L’abbiamo conosciuta tra le pagine di Reddit e l’abbiamo subito contattata. Giulia Rubiu, classe 1994, nel sito internet di social news per eccellenza raccontava in breve la sua storia di ragazza con il diabete sin dall’infanzia.
La sua disponibilità e la sua voglia di condividere ci hanno talmente coinvolti che Giulia è già diventata membro della nostra redazione, ancor prima che pubblicassimo questa intervista a lei. Qui ci racconta la scoperta del diabete, ai tempi delle scuole elementari, i primi esperimenti, come ha imparato ad automedicarsi e, poi, la sua “vita normale”, equilibratamente coordinata insieme alle sue pratiche quotidiane. Tra pochi giorni, a marzo, sarà “l’anniversario” della sua diagnosi e così ecco la sua storia per celebrare con lei questo avvenimento e ricordarci, sempre, l’importanza della prevenzione.
Chi è Giulia? Autopresentati
«Ho 26 anni e sono una ragazza assolutamente comune! So che come inizio potrebbe non essere entusiasmante e potrebbe certamente non invogliare alla lettura, ma non c’è veramente molto da dire: sono laureata in Lettere moderne e sto proseguendo gli studi. Mi piacerebbe lavorare nel mondo editoriale, come giornalista o correttrice di bozze.
Amo il cinema, adoro la lettura (e, ancora di più, la scrittura!), ascolto ogni genere di musica e sono una persona estremamente curiosa.
È raro che io mi annoî o che non provi piacere a scoprire qualcosa che non conosco. Spero di essere una brava ascoltatrice per chi mi sta intorno, (di sicuro sono una chiacchierona!). Sono molto oggettiva, molto testarda e… Pure molto prolissa, come si può vedere!
Passando ai tasti dolenti, per dare un quadro completo della situazione, direi che tra i miei difetti peggiori c’è l’essere, da quando ho memoria, parecchio ansiosa. Vado un po’ nel pallone se qualcosa non va secondo i piani, e questo, mi rendo conto, non è affatto un bene.
Tendo a passare, ciclicamente, dei periodi un po’ solitarî in cui mi chiudo in me stessa, e non sempre è facile tirarmi fuori dal guscio.
Ho un pessimo senso dell’orientamento; non so disegnare le piante geografiche (ebbene, nemmeno quella della mia stanza!)… La verità è che non so disegnare nulla, ora che ci penso. Sono stonata come una campana (ma non mi perdo un karaoke, per la sfortuna degli astanti), sono piuttosto scoordinata e di certo non molto aggraziata… Ma sono molto autoironica.
Rido tantissimo di me, e penso che questo sia il mio vero punto di forza».
Solitamente del diabete se ne sente parlare quando si sviluppa, ma è meno comune nascerci. Come ti è stato diagnosticato?
«Avevo da poco compiuto nove anni, quando mia mamma iniziò ad accorgersi che era cambiata qualche abitudine nella mia routine: da che riportavo a casa, da scuola, la mia bottiglietta di acqua intonsa, ero passata a berne due intere (e talvolta a lamentarmi di continuare a sentire la sete prima della fine delle lezioni). Anche durante la giornata, bevevo molto più spesso e facevo tantissima pipì.
Dopo qualche settimana passata in questo modo, mia mamma decise di riportare i miei sintomi alla pediatra. Non c’erano altri segni tipici del diabete mellito, come la perdita di peso o la spossatezza, per cui inizialmente la dottoressa pensò che la mia sete eccessiva fosse solo dovuta al cambio di stagione, visto che stava arrivando la primavera.
Tuttavia, per tranquillizzare mamma, mi fece fare le analisi del sangue, dai cui risultati si scoprì una glicemia piuttosto alta. Si proseguì quindi alla diagnosi e al ricovero in ospedale».
Su Reddit scrivi di non ricordare come fosse la vita prima del diabete, secondo te è un vantaggio abituarsi progressivamente sin da piccoli?
«Nel mio caso, assolutamente sì. Ho sempre pensato che la mia fortuna sia stata proprio quella di non avere avuto il tempo di abituarmi a una vita senza il diabete. Mi sono trovata, molto più tardi nel tempo, a dover cambiare radicalmente abitudini alimentari (per motivi sconnessi al diabete): per quanto alla fine, per spirito di adattamento, io lo abbia fatto, mi rendo conto che inizialmente ho avvertito la mancanza del “prima”, cosa che, a nove anni, non è successa.
Complice, allora, sicuramente, anche il fatto che l’alimentazione sana e bilanciata era già quella quotidiana nella mia casa, le mie uniche rinunce sono state estremamente limitate a casi specifici. Fondamentalmente ero la bambina che ai compleanni dei compagni di classe non poteva mangiare.
Per quanto, ovviamente, avrei preferito anche io gustarmi una bella fetta di torta come tutti gli altri, o sapere che non dovevo per forza scegliere tra due rustici oppure mezza pizzetta per merenda, ma che avrei potuto mangiare tutto senza misure, non ho mai vissuto questa piccola diversità, se vogliamo definirla tale, male. Era così, e andava bene così. Non ci pensavo troppo, ecco».
Sempre su Reddit scrivi che alcuni bambini, quando eri piccola, si vergognavano a causa dei genitori. C’era uno stigma associato al diabete?
«Anche in questo caso, io ho avuto la fortuna di non vivere mai nessuna forma di discriminazione, neppure lieve. Ricordo che alle visite di controllo diabetologiche, essendo un ospedale pediatrico quello dove andavo, i pazienti erano tutti più o meno miei coetanei.
Molti di loro erano stati educati dai genitori a nascondere il diabete, forse per paura di eventuali prese in giro o per evitare il rischio di isolamento.
Nella mia vita, se togliamo appunto la breve parentesi delle festicciole di compleanno, in cui effettivamente si poteva percepire il mio essere “diversa”, io non ero minimamente identificata col diabete.
Le persone intorno a me, certo, lo sapevano, in quanto i miei genitori avevano avvertito i maestri (che in caso di emergenza erano istruiti a dovere) e così come loro anche i miei compagni di classe erano a conoscenza della mia situazione.
Cosa cambiava questo all’atto pratico rispetto a due settimane prima della diagnosi? Ben poco: a metà mattina misuravo la glicemia e avevo il permesso di portare il cellulare in classe – che ovviamente, per decisione di mia mamma, giaceva intoccato sulla cattedra fino alla fine delle lezioni – per poter, solo ed esclusivamente al momento del controllo glicemico, prenderlo e mandarle un sms con il risultato.
Ovviamente, in caso di emergenza, potevo mangiare fuori orario… Insomma, alla fine, volendo vedere il lato positivo, ero pure avvantaggiata rispetto agli altri bambini! Non è da tutti avere il cellulare a nove anni e la libertà di dire “maestra, io devo bere il succo” senza sentirsi rispondere “aspetta che arrivi la ricreazione!“, no?».
Com’è la tua routine di cura? Come hai imparato ad automedicarti e che presidi utilizzi?
«Controllo la glicemia dalle quattro volte al giorno in su, in base alle esigenze. I quattro controlli obbligatori sono: appena sveglia, prima del pranzo, prima della cena e prima di andare a dormire.
Se mangio qualcosa di particolare o se sto poco bene, o se esistono fattori per cui la mia glicemia potrebbe essere di parecchio diversa dalle aspettative, intensifico i controlli misurandola anche a metà mattina e metà pomeriggio.
A queste misurazioni si aggiungono poi quelle “in caso di emergenza“: se sento che i valori stanno scendendo o salendo mi controllo in modo da intervenire repentinamente.
Faccio l’insulina prima dei pasti, e, in caso di iperglicemia, per correggere il livello di zuccheri nel sangue, dal 2008 a oggi, impostando un bolo su un microinfusore, ovvero un macchinario delle dimensioni di un cellulare che, con un agocannula (che cambio ogni tre giorni), mi somministra sottopelle l’ormone che mi serve.
Prima del 2008, invece, iniettavo l’insulina con delle penne, facendo quattro punture al giorno: una prima di ogni pasto principale e una prima di andare a dormire.
In aggiunta a questa routine, ogni volta che ho una visita diabetologica, le due settimane precedenti alla stessa indosso un ulteriore sensore che monitora la glicemia h24.
Ho imparato a misurare la glicemia e a farmi l’insulina da sola sin dal ricovero, al momento della diagnosi. Il calcolo delle unità da fare, in base al pasto (e quindi ai carboidrati) e alla glicemia di partenza, allora, venne spiegato a mia mamma, per cui era lei a impostare le dosi prima dei pasti ma sin da subito sia lei che i medici furono fermi nel darmi tutti gli strumenti per essere, per quanto è concesso a una bambina di quell’età, il più autonoma possibile, in modo da dover dipendere il meno possibile dai miei genitori una volta tornata a casa».
Se li hai dovuti cambiare, è stato difficile adattarsi al cambiamento?
«Come ho detto, dopo i primi anni in cui ho utilizzato le penne, ho deciso di passare al microinfusore. Sono sincera: non volevo assolutamente cambiare le mie abitudini. A convincermi furono le infermiere dell’ospedale, che durante ogni visita di controllo, dalla fine del 2006 in poi, continuavano a chiedermi come mai non volessi passare a quello che, a detta loro, era uno strumento decisamente più comodo, e a spingere i miei genitori a provare a farmi cambiare idea.
Alla fine decisi di provare, ma fui chiara: “Se entro un mese non mi trovo bene, torno qui e torniamo alle vecchie maniere!“.
Il viaggio di ritorno in auto, una volta “montato” il microinfusore, fu traumatico. Continuavo a controllare che la cinta di sicurezza non premesse per sbaglio qualche tasto, facendo partire una dose di insulina (assai pericolosa se fatta in assenza di bisogno), che l’agocannula fosse sempre ben attaccata alla mia pancia; che non ci fossero bolle d’aria nella fialetta di insulina… Dopo tre giorni ero lì a chiedermi come mai le infermiere non mi avessero costretta un anno prima a provare questa soluzione. Non tornerei mai indietro.
Ora faccio una vita veramente normale, in cui non devo sapere parecchio prima cosa sto per mangiare, perché, al bisogno, posso aumentare la mia dose di insulina durante il pasto e ho addirittura la libertà (sempre, ovviamente, ricordando che sono diabetica) di mangiare senza seguire così tanto rigidamente le regole e gli schemi che invece avrei avuto continuando a usare le penne».
Ti sei mai sentita limitata in alcune attività a causa del diabete? Che impatto psicologico ha sulla tua vita?
«Se dicessi di no, mi rendo conto, sarebbe falso. Ma si tratta di limiti talmente piccoli da risultare inesistenti. Se mi si chiede cosa non posso fare, la risposta è che non esistono attività che io non possa fare a causa del diabete (se escludiamo qualche prova fisica estrema per cui dover stare a digiuno e/o senza insulina per diversi giorni).
Se invece parliamo di “limiti quotidiani” questi sussistono praticamente solo in caso di emergenze: se mi scende la glicemia, devo fermarmi e prendere degli zuccheri, qualsiasi cosa stia facendo. Quindi, ecco, magari ci metto un po’ di più a finire di studiare, o sono costretta a saltare un esercizio in palestra, o perdo qualche minuto mentre sto facendo la spesa a causa di questa “pausa non programmata“.
Tolto anche questo limite, il solo fastidio che mi rimane è puramente estetico. Da un lato ho l’obbligo di uscire con la mia scorta di presidî e di succhi di frutta, per cui raramente mi si può vedere con una pochette: un piccolo dispiacere per via del quale però mi sentirei in colpa solo a pensare di lamentarmi!
Dall’altro lato la consapevolezza che la posizione del microinfusore va studiata in base all’abbigliamento, perché magari con un dato paio di calze è un po’ scomodo, con una certa maglietta sforma un po’ la figura, attaccato a un determinato paio di leggins fa un piccolo difetto su un lato a causa del suo peso… ma anche in questo caso mi sembrerebbe assurdo lamentarmi della questione».
Cosa pensi dei sostenitori del “seguire una specifica dieta al posto dei farmaci”?
«Non c’è molto da pensare, e sarò brutale ma oggettiva. Quanto un corpo può resistere senza avere effetti disastrosi sulla salute (e per disastrosi intendo veramente tali, non certo “un lieve calo di vista” o simili) privato dell’insulina? Ben poco».
Segui la ricerca sulle cause della malattia che sono ancora nebulose?
«Sì, ma riconosco che non mi ci fossilizzo troppo. Come ho detto prima, sono una persona molto ansiosa, e lo ero anche da molto piccola. Una delle tante scuole di pensiero sull’origine del diabete afferma che esso possa essere una risposta dell’organismo a un eccessivo stress (e per quanto io non avessi motivi concreti che potessero scatenare questo stress, evidentemente già gestivo male le piccole situazioni, come la paura di fallire un compito in classe o quella di litigare con un amichetto e perderlo per sempre, per fare due esempi banali).
Un’altra scuola di pensiero afferma che il diabete possa venire in seguito a un virus, e io, pochi mesi prima della diagnosi avevo avuto la varicella… Personalmente, per quanto, riconosco, mi piacerebbe avere la certezza di cosa abbia causato la mia malattia, forse proprio perché non l’ho vissuta come un trauma, non mi interessa così tanto avere una risposta certa.
Sarebbe come se mi chiedessi costantemente come mai a cinque anni mi si è abbassata la vista e ho dovuto iniziare a portare gli occhiali, o come mai ho un paio di vertigini ai capelli… è così e basta: tengo quello che devo sotto controllo; se scoprissi le cause di tutte queste cose mi farebbe piacere, ma non è così essenziale».
È importante secondo te fare divulgazione in prima persona quando si convive con una malattia cronica?
«Decisamente sì. Essere diabetica non mi rappresenta, ma è parte di me. Non mi presento raccontando di avere il diabete perché voglio evitare ogni forma di pietismo. Le persone che mi stanno intorno (eccezion fatta per quelle a cui sono costretta a dare delle spiegazioni, come l’oculista, a cui dico di essere diabetica appena entro a farmi visitare, in modo che controlli alcuni valori; o ancora i professori quando andavo a scuola, in modo che sapessero che in caso di emergenza mi era permesso mangiare durante una lezione o un compito in classe – e ricordo l’imbarazzo di quel momento in cui ero al centro dell’attenzione -) di solito scoprono che sono diabetica quando mi vedono misurare la glicemia per la prima volta o quando mi trovo a indossare qualche vestito che mette in evidenza il microinfusore.
Ciononostante ci sono due giorni (il giorno in cui “festeggio” l’anniversario dalla diagnosi, a marzo, e il giorno in cui si celebra la giornata mondiale del diabete, a novembre) in cui pubblico su tutti i social un post in cui invito alla prevenzione o mi permetto di dare dei piccoli suggerimenti su come convivere (anche per periodi molto brevi, come una serata tra conoscenti!) con una persona diabetica.
I miei post tendono a essere molto scherzosi e a concludersi con messaggi del tono di “ricordatevi di donare alle associazioni per finanziare la ricerca… o direttamente a me per finanziare il mio prossimo cappotto!“, ma ci tengo che passi un importante messaggio: prevenire è fondamentale. Non vi curerà, ma vi permetterà di conoscere il vostro stato di salute il prima possibile e di agire di conseguenza».
Cosa vorresti ti chiedessero ma non ti chiedono mai?
«Non c’è qualcosa, in realtà, o almeno non mi viene in mente. Ma forse è colpa del fatto che sono talmente chiacchierona che elimino il problema alla radice, dando le risposte prima che mi vengano fatte le domande!».
La tua canzone preferita?
«Sceglierne solo una è stata un’impresa. Dico “Manifesto” di Daniele Silvestri, perché è tra tutte le canzoni che conosco quella da cui mi sento maggiormente identificata. Non me ne vogliano tutte le canzoni sorelle, figlie dello stesso cantautore, né le cugine sparse nel mondo che mi accompagnano da anni… ma per un pelo non mi rispecchiano così tanto!».