I can’t see the end of me
My whole expanse
I cannot see
I formulate infinity
Stored deep inside me.
(MTV Unplugged in New York, 1994)
Sono passati 22 anni da quel 5 aprile in cui Kurt Cobain decise di lasciare quel mondo che fino all’ultimo non è riuscito a comprendere fino in fondo, dopo aver vissuto l’angoscia e la frustrazione di sapersi la voce di una generazione, senza per altro, a parer suo, averlo mai chiesto. Kurt ha creduto fino all’ultimo di essere solo al mondo, di non riuscire a gestire la fama mondiale e quella “responsabilità” che la società gli aveva affibbiato. Kurt Cobain voleva soltanto essere un musicista e invece fu molto di più. Il ragazzino felice e iperattivo di un tempo era già morto insieme al matrimonio dei suoi genitori (quando Kurt aveva solo 8 anni) e la musica divenne valvola di sfogo per quell’insicurezza e la tristezza che avevano forgiato il suo animo in tenera età.
Il dolore e il malessere che Kurt riversava nelle sue canzoni erano il grido di un ragazzo troppo fragile che nel giro di pochi anni, nonostante fosse “venerato” dalla “Generazione X” che si rispecchiava nella musica dei Nirvana, vide il suo animo autodistruggersi e rompersi in mille pezzi, come una cipolla di vetro che cade da sola in una stanza vuota: si disintegra, il boato forte riecheggia tra le pareti di quella stanza, ma nessuno riesce a sentirne il rumore. Questa era la sensazione che Kurt poteva provare, nonostante cercasse di gridare la sua angoscia attraverso un microfono.
Nonostante il successo mondiale di Nevermind (1991) e In Utero (1993), che inserirono Kurt nell’Olimpo dei rocker, nemmeno la musica riuscì a dar sollievo all’animo travagliato di Cobain, che si rifugiò nelle droghe e ne divenne presto dipendente. La morte come soluzione a tutti i mali, divenne l’ultima scelta di Kurt, che fino a quel momento “non aveva mai fallito nel provare dolore” (I have never falied to fell pain – You Know Your Right, 2002, brano postumo). Quel 5 aprile 1994, in cui Kurt entrò a far parte del Club 27 (come Brian Jones, Jim Morrison ecc.), fu l’arresa di un uomo, un artista, la voce degli anni ’90, che non riuscì a trovare mai la sua pace interiore, il suo Nirvana. È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente.
Foto: © Creative Commons – Flickr: Maia Valenzuela.