Da quando è arrivato in Italia, Ibrahima Sabaly ha incontratro un fiume in piena di solidarietà e amicizia. Senegalese, è approdato nel Bel Paese nel 2014. Partito quasi per caso, dopo essersi trovato in mezzo a lotte di partito che hanno travolto la sua famiglia e il suo villaggio, nel nord Italia ha trovato l’aiuto di molte persone. Tra loro, Paola e Gianluca, una coppia dal cuore e dagli abbracci grandi, che ha voluto ospitarlo tra le mura di casa per alcuni mesi.
Così, abbiamo voluto ascoltare Ibra e conoscere la sua storia, ma anche quella di Paola e Gianluca.
Intervista realizzata con Valentina Bottini e I. Capitanio
Chi è Ibra?
«Ibra è un ragazzo senegalese arrivato in Italia il 20 luglio 2014. Sono stato a Gallarate in un centro di accoglienza, sono arrivato lì un mercoledì alle 11 di sera, poi mi hanno trasferito a Busto Arsizio in via dei Mille. Dopo un anno e mezzo ho affrontato la commissione per rimanere in Italia, mi hanno dato esito negativo. Ho fatto ricorso, ancora negativo. Aspettavo l’appello, poi un giorno mi hanno chiamato in Questura per firmare, potevo lasciare il centro.
Nel frattempo ho conosciuto Laura, mi dava lezioni di inglese ogni sabato… mi hanno detto di lasciare il centro di sabato. Quando Laura mi ha chiamato per andare al corso, ero in stazione: le ho detto che non potevo perché ero andato via dal centro e non sapevo dove andare.
Così, mi ha portato in campagna dove c’era una festa, lì mi ha fatto conoscere Gianluca e Paola. Sono bravissimi, mi hanno trattato benissimo, mi hanno sostenuto e hanno fatto tutto per me. Ti dico la verità, ogni volta che prego, chiedo a Dio che li benedica e faccia tutto per loro, perché non ho mai incontrato gente buona così come Paola e Gianluca.
Perché incontrare una persona che non ti ha mai conosciuto e ti ha accolto… sono sempre con me, nella sofferenza e nella felicità. Pensa, volevo andare a Foggia per raccogliere i pomodori e loro non hanno voluto.
Volevo andare perché nella nostra tradizione, se abiti con qualcuno e non gli puoi dare niente, questa condizione ti dà fastidio. Ma loro mi hanno detto di non andare perché, se tornavo, non avevo più un posto… ma nel loro cuore non volevano che andassi lì.
Poi ho deciso di andare a Palermo, Paola e Gianluca mi hanno detto di aspettare perché dovevo fare una testimonianza. Anche in quell’occasione ho conosciuto della gente brava. Però posso dire che Foggia è meglio di Palermo.
Il ragazzo che mi ha chiamato per andare lì faceva borse, scarpe, per la Legge italiana non è possibile… “se arriva la polizia devi correre”, mi ha detto. Era giovedì, stavo per andare a casa, ed è arrivata la Guardia di Finanza, mi ha fermato e mi ha chiesto il documento. Ho detto che non lo avevo e mi hanno detto di firmare. Mi hanno fatto la foto, mi hanno chiesto quando sono entrato in Italia e se avevo i figli.
L’avvocato mi aveva detto di non firmare un foglio se non sapevo cosa fosse e perché dovessi firmare. Siamo stati lì fino alle sette di sera e hanno chiesto il nome del mio avvocato. Lui mi aveva chiesto cosa avevo combinato lì, ma io ho detto che non avevo fatto niente. Alla fine lavoro solo sabato perché non veniva nessuno a controllare, abitavo con dei senegalesi ai quali pagavo 80 euro d’affitto. Non riuscivo ad averli, così Paola e Gianluca hanno mandato questi soldi. Poi 36 persone hanno firmato per me e l’avvocato ha portato al tribunale le firme a mio favore.
Mentre stavo parlando alla mia famiglia, dicendo loro come andava la situazione, mi è arrivato il messaggio dell’avvocato: mi ha detto che avevo il permesso di soggiorno per 2 anni. Pensa, a Palermo volevano darmi l’espulsione mentre io ho detto che non avevo fatto niente.
Alla fine sono tornato qui al nord ma, prima di tornare, mi hanno dato i soldi per pagare l’affitto e il biglietto. Qui mi hanno dato residenza, ospitalità e tutto. Mi hanno aiutato a trovare lavoro. Ho trovato lavoro e ora sto lavorando a Malpensa, piano piano tutto andrà bene.
L’unica cosa che posso dire, lo dico sempre e ripeto, assenti o presenti, non smetterò mai di ringraziare Paola e Gianluca, nemmeno i miei genitori hanno fatto così tanto per me. I miei genitori decidono per me, loro vogliono tutto quello che voglio io. Mi hanno anche fatto conoscere Tiziana e Claudio, sono stato da loro per quasi cinque mesi, mi hanno trattato benissimo anche i loro figli.
Dico sempre che non ho niente da dire, perché loro sanno e anche io so.
E arriviamo ad oggi (luglio 2018 ndr.): mi sono trasferito in un appartamento e sono diventato indipendente… la vita continua.
La mia storia è un po’ brutta, perché mio fratello è morto. (silenzio ndr.) Lui è stato bravissimo con me, mi aiutava quando stavo studiando, lavorava in una parte del Senegal dove si estrae l’oro. Sono morte molte persone lì, ma lui è sempre stato bravissimo. La prima cosa che ho pensato quando sono arrivato qua è stato di ripagarlo per renderlo felice.
Ma, purtroppo, lui è morto e non l’ho neanche visto. Era mio fratello maggiore, un bravissimo ragazzo… ha iniziato presto ad avere i soldi, già a 18 anni, il primo anno che ha lavorato lì, ha guadagnato tanti soldi. Aiutava la famiglia e aiutava a scuola. Ora che lui è morto (e anche i miei genitori non ci sono più), rimangono solo i miei fratelli e sorelle. Loro capiscono che anche qua non va tutto bene perché gli dico sempre la verità. Ogni volta che ho un po’ di soldi, li mando a loro, così possono fare la spesa per vivere. Mia sorella è sposata e ha avuto una bambina».
Cosa ti ha fatto partire dall’Africa per l’Europa?
«Anche questa è un’altra storia. Era il 2013 e facevamo un’elezione legislativa. Noi abbiamo un partito che si chiama PS, Partito Socialista Autentico, il dirigente è proprio del nostro villaggio. Questa elezione è quella del distretto e il capo che lì aveva potere, poi l’ha perso. Poi noi abbiamo vinto l’elezione e lui non voleva lasciare il potere. Lui sapeva che avrebbe perso, ha chiamato i suoi compagni per fare una riunione, proprio perché non voleva andarsene.
Mio papà era lì, quando sono arrivati i carabinieri hanno preso tutti quelli che erano lì senza chiedere niente e mio papà era tra questi. Hanno fatto molte domande, hanno cercato anche a me. Un giorno ero a scuola e mi hanno cercato.
Non avevo mai pensato di venire in Italia, in Europa. Prima ho deciso di lasciare la scuola per aiutare la famiglia, perché se vuoi studiare in Africa devi avere i soldi. Mio papà era già vecchio e dovevo aiutarlo. Dopo la terza media lì devi fare il militare. Per questo problema io sono partito, lì ho incontrato tanti ragazzi del Mali che mi hanno parlato dell’Italia. Quando studiavo pensavo solo a studiare e giocare a pallone, non ho mai pensato di venire qua.
Ho pensato che era il destino a portarmi. Ho lavorato come muratore in Burkina Fasu, Niger e Libia. Lì ti fanno lavorare, non ti pagano e non puoi dire niente senno ti uccidono. Lì ho fatto il muratore perché dopo la guerra che c’è stata devono ricostruire, ti fanno portare su la sabbia per cinque piani senza ascensore e non ti pagano, ti danno biscotti o panini e poi dicono di andare via. Sono stato fortunato perché ho incontrato gente buona, ma ci sono anche cattivi».
Per quanto tempo sei stato in Libia?
«Non ricordo ma, un po’ di mesi… poi abbiamo preso la barca tutta la notte e siamo entrati in Italia alle due del pomeriggio, era domenica. Lunedì siamo venuti qua al nord».
Prima di partire, sapevi delle numerose morti in mare?
«No, non sapevo. L’ho saputo quando sono arrivato in Libia, lì l’ho saputo ma ormai avevo deciso e non potevo tornare indietro. Tornare indietro nel deserto è un’impresa… io sono stato fortunato perché l’autista che mi ha portato in Libia con il pick up aveva una famiglia da dove noi partivamo, lui prendeva la gente e poi incontrava suo fratello in un villaggio. Altrimenti si rischia di finire nelle mani di chi sfrutta le persone. Fanno la tratta del deserto, è una strada di sabbia battutissima.
In Libia ci sono due prigioni, quella del Governo e quella dei ragazzi che non lavorano e hanno le pistole. I ragazzi sono messi in una camera piccola, ti danno da mangiare una sola volta al giorno.
Dipende da chi ti porta. Noi eravamo due persone senegalesi, gli altri erano di Agadez.
Agadez è uno snodo di comunicazione perché da lì partono le piste per la Libia, l’ultima città prima del deserto. Noi ci abbiamo messo una settimana. Si viaggia di notte, più macchine insieme in convoglio. Ci sono degli autisti buoni che prima trasportavano turisti, ora invece fanno quello perché prendono soldi per trasportare le persone.
Io andavo con un amico da un signore in un negozio, ho parlato molto con lui e mi ha detto che conosceva un signore che portava i ragazzi, bravissimo e buonissimo. Lì in Libia nessuno può portarti. I soldi che abbiamo pagato sono stati pochi perché quel signore aveva un fratello che portava le merci, quindi partiva sempre pieno. Gli altri ragazzi che ho incontrato non sono stati fortunati, se fai quel viaggio ti vendono ai banditi, ti ricattano e ti ammazzano, devi trovare i soldi altrimenti ti uccidono».
Hai visto abusi e maltrattamenti mentre eri in Libia?
«Certo. In Libia c’era un ragazzo, l’hanno colpito qua (indica la testa ndr.), è stato fortunato perché non è morto. Lì tutti fanno quello che vogliono e nessuno può dire niente».
Quali sono le tue passioni?
«Il calcio era il mio primo sogno ma posso dire che, purtroppo, non ho più la speranza. Per iniziare a giocare devi avere diciotto, diciannove anni. Ho giocato in un campionato in seconda categoria a Parabiago. Il calcio è la mia passione, lo amo. Quando ero in Senegal ed ero piccolo, coltivavamo la terra. Io arrivavo a casa e non facevo nemmeno la doccia, non ascoltavo mia mamma che mi diceva di lavarmi e uscivo subito a giocare a calcio. Nei villaggi vicini mi conoscevano tutti per il calcio. Un giorno stavamo giocando e c’era anche mio fratello che è morto, a me facevano male i piedi ma eravamo 3 a 0, all’ultimo hanno cambiato il mio nome con quello di un altro. Io sono entrato negli ultimi cinque minuti, ho segnato. È partita un’ovazione».
Com’è stata la tua esperienza a Foggia?
«A Foggia ci sono i caporali, il capo nero parla con il proprietario del campo, che si accorda per la paga. Un cassone di un metro cubo, ti pagano 3 o 4 euro. Alcuni cassoni erano veloci, li facevo in 20 e 25 minuti o in 30, 40 minuti ma alcuni imbrogliavano, mettevano uno strato di radici sotto per riempire prima la cassa.
Inoltre, dovevo pagare 5 euro di viaggio andata e ritorno per il campo. Si dormiva in un box di cartone e bisognava pagare l’affitto 50 euro. Nella prima casa che ho pagato ci sono stato 4 giorni, poi mi è venuta la scabbia. Anche per ricaricare il cellulare bisognava pagare, per fare la doccia bisognava pagare».
Paola e Gianluca: «Pensa che erano tremila persone, tutto abusivo, oltre a droga e prostituzione. Il WC è nel campo. I caporali avevano fatto le case in muratura con bagni per fare la doccia. Alcuni aprivano anche i negozi e allora lì offrivano un posto per far ricaricare i telefoni.
Nel villaggio c’era anche “radio ghetto” in cui facevano parlare i ragazzi e raccontare le loro storie.
Paola mandava un messaggio a ibra ogni giorno, l’ha sempre sostenuto. Ibra, grazie al suo viaggio, e grazie al fatto che ci ha fatto conoscere purtroppo sulla sua pelle questa situazione, mandandoci le foto e documentando tutto, ci ha permesso di venire a conoscere la realtà per poter poi diffondere alla comunità e anche a chi non sapeva quanto stava accadendo».
Cosa vi ha spinto ad accogliere Ibra “a casa vostra”?
Paola: «La sera in cui Laura è arrivata con Ibra alla festa, ci siamo trovati davanti a tutto ciò che abbiamo sempre creduto. Abbiamo sempre creduto ad un Dio che sta vicino ai più deboli e ai più fragili, abbiamo sempre pregato e letto il Vangelo tutta la vita. Lui si è presentato quella sera e ha detto: “Eccomi”.
Noi abbiamo un divano, non potevamo dire di no, era impossibile. All’inizio con tutte le paure del caso. Chi era Ibra? Poteva essere chiunque, ma a quel punto dici “sì”. Ora è una storia che va avanti da due anni. Prima anche lui non alzava quasi lo sguardo, all’inizio era introverso, perché non si fidava ancora di noi… (sorride ndr.)».
Ibra, tu avevi paura di andare in una casa di sconosciuti?
«No, ero felicissimo. Poi, sai cosa ti dico? Gianluca voleva cambiare il divano (ride ndr.) e io ho detto: “no, su questo divano ci dormo io”».
Paola: «Quando ha fatto tutti quei mesi a Foggia era un’altra persona, era dimagrito tantissimo, la sua faccia diceva quanto è stato male. Però è stato un ragazzo fortunatissimo. Poi ha fatto il Ramadan a casa nostra, un ragazzo ligio, bravissimo, un grande esempio di fede e fiducia in Dio, lui ci ha mostrato come si crede».
Ibra tu senti di essere così, ligio e devoto? Quanto conta la volontà di fare qualcosa?
«Sì, tutto dipende dalla volontà, se tu vuoi fare qualcosa, lo devi fare».
Come vedi ora il tuo futuro?
«La prima cosa alla quale ho pensato è stato di aiutare mio fratello piccolo. Lui è bravissimo a giocare a pallone, ci credo sempre e quello che sto pensando è di far venire mio fratello qui. Poi di mandarlo a scuola, prima studiava il Corano, poi è scappato e ha detto che non voleva più studiare. Io invece ho studiato le lingue, francese, la base, poi inglese e spagnolo come seconda lingua».
Paola e Gianluca: «E in Italia ha fatto la terza media».
Ibra: «Sì, magari posso studiare anche per migliorare un po’ l’italiano».
Paola e Gianluca, vi hanno criticato per aver ospitato un migrante?
«No, nessuno ha mai detto niente, magari non hanno osato dirlo. Tante volte non capisci perché un ragazzo deve partire e fare questa fatica esagerata. Ma è perché in Africa non ci sono opportunità, lì un ragazzo non può fare nulla.
Vare la pena rischiare la vita per un futuro migliore? Sì, perché noi l’opportunità ce l’abbiamo anche se non la vediamo. Lì invece non c’è opportunità di crescere e migliorare. Così come gli italiani vanno in Inghilterra per migliorare, anche gli africani vengono in Italia per migliorare, il mondo è di tutti».
Ibra, dopo foggia cosa ti ha spinto ad andare a Palermo?
«Sono andato perché me l’ha detto un ragazzo, ma io non sapevo che l’altro ragazzo a Palermo faceva un lavoro illegale per la Legge italiana. Pensavo che lì fosse meglio di Foggia. È difficile restare, se non lavori non puoi avere il permesso. Ma io pensavo che fosse meglio di Foggia e di poter lavorare lì insomma».
Mi racconti com’è andato il tuo viaggio in barca per attraversare il Mediterraneo?
«Sulla barca eravamo 105, sono partito alle sette di sera, il mare era freddissimo. Per quello tanta gente muore. Anche quelli che guidano la barca fanno questo lavoro, alcuni lo fanno per curiosità anche se non sanno guidare la barca».
In Italia hai mai subito episodi di razzismo?
«No… io no».
Come si comportano con te le persone qui?
«Qui benissimo, a Malpensa faccio lo smistamento dei bagagli e mi trovo bene.
Tra gli altri, ho conosciuto una ragazza che dava lezioni di italiano, lei mi ha detto: “Ibra tu sei un ragazzo bravissimo, ci sono tanti qui che non sanno scrivere nemmeno il loro nome, promettimi che aiuterai anche gli altri”. E così gliel’ho promesso. Quando ha saputo che lasciavo il centro, quel giorno non ha dato lezione perché ha pianto, non ci poteva credere. Ha pianto. Così siamo diventati amici e ci sentiamo spesso».
Paola: «Lui è entrato nella vita di tante persone, quando lo conoscono, gli vogliono bene perché è buono, ha avuto genitori bravi che gli hanno insegnato dei valori».
La tua canzone preferita?
«Mi puoi chiedere solo del calcio! Non ne ho una (ride ndr)».