo le stragi, per continuare la strada da loro intrapresa, come una sorta di passaggio del testimone.

 “A questi nomi (di Magistrati) aggiungo anche quello del Generale, allora prefetto antimafia di Palermo, Carlo Alberto dalla Chiesa, con il quale ho lavorato a lungo negli anni dell’antiterrorismo. Ricordo una splendida ma tragica intervista di Giorgio Bocca a Dalla Chiesa, il 10 agosto del 1982, pochissimi giorni prima dalla sua morte. Mi aveva impressionato. Dall’aeroporto di Fiumicino decisi di telefonare a Dalla Chiesa. Mi disse che i poteri che stava chiedendo così intensamente non potevano che far cambiare le cose. Purtroppo questi non sono arrivati e le cose sono cambiate in peggio. In 100 giorni la sua esperienza di Palermo si è chiusa con la sua morte, con la moglie e l’autista.

Insomma, quando si è trattato di decidere di trasferirmi a Palermo, tutti questi nomi sono tornati. Il fattore principale però sono state le parole di Nino Caponnetto, capo di Falcone e Borsellino. A un giornalista rispose:

È tutto finito, non c’è più niente da fare”.

Interpretava il pensiero e il sentimento di noi tutti, eravamo convinti in quel momento, dopo la Strage di Capaci e via d’Amelio, che queste manifestazioni terribili di spietatezza e ferocia criminale mafiosa stessero per spazzare via la nostra democrazia sostituendola per qualcosa di orribile, il potere criminale stragista.

Ma intanto tutte le scuole italiane dagli asili all’università parlavano di antimafia, legalità e giustizia, così ci siamo tirati su le maniche e abbiamo deciso che non si poteva assistere a questo divagare di potere criminale mafioso così feroce. Abbiamo fatto fronte comune e ho cercato di esserci anche io. Uno dei motivi principali che mi ha convinto è stato quello di mettermi al servizio: stare a guardare senza fare nulla non mi sembrava giusto. Questa cosa me l’ha detta anche mio figlio di 17 anni. All’ennesima mia richiesta di esprimere il suo parere mi disse:

Se nel nostro Paese le cose non vanno bene è perché tutti sono bravi a dire cosa si deve fare ma poi non sono altrettanto bravi a farle davvero. Vuoi andare a Palermo? Ma vacci”.

Così ho iniziato un’esperienza che è durata quasi 7 anni, un difficile, complicato, rischioso lavoro”.

Un grave errore è quello di delegare la lotta al terrorismo o alla mafia esclusivamente alle forze dell’ordine e alla magistratura. Senza coinvolgimento dell’opinione pubblica non si vince. La vittoria vera arriva dalle retrovie, cioè dal Paese, dal cuore e dalla testa degli italiani.

Le cifre ufficiali sono eloquenti:

  • Beni confiscati per 5 miliardi di euro

  • Attentati e omicidi sventati

  • Individuazione di arsenali, che potrebbero essere in dotazione a eserciti regolari

  • Quasi 90 mila persone indagate, di cui un decimo per fatti di mafia

  • Più di 23 mila persone rinviate a giudizio

  • 650 condanne all’ergastolo

  • Le confessioni consentirono di aiutare a catturare molti latitanti mafiosi

 

“Innanzi tutto è servito il coinvolgimento della cittadinanza, come per il terrorismo. Quando arrivai a Palermo la Procura era ancora lacerata. Falcone e Borsellino furono molto osteggiati e calognati, attaccati. Al mio arrivo a Palermo le lacerazioni del post Falcone e Borsellino risalgono anche a quanto hanno dovuto lottare. Falcone è stato costretto ad emigrare per questo, contro queste ostilità.

In quel momento, tutti insieme, magistratura, forze dell’ordine e politica si riesce a fare resistenza ma con il contributo decisivo della cittadinanza. La Palermo di quei tempi era la Palermo le cui strade e piazze si riempiono soprattutto di giovani. Guardate che manifestare a Palermo all’epoca, con la mafia stragista ancora imperante, era tutt’altro che facile. Ci voleva molto più coraggio di quanto ci voglia rispetto a qualsiasi altra città d’Italia. Eppure le strade di Palermo si sono riempite di gente, giovani in particolare che dicevano no alla mafia’. Inaudito per Palermo. ‘Vogliamo la democrazia’ che, pur sempre con i suoi difetti è qualcosa di migliore rispetto alla mafia. È inoltre la Palermo che si riempie di lenzuola bianche per dire no alla mafia, sì alla trasparenza della legalità, della democrazia. E non era facile.

Nella sua biografia, Gaspare Spatuzza, di Brancaccio, quartiere di grande intensità mafiosa, racconta che anche questo quartiere si riempì di lenzuola. I capi mafia dissero di volere i nomi di tutti quelli che espongono: non poteva dare i nomi perché le lenzuola le avevano tutti. La mobilitazione è stata decisiva anche in questo caso per portare all’isolamento dei mafiosi.

Di conseguenza a questo isolamento molti hanno iniziato a collaborare. Abbiamo iniziato ad avere una lista di mafiosi molto lunga che hanno iniziato a collaborare. I risultati ci sono stati. In più sono stati processi agli imputati ‘eccellenti’. La mafia non è solo gangsterismo, gioco d’azzardo, traffico di droga, di armi, estorsione, etc, la mafia è anche relazioni esterne, cioè rapporti torbidi, nascosti, con pezzi significativi della politica, istituzioni, economia, informazione e società civile stessa. Questa è la specificità della mafia.

Queste relazioni esterne permettono coperture e corruzioni. La lotta alla mafia deve avvenire sempre sia sul versante militare che sul versante delle relazioni esterne. Ovviamente tutto nel pieno rispetto delle regole del nostro regolamento. Ci siamo trovati a inquisire e processare parecchi di questi nomi eccellenti. Anche qui però vige la regola, ‘gioca coi fanti ma lascia stare i santi’.

Fino a che ti occupi dei boss, vai bene. Ma quando ti occupi dei ‘nomi eccellenti’, non vai più bene: l’hanno sperimentato anche Falcone e Borsellino. Fino a che sei contro i mafiosi di strada, con la lupara, ok. Altrimenti non vai più bene anche sei stai sconfiggendo la mafia e stai dimostrando che non è invincibile. In quel momento furono quindi attaccati da tutti, calunniati da chiunque. Alla fine anche la balla più clamorosa del mondo, a furia di essere ripetuta, ti entra in testa. Così la lotta alla mafia andò indietro di 50anni. Lo stesso successe nel dopo stragi. Fino a che abbiamo arrestato i latitanti, tutto bene. Quando ci siamo spinti oltre, basta. Sono cominciate le stesse calunnie ai tempi di Falcone e Borsellino”.

Dalla giustizia vorrei interventi radicali e profondi, capaci di incidere significativamente sul versante fondamentale dell’economia illegale.

In Italia si registrano cifre da capogiro:

  • 130 miliardi di euro l’anno di evasione fiscale

  • 60 miliardi di euro di corruzione

  • 150 miliardi di euro di business mafioso

  • In totale 340 miliardi euro l’anno sottratti allo Stato.

“Quando si parla di legalità, si tratta di legalità in termini legali. Quella che ci porta via una montagna di ricchezza. Il nostro fisco avrà tante cose che non vanno bene ma 130miliardi di euro l’anno sono anche tante persone che non pagano perché non vogliono. Il 30% dei miliardi evasi finiscono all’estero esportati illecitamente. È corruzione e danno di immagine per la nostra economia. Se uno vuole investire, invece di andare in Italia, va all’estero.

Insomma una montagna di ricchezza che ci viene rapinata con un astronomico impoverimento di tutti, perché di tutta la collettività. È un’infinità di risorse che ci vengono sottratte. Potremmo realizzare tutta una serie di cose che, se le avessimo, vivremmo meglio. Ecco che legalità significa migliorare la qualità della vita. Non è una questione che ha ricadute dirette e immediate sulla vita.

Più legalità, più speranze per i giovani, per tutti. E un futuro che vale la pena di essere vissuto perché con maggiori possibilità. Risorse che se le avessimo potremmo avere tante cose in più, dalle più piccole alle più importanti come un campo sportivo o un centro di accoglienza in più. Una vera tutela del nostro patrimonio artistico e storico. Tutte cose che non abbiamo perché l’economia illegale ci rapina. Allora la legalità di convince, ci interessa, è un nostro vantaggio. Tutti insieme perché l’unione fa la forza, cerchiamo di dare una mano per quanto possibile affinché la legalità sia sempre di più. Ci conviene, ci interessa ed è del bene che ci facciamo”.

Pur con tutti i nostri problemi… siamo considerati il paese dell’antimafia. L’Eurojust, l’embrione della futura procura europea, è modellato sulla nostra procura nazionale antimafia. Quella volta a Bruxelles per la soddisfazione mi venne voglia di avvolgermi nel tricolore.

“Siamo considerati da chi non ci conosce ed è superficiale, come un Paese di mafia. È vero, abbiamo problemi di mafia. Ma all’Estero, chi ci conosce meglio, stima l’Italia e la considera un punto di riferimento per l’antimafia. La sfilza interminabile di morti, che hanno avuto la funzione rivoluzionaria sul versante della legalità, hanno insegnato a tutti che per la legalità si può anche morire. Ecco che si restituisce con una tragedia, un fatto terribile, con il sangue versato e vite che non torneranno mai più, si restituisce allo Stato credibilità.

Siamo l’unico Paese al mondo che ha cercato di organizzare insieme le famiglie di vittime di mafia per poter trasformare in forza, impegno e testimonianza. Siamo gli unici al mondo inoltre con il reato associativo: si può essere condannati per il fatto stesso di appartenere alla mafia. È fondamentale il reato associativo. Giovanni Falcone, prima dell’introduzione di questo reato, scriveva:

Pretendere di fermare la mafia è come pretendere di fermare un carrarmato avendo a disposizione solo una cerbottana”.

Con il 416bis, il reato associativo, ecco, questo carrarmato ha cominciato a rallentare.

Ma siamo il Paese dell’antimafia soprattutto per il fiore all’occhiello: l’antimafia sociale. Le associazioni come Libera hanno una vitamina in più, la vitamina L, quella della Legalità. È una vitamina che fa del bene”.

Magistrato Gian Carlo Caselli a Busto Arsizio

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