Un viaggio a ritroso nel tempo, dalla Repubblica Ceca del 1944 alla Monaco di Baviera del 2020, passando per Münster, nella Germania Occidentale e per la regione della Ruhr.
È la storia di Heide Jarosch. Una stilista che dentro di sé non porta soltanto le influenze della Seconda Guerra Mondiale (vissuta da bambina) ma anche quelle del femminismo nel mitico 1968.
Una miniera di racconti che non potevamo non intervistare e che oggi condivide con noi dalla sua residenza nella pace dei laghi bavaresi…
Chi è Heide? Presentati…
«Mi chiamo Heide, sono nata a Opava nell’attuale Repubblica Ceca nel 1944. Un anno dopo la mia nascita mia madre ha lasciato la Cecoslovacchia e si è trasferita nel Münsterland nella Germania occidentale. Sono la secondogenita di 6 figli, alla mia nascita la città era occupata dai nazisti.
Dal 1918 al 1948 Opava ha fatto parte del territorio del Sudetenland della Moravia. Dai monti Sudeti si estraevano materie prime come ferro e carbone, nel 20esimo secolo quello è diventato un territorio industriale a maggioranza tedesca. La famiglia di mia madre si è stabilita in quella zona già nel 14esimo secolo. Ai tempi dell’Impero Austro-Ungarico la maggior parte della gente si sposava senza dare importanza all’etnia. Io ho parenti ungheresi, ucraini, austriaci, italiani e siamo sempre andati d’accordo. Eravamo cittadini di uno Stato multietnico».
Come si sono conosciuti i tuoi genitori?
«Mio padre e mia madre si sono conosciuti durante la seconda guerra mondiale. Mio padre era un ufficiale tedesco che nel 1941 assieme al suo battaglione ricevette l’ordine di andare a Stalingrado. I militari allora sapevano che in quella città si stava combattendo una sanguinosa battaglia. Durante il viaggio in automobile l’autista, che non voleva andare a Stalingrado, uscì di strada e di proposito andò a sbattere contro un albero. Alcuni militari morirono altri rimasero feriti e non furono più trasferiti a Stalingrado. In quell’incidente mio padre fu ferito alla schiena e fu portato in un ospedale specializzato, lì conobbe mia madre.
Nel 1942 è nata mia sorella nel 1944 sono nata io. Mio padre fu richiamato alle armi e scrisse che era stazionato vicino alla città di Münster in Vestfalia nella Germania occidentale. Mia madre era una donna molto coraggiosa e nonostante fosse incinta del terzo figlio, sfidando i pericoli della guerra ancora in corso decise di raggiungerlo. Per rivedere suo marito attraversò mezza Europa, viaggiò con due bambine piccole e un terzo figlio in arrivo per più di 1000 km nelle regioni dove infuriava la guerra».
Quindi i tuoi nonni rimasero a Opava, in Cecoslovacchia
«Sì. Nel 1948 i comunisti salirono al potere in Cecoslovacchia e trattarono molto male mio nonno, perché aveva lavorato per un “nemico del popolo”. Mio nonno era amministratore dei beni del conte Larisch. Il conte Larisch era un ricco proprietario terriero. Mio nonno in quella zona aveva una posizione di primo piano, gestiva miniere per l’estrazione del ferro e altri beni del conte.
Per questa ragione fu maltrattato anche dai nazisti, gli hanno tolto la gestione di alcuni beni e l’hanno sostituito con amministratori nazisti. Quello che ha vissuto la famiglia di mio nonno nel 1948 fu un’espulsione selvaggia. Da allora per loro è cominciata una nuova vita nel Münsterland dove abitava la figlia».
Com’era la vita in Germania dopo la guerra?
«Subito dopo la fine della guerra, la regione del Münsterland era sotto l’occupazione americana e c’era una buona assistenza per i profughi(1), poi la zona fu amministrata dagli inglesi. Mia madre doveva tirare avanti come poteva con due figlie piccole e un terzo figlio in arrivo. Per alcuni giorni abbiamo vissuto nel pollaio di un contadino e mia madre di notte restava sveglia, perché c’erano molti ratti e aveva paura che mangiassero le orecchie delle sue figlie.
Nel 1948 abitavamo a Gronau una città vicino al confine olandese, mio padre era stato liberato dalla prigionia americana e, con l’aiuto della Croce Rossa, ci ha trovato. In quell’anno arrivarono anche i nonni dalla Cecoslovacchia e vennero ad abitare da noi in un padiglione di legno costruito in un giardino.
Allora gli inverni erano molto freddi, la temperatura era spesso sotto lo zero e le pareti interne del padiglione si congelavano. Ero piccola ma mi ricordo che, quando eravamo in casa, tutta la mia famiglia aveva il cappotto addosso e stavamo attorno ad una piccola stufa a legna per riscaldarci un po’.
La vita in quel periodo era molto dura, le cose sono migliorate quando mio padre, alla fine degli anni ’40, cominciò a lavorare come doganiere al confine con l’Olanda e, grazie al suo stipendio, abbiamo potuto acquistare cibo e prodotti per la nostra sopravvivenza.
Lì stavamo bene perché avevamo anche un orto e coltivavamo le patate, oltre a un albero di pesche e uno di pere. Devo dire che, nonostante tutto, la mia infanzia è stata felice, abitavo in un piccolo paese, gli insegnanti erano anziani ma si impegnavano molto a darci una buona educazione ed erano molto affettuosi con noi scolari».
Com’era la vita in famiglia?
«Non so se mia madre voleva avere 6 figli, so solo che a Münster, città molto cattolica, abortire era un reato grave. In quei tempi se si scopriva che una donna aveva abortito veniva messa in carcere.
Sono sempre stata una femminista, ho vissuto in prima persona le battaglie del ’68, soprattutto quella della parità salariale fra uomo e donna.
Mio padre era tedesco, nato dell’Alta Slesia, era un impiegato statale della dogana e, come succede spesso nelle famiglie, non trascorreva molto tempo a casa per ragioni di lavoro. La persona di riferimento per noi bambini è stata nostra madre, lei e la sua famiglia hanno plasmato molto il carattere di noi figli».
Dove hai frequentato le scuole elementari?
«Nella cittadina di Gronau e mi ricordo che il cibo per il pranzo ci veniva portato dagli inglesi, la scuola era lontana da casa, dovevamo camminare a lungo, c’erano molti disagi. Nella nostra classe c’erano 60 bambini, subito dopo la guerra le scuole erano poche e gli scolari venivano raggruppati in gruppi molto numerosi.
La quinta elementare l’ho frequentata a Bochum, nella regione della Ruhr. Abbiamo trovato casa in un quartiere di minatori e operai di fonderie, le condizioni di vita erano pessime.
Nella nostra classe c’erano 50 bambini, tantissimi, la scuola era piccola e non c’era spazio sufficiente per tutti.
Io e la mia famiglia eravamo profughi, e non eravamo ben visti dalla popolazione. Negli anni ’50 ci siamo trasferiti spesso e a scuola ero sempre la “nuova arrivata”, forse anche per questo venivo esclusa dai vari gruppi di amiche. Il mio sogno era quello di diventare ballerina di danza classica, ma ero la sola bambina di 10 anni a essere interessata al balletto “La morte del cigno”.
La gente allora aveva poco da mangiare e quel poco lo doveva dividere con noi. Spesso siamo stati emarginati e maltrattati, questo succedeva anche a scuola, ma era una conseguenza della povertà in cui vivevamo. Mio padre era nel sindacato degli impiegati statali e nella nostra famiglia si parlava spesso della situazione economica e politica del Paese».
Dici che eravate in condizioni abitative molto difficili quando vivevi nella Ruhr, puoi raccontare i dettagli? Com’era la vostra quotidianità?
«Andavo a scuola assieme a mia sorella maggiore. La nostra vita quotidiana si svolgeva in modo normale. Andavamo a scuola a piedi, camminavamo per circa 45 minuti. I quartieri che dovevamo attraversare erano molto brutti.
Ai lati della strada c’erano edifici bombardati, grandi industrie per la lavorazione del carbone e fonderie. La scuola iniziava alle 8 e finiva all’una, avevamo due pause per la ricreazione, non c’era la mensa e ci portavamo la merenda da casa. Verso le due di pomeriggio arrivavamo a casa, mangiavamo e facevamo i compiti e poi andavamo a giocare in cortile».
Il tema migranti è ancora molto scottante oggi. Cosa pensi della migrazione e quali sono le differenze tra ieri e oggi?
«Penso che ci siano delle differenze, oggi parliamo di migranti, noi invece siamo stati costretti a lasciare il Paese. I rappresentanti del governo cecoslovacco hanno detto a mio nonno e alla sua famiglia che dovevano lasciare il paese entro poche ore. Hanno aspettato che i miei parenti caricassero sull’automobile lo stretto necessario e poi se ne sono dovuti andare.
Da loro abitava anche mia bisnonna, una donna anziana che in quella confusione aveva indossato per errore due scarpe di diverso colore e fattezza, purtroppo non è riuscita a trovare il paio giusto e ha dovuto fare il viaggio con le scarpe spaiate ai piedi. Me lo ricordo ancora oggi il suo arrivo con due scarpe differenti addosso».
Dici che eravate emarginati e discriminati in quanto profughi. Ci racconti qualche episodio?
«Purtroppo avevamo degli insegnanti molto severi. Ce n’era uno che dava bacchettate sulle mani se vedeva che qualcuno di noi parlava con il vicino di banco o se, peggio ancora, cercava di copiare dal vicino di banco».
E poi vi siete trasferiti…
«Sì, alla fine degli anni ’50 ci siamo trasferiti a Monaco. Qui ho fatto un apprendistato di sartoria e poi mi sono iscritta alla scuola di design al corso di stilista di moda. Dopo aver conseguito il diploma di stilista volevo andare negli Stati Uniti con un’amica come ragazza alla pari, volevo imparare bene l’inglese.
Avevamo deciso di fare il viaggio in nave e avevo già programmato dove lavorare per guadagnare i soldi del biglietto. Purtroppo mi sono ammalata ai polmoni e non ci sono potuta andare, sono stata operata e solo dopo un anno e mezzo mi sono ripresa. Poi ho trovato lavoro in un negozio di moda tradizionale tedesca, il lavoro mi è piaciuto molto, ho ancora adesso molti bei ricordi».
Dove vivi ora e come sei arrivata dove sei oggi?
«Ho vissuto a Monaco per 55 anni. Ora abito in un bellissimo posto nella zona dei laghi bavaresi, vicino al Chiemsee, a sud di Monaco. Una mia carissima amica di Monaco, che conosco da più di 30 anni, ha un appartamento vacanze in questa zona. Quando lavoravo, a volte venivo a trascorrere delle brevi vacanze qui e abitavo nel suo appartamento. Questa zona mi è sempre piaciuta molto e così ho deciso di trasferirmi qui».
Dici che sei stata femminista, soprattutto per la parità salariale. Pensi che in questi anni dei progressi siano stati fatti o sono solo dei piccoli modi per diminuire la discriminazione?
«Sì, per quanto riguarda i diritti civili delle donne ora le cose sono migliorate. Quando ero giovane io, se una donna sposata aveva un conto in banca a suo nome, non ne era la sola beneficiaria. Il marito poteva prelevare dei soldi dal conto della moglie senza il suo consenso, alla moglie però non era permesso fare la stessa cosa con il conto del marito. Inoltre, ai miei tempi la donna per lavorare doveva chiedere il permesso all’uomo».
Ed è per queste ragione che non ti sei sposata?
«Sì, io penso che il matrimonio sia una cosa sorpassata, oggigiorno si può divorziare con molta facilità, tanto vale non sposarsi. Per me il matrimonio è come un tessuto sflilacciato. Non ho niente contro il matrimonio, ma non fa per me. Ho vissuto per molti anni con il mio compagno, ci sono stati momenti difficili nella nostra vita, ma il bilancio finale è positivo.
Però, facendo un confronto fra la mia generazione e quella attuale, devo dire che la mia generazione combatteva con molta energia per ottenere i sacrosanti diritti civili che le spettavano. Adesso non vedo giovani donne che protestano per l’uguaglianza salariale e per il doppio lavoro che devono fare: professione e cura della casa e dei figli. Su questo fatto non è cambiato molto dai miei tempi a questa parte».
Hai vissuto i primi anni dopo la seconda Guerra Mondiale. Oggi, con la pandemia globale, stiamo attraversando quella che in moltissimi definiscono come la peggior crisi mondiale dopo le guerre. Cosa ne pensi e quali consigli vorresti dare ai giovani che hanno paura del futuro?
«Il mio consiglio è avere fiducia in sé stessi, essere flessibili, tenere gli occhi bene aperti, perché nella vita ci sono molte possibilità per realizzare i nostri progetti. L’attuale crisi del coronavirus dovrebbe servire per dei cambiamenti positivi come, ad esempio, per una giusta distribuzione della ricchezza e per valorizzare di più il lavoro dei ceti deboli».
Cos’è per te la vita?
«Per me la vita è la dinamica del dare e avere, è affrontare la vita con determinazione e in modo positivo e la vita ci ricambierà con cose positive.
Però devo dire che, purtroppo, la nostra società con le sue istituzioni non ci aiuta molto a migliorare e a vivere felici. Spesso la scuola sottolinea i nostri deficit, non i progressi che abbiamo fatto, ci vuole molta tenacia, flessibilità e spirito creativo per trovare la strada giusta, la strada che ci soddisfa. Ma si può fare.
La mia vita è stata un viaggio in ottovolante. I primi anni del dopoguerra sono stati molto difficili, poi c’è stato un momento piacevole con la scuola di design a Monaco, in seguito è arrivata la malattia e, infine, la vita è continuata senza grandi sbalzi. Oggi, a 76 anni, vivo in una bellissima zona vicino al lago e mi ritengo realizzata e soddisfatta della mia vita».
E dulcis in fundo, Heide, qual è la musica che preferisci?
«La musica che preferisco è quella di Mozart. Tutto Mozart».
1 Il profugo: In tedesco si dice “der Vertriebene”. Definizione dal vocabolario tedesco Duden: “Profugo: Persona che è costretta a lasciare un luogo”.