Negli ultimi anni, con la testa rivolta a mille impegni, abbiamo cercato sempre più di evolverci tecnologicamente, delegando smartphone o computer di “fare per noi” e sostituendo “macchine” a persone fisiche con il solo scopo di “ottimizzare” il tempo per avere più tempo per fare più cose; mi vengono in mente robot al posto di personale nelle grandi catene alimentari, assistenti virtuali nelle palestre, bambini parcheggiati davanti alle televisioni-baby sitter invece di coinvolgerli in attività casalinghe…
In questo circolo vizioso della “ricerca di tempo”, questi atteggiamenti alla ricerca di un individualismo personale ci stavano portando a una solitudine sociale che ci spingeva a guardare il nostro tornaconto personale sottovalutando l’inevitabile interconnessione con le vite altrui. La pandemia che stiamo vivendo in questi mesi ci sta facendo riscoprire la necessità di relazioni fisiche, il bisogno di stare con gli altri, la bellezza di darsi una pacca sulla spalla e di parlare guardandosi negli occhi. Gesti di cui eravamo convinti di poter fare a meno, gesti che solo ora ci siamo accorti di non poter sostituire perché, come sosteneva il filosofo greco Aristotele nel IV secolo a.C., l’uomo è un animale sociale che per vivere ha bisogno della sua socialità e di sentirsi parte di una comunità. Forse ce ne eravamo dimenticati.
L’obbligo della distanza e il divieto di contatti fisici, se da un lato hanno aumentato la diffidenza verso gli altri, dall’altro lato ci hanno fatto capire quanto sia errato il concetto di “ognuno si salvi da solo guardando nel proprio orticello” e i fatti ce lo dimostrano perché solo rispettando tutti le regole e facendo gesti di solidarietà gratuita per non lasciare indietro nessuno, è stato possibile vivere insieme come comunità nella fase 2.
Il controsenso è che è stato necessario un lockdown per fermarci e farci capire che un cambio di rotta era fondamentale, proprio dall’isolamento imposto dal Covid-19 stiamo imparando quanto la nostra vita dipenda da quella di chi ci sta intorno e di quanto il nostro “stare bene” sia imprescindibile dal lavoro altrui.
Tutti in queste settimane abbiamo sofferto la distanza dai nostri cari e l’asocialità obbligatoria, ma per le categorie più svantaggiate queste mancanza di condivisione e l’impossibilità di stare insieme sono disagi amplificati. Ho quindi voluto dare voce direttamente alcuni amici disabili ponendo loro la semplice domanda: “Cosa significa la quarantena per una persona con disabilità?”. Dalle risposte emergono diversi modi di vivere la quarantena ma in ognuno di loro emerge la nostalgia e il bisogno vitale delle relazioni sociali.
Alcuni denunciano una grande solitudine come Paolo: «Per me la quarantena significa stare chiuso in casa senza la possibilità di vedere qualcuno, al di fuori dei miei famigliari stretti» e come Domenico: «Per me la quarantena vuol dire non posso muovermi, non posso lavorare con i miei colleghi e non ho nessun aiuto»; una solitudine che si traduce in un senso di abbandono vero come mi dice Giovanna: «Durante il lockdown avevo assistenza un’ora alla mattina ma per il resto della giornata ero sola, mi sono sentita stretta tra queste quattro mura di casa. La quarantena mi ha tolto la libertà di uscire e di vedere persone: ho sofferto la solitudine».
Chi non nota differenza tra il prima, il durante e il dopo, lo sostiene per motivi diversi; come Mirko: «Per me è cambiato poco perché di amici veri ne ho pochi, quei pochi però c’erano prima così come ci sono stati, anche se a distanza, durante le settimane di quarantena» o Anna: «Io la sto vivendo diciamo “bene” anche perché non è cambiata la mia routine visto che ho sempre comunque continuato ad andare al lavoro. Emotivamente certo che mi ha segnato, soprattutto non potendo vedere tanti affetti e allo stesso tempo “vedere” tante persone, pezzi di storia, andarsene così…».
Alle motivazioni di Anna mi unisco anche io perché, per me, il fatto di lavorare già abitualmente da casa, passando già di solito molte ore alla scrivania di camera mia, mi ha permesso di considerarmi fortunata. Non ho stravolto le mie abitudini ma anzi mi sono adeguata più facilmente di altri alla quarantena. Fortunata anche perché ho amici che abitano nella mia città ma che già in periodi normali vedo poco e molti amici sparsi in tutta Italia con cui fisicamente ci si vede una o due volte all’anno, ma con telefonate e messaggi siamo quasi quotidianamente sempre in contatto abbattendo la distanza spaziale: “l’esser già abituata” è quello che mi fa dire di essere fortunata e di aver vissuto serenamente questo lockdown. Proprio la stessa serenità di cui parla Marco: «Ammetto che questo isolamento obbligato mi è pesato un po’, avrei voluto continuare le lezioni in università ma non mi posso lamentare. Sono sereno a casa. Questo periodo passerà!!»
La mancanza di socialità, quello stare in mezzo alla gente per stare bene e per svagarsi dalle proprie quotidiane difficoltà, quel bisogno di compagnia fondamentale emerge chiaramente dai contributi di Erika: «Per me stare in lockdown ha significato non potermi muovere come e quando voglio, non poter abbracciare, dover stare a distanza dalle persone che amo per me vuol dire non donare affetto. E questo per me è particolarmente difficile» e di Ilaria: «La quarantena significa non poter fare quelle cose, come andare a concerti e a teatro, che mi permettono per quelle due-tre ore di svuotare la mente e divertirmi senza pensare troppo alla mia disabilità e ai problemi che mi dà».
Silvia, pur sottolineando sempre la difficoltà della mancanza di relazioni sociali, cerca anche di trovare gli aspetti positivi di questo lockdown: «Quarantena per me è stare a casa con nessun contatto ravvicinato con le altre persone. Quindi niente fisioterapia, niente piscina e rapporti sociali solo virtuali… Il lato positivo è che posso leggere di più o informarmi meglio sulle cose che mi interessano». Le fa eco Paolo: «è stato un momento in cui ho riscoperto alcune passioni e ripreso cose che avevo lasciato sempre indietro per mancanza di tempo. Ho avuto il tempo per imparare alcune cose che normalmente lasciavo stare. Ho ritrovato vecchie foto e riscoprendo le storie dietro a ogni scatto: pensieri, passioni, quella volta dove ha rischiato di rimbalzare in mezzo al nulla e quella dove invece ce l’ho fatta e ho così imparato a rimettermi in piedi. Ho rivisto la strada che mi ha portato fino a chi sono ora, perché in quarantena non puoi non fare i conti con tutti i pensieri che normalmente non hai tempo di affrontare o a cui normalmente sfuggi! Lavorando in smart working ho iniziato a vedere il mondo in una stanza, vuoi per lavorare e concentrarmi indisturbato dagli altri, vuoi perché in casa la tv era costantemente accesa e non sopportavo più allarmisti e paranoici discorsi. Per via della disabilità sono abituato a non perdermi d’animo. Stando fermo e non parlando molto ho sicuramente molti più problemi di uno sano per la degenerazione muscolare perché recarmi a lavoro, girare col cane, farmi “i giri turistici”, coltivare la mia passione per la fotografia facendo foto a certi orari e in certe condizioni, erano semplici attività che impattavano fortemente sul mio mantenimento fisico. A parte questo dettaglio però io, speciale o particolare, ho gli stessi problemi degli altri».
Un concetto ben esplicato da Giusi: «Io non ho sentito la differenza della quarantena fra me e i normodotati. I miei colleghi, i miei vicini di casa, i miei fratelli erano barricati in casa come me. Facebook ci faceva sentire più vicini, mi è capitato di dare e diffondere informazioni su dove trovare le bombole o su dove trovare alloggi per i medici che arrivavano per aiutare l’ospedale a Bergamo. Le difficoltà della mia città ci hanno uniti e non mi sono sentita per niente esclusa, emarginata, anzi al contrario era uguale per tutti: tutti impotenti di fronte a un pericolo nuovo e subdolo, ci siamo tutti sentiti piccoli e repressi nelle nostre vite che da due mesi sono state rivoluzionate per tutti. Ma noi dai nostri balconi gridiamo la nostra voglia di ricominciare».
Condivido pienamente il pensiero di Giusi e mi piace molto il messaggio che emerge, siamo tutti uguali, nell’aiutare e nel soffrire ci dobbiamo spalleggiare restando uniti. Penso che il suo contributo sia proprio l’esempio pratico della connessione imprescindibile tra le persone di una stessa comunità di cui parlavo all’inizio dell’articolo: secondo me l’essere un animale sociale dell’uomo è proprio questo!