Come una notizia all’apparenza negativa possa divenire fonte di energia e amore per la vita, Luca Guenna l’ha dimostrato ampiamente. Sì, perché dal momento in cui gli è stato diagnosticato il Parkinson ha ridimensionato i suoi impegni lavorativi e si è dedicato alla sua più grande passione, la musica. Tanto ha fatto che dalla sua spinta energetica ha messo in piedi un festival di musica, Wood in Stock, in provincia di Varese che, in collaborazione con la Fondazione Comunitaria del Varesotto ha già raccolto più di 60mila euro a favore della ricerca.
Chi è Luca Guenna?
«Sono un private banker con l’amore per la musica, due cose che non c’entrano l’una con l’altra. Private banking è una banca di affari che gestisce grandi patrimoni di grandi imprenditori, sono stato per 15 anni direttore di centri private banking del gruppo Intesa San Paolo.
In questi anni ho lasciato l’incarico di direttore perché la malattia avanza ed è un limite con il quale mi devo confrontare, ho bisogno di un quotidiano rilassante che non sia a quei livelli di stress e la mia azienda mi ha trovato un’attività più leggera. Quando ero direttore ho girato l’Italia per motivi professionali. Poi è avvenuto l’incontro con il Parkinson. Ho fatto l’esame che si fa in campo neurologico per accertare la presenza della malattia e ho avuto il verdetto quando ero ancora a Monza, nell’ultima filiale in cui ho lavorato».
Quando ti sei accorto di avere il Parkinson? Quali sono stati i primi segnali?
«Ero a messa, era domenica e quelli più alti li fanno andare avanti per fare le letture domenicali. Quando sono salito sull’altare la catechista mi ha chiesto perché fossi emozionato, la mia gamba tremava già da allora, dalla lettura sull’altare. Per un po’ di tempo ho pensato che fosse stress da lavoro ma dopo un anno ho fatto gli esami e si è capito che era una malattia neurodegnerativa.
Da quel momento ho avuto una svolta epocale, prima andavo su treni alta velocità, era il mio lavoro, ma il Parkinson ha provocato il risveglio del desiderio di dedicarmi a ciò che mi piace. Volevo creare una band in omaggio a Elvis Presley e ho messo grande energia in questi progetti musicali ai quali mi sono dedicato negli ultimi anni. Il Parkinson ha provocato un innesco e l’ho seguito, ho osato fare ciò che non avrei fatto in tempo di salute. Sentivo l’orizzonte accorciarsi per via della malattia, mi ha fatto venir voglia di non perdere neanche un minuto».
Cos’è per te il Parkinson, una tua personale definizione?
«È uno scontro frontale con la realtà, nel senso che tu viaggi, in tempo di salute, e non apprezzi quasi niente di ciò che hai. Ti sembra di essere immortale, a quarant’anni non pensi alla fine del tuo tempo mentre con il Parkinson rifletti su queste cose. È uno scontro frontale con la realtà in cui prendi consapevolezza che il tempo è limitato. Se uno ci pensa bene, anche con una vita in salute si è in una situazione degenerativa: si muore. Quindi, la malattia ti mette a dura prova ma se fai uno sforzo di consapevolezza riesci anche a capire cos’è la vita. Grazie alla consapevolezza ho avuto dei miglioramenti nella mia vita».
Hai avuto paura all’inizio?
«All’inizio è stata un po’ una reazione “isterica”, ti chiedi “perché è successo proprio a me?”, sei realmente disperato quando ti arriva la notizia. Poi però la voglia di reagire è stata forte, sono forte di carattere e ho capito che la consapevolezza era l’unica strada possibile.
Poi mi sono abbandonato al mio desiderio creativo di esprimere me stesso attraverso la musica, da lì ho tratto grandi soddisfazioni e allora ho curato un po’ il binario della sofferenza. C’è stata una compensazione importante dalle soddisfazioni che ho avuto».
…ed è da qui che nasce Wood in Stock?
«Sì. Ho iniziato a giocare con questa cosa di trovarmi una band. Io prima cantavo sotto la doccia e basta, poi ho trovato un sito (musicistidellamiacittà.com). Da lì potevi fare il download delle persone in base al raggio di chilometri di distanza. Se cercavi un bassista rock ce n’erano 5 o 6 distanti da te, tutti con il loro pedigree! Ci siamo divertiti in giro per i locali come dei bambini, questo mi ha dato una scarica di adrenalina e d’azione.
Quando vai agli eventi non pagano bene ma volevo far soldi per fare qualcosa di buono e finanziare la ricerca sul Parkinson. Da solo non riuscivo a far niente, guadagnavo a malapena i soldi per la benzina per andare ai concerti. Sono sempre stato molto amante della musica anni ’60-’70 e il mio modello creativo era Woodstock, da qui ho creato Wood in Stock, l’espressione, parafrasata, significa “legna in magazzino” e vuol dire avere tante idee da esprimere e tante cose da dire.
Quindi, al di là del baricentro musicale, noi volevamo introdurre anche altre espressioni artistiche come arti figurative e poesia. Un po’ a fatica abbiamo introdotto anche mostre d’arte all’aperto e mostre estemporanee. Sono stato molto fiero ma mi piacerebbe fare di più. Poi sono riuscito a farmi aiutare da un amico importante, la Fondazione Comunitaria del Varesotto. Con loro abbiamo creato un fondo per la ricerca del Parkinson, ora abbiamo versato 61mila euro e questo è motivo di orgoglio».
I consigli che dai alle altre persone con il Parkinson?
«La prima cosa è quella di non nascondersi, diventa psicologicamente devastante nasconderlo. Se tiri fuori il portafoglio al supermercato e i soldi ti cadono, la gente ti guarda ma bisogna farsene una ragione. La gente ti guarda e può essere imbarazzante per gli altri che non sanno, possono pensare erroneamente che tu sia ubriaco o drogato.
Questo, moltiplicato su amici e colleghi fa sentire quasi colpevoli perché loro non capiscono le cause del tremore. Dunque, la cosa migliore è dirlo, il parkinson diventa parte della tua identità e ciò che ti devi augurare è che ci sia molta empatia accanto a te, altrimenti diventa tutto come una nota stonata».
Tu hai trovato persone empatiche?
«Sì, certamente. Ricordo una volta di una riunione Parkinson Italia, la presidentessa che era in stato avanzato della malattia fece un discorso dicendo che, quando cadeva, nessuno doveva aiutarla perché ce la faceva da sola. Dopo il grande applauso io ho alzato la mano e ho detto che non sono d’accordo, non bisogna creare un muro tra noi e gli altri, se tu cadi o ti fai male, la persona che ti vede cerca di aiutarti.
Quello è un gesto d’amore e se tu interrompi questo ciclo crei un disastro, se rifiuti l’aiuto crei imbarazzo e magari la prossima volta che hai bisogno di aiuto non ti è dato. Quando sei in casa e cadi sei solo, allora lì ti devi rialzare da solo. Ma quando sei con gli altri, devi lasciare la libertà agli altri di poterti aiutare. Dobbiamo respingere il pietismo, non bisogna dire “poverino”, ma se uno ti vuole aiutare bisogna lasciarlo fare, così crei un ambiente positivo attorno a te. Spesso si va a finire in quelle situazioni perché, anche da malati, si fanno molti errori.
Poi un altro consiglio è che bisogna reagire e cercare di trasformare la cattiva notizia in una buona. Si può farlo dando voce al proprio talento. Durante la routine della vita quotidiana il talento dorme ma è uno sbaglio perché il sapore della vita c’è e non bisogna perderselo. La malattia è un’occasione, ti lascia il tempo di riflettere su te stesso e la tua espressione. Questo è ciò che ho fatto io, fare qualcosa di creativo è un buon consiglio, può essere cucinare, scrivere… Io ho investito sulla musica perché mi piace ed è la mia passione».
Cos’è per te la vita?
«Ho una mia visione, la vita è un bellissimo passaggio e una parte dell’esistenza. Un’esperienza meravigliosa che io considero come un passaggio da una mia visione di fede».
Qual è la tua canzone preferita?
«My way, il testo rispecchia un po’ quello che è il mio percorso ed è una canzone che canto molto appassionatamente».