Da gennaio, il suo nome all’anagrafe è Gianmarco Negri. Il 39enne di Tromello (Pavia), è un ragazzo trans che nel 2014, dopo una vita a mettere da parte se stesso per gli altri, ha deciso di prendere in mano le sorti del suo cammino ed effettuare la transizione FtM, (Female to Male) da donna a uomo.
Ora è un affermato avvocato civilista e penalista, specializzato in particolare in tematiche Lgbt e titolare dello studio legale che ha avviato in provincia di Pavia, operativo su tutto il territorio nazionale. Attivista per i diritti Lgbt, ci ha raccontato il suo percorso, a partire dai primi anni di vita, lasciandoci anche importanti informazioni riguardo la legislazione italiana in merito alla transessualità.
«Sin dalla nascita – racconta Gianmarco – mi sono reso conto che qualcosa non andava. Chiedevo spesso a mia madre quando mi sarebbe cresciuto il pene, per me era normale che ci dovesse essere. Ovviamente tutti mi prendevano un po’ sul ridere. Pensavano fossero fasi passeggere di un bambino che, prima o poi, sarebbero passate.
Invece, nel tempo, nulla è cambiato. L’unico cambiamento è stato che io, a un certo punto, ho smesso di fare questa domanda perché mi sono reso conto che allarmavo tutti. Certo, anche i vestiti erano un problema: mia madre mi voleva vestire in un modo, io mi volevo vestire nell’altro.
Quando è morto mio padre avevo 8 anni. In seguito, mia madre ha iniziato una relazione con un’altra persona: quando ero con lui ero libero di presentarmi come suo figlio. Poi arrivava mia madre e smontava tutto il castello.
Finché si è bambini, comunque, si è tutti uguali. Poi iniziano le divisioni, i ragazzi iniziano le prime esperienze di sviluppo, così come le ragazze. Io mi sviluppavo in un senso che odiavo e, in compenso, sentivo di appartenerne a un altro che non si manifestava.
L’arrivo del ciclo mestruale è stato un dramma. Avrò avuto circa 12 anni e, per me, è stata la sentenza finale. Ho pensato:
“Non solo non mi cresce il pene, non solo non sono un maschio ma addirittura sto diventando una femmina”.
Vedevo il seno che cresceva e mi sentivo in una gabbia. Così, per circa 7 anni, dai 14 ai 21, ho vissuto nell’anoressia. Ho smesso di mangiare per rifiuto alla vita, al mio corpo. Probabilmente rifiutavo di crescere. D’altronde quella crescita andava in una direzione che non mi apparteneva e mi faceva molto male. Il dolore di non vedermi la barba, immaginando di averla, era una questione. Il dolore di vedere il seno che dovevo per forza mostrare al mondo, invece, era devastante».
Fino a prima del primo ciclo mestruale continuavi a sperare di poterti sviluppare in un ragazzo?
«Beh, non pensavo più che potesse crescermi il pene. Però, per fare un esempio, è stato come quando una società va male: fino a quando non prendi in mano il bilancio, non hai coscienza del fallimento. In ogni caso, ero un maschiaccio e la vita me la vivevo lo stesso. A quell’epoca nessuno mi diceva come mi dovevo vestire, mi vestivo in modo maschile e basta.
Tra l’altro, ero sempre in campagna dal compagno di mia mamma, quindi vivevo una vita molto ‘sportiva’. Da adolescente passavo persino da ragazzino anche grazie al mio corpo: non ho mai avuto fattezze particolarmente femminili, non ho mai avuto i fianchi larghi ma spalle molto sviluppate. Dopo lo sviluppo, invece, non sono più riuscito a sopportare la mia condizione».
Qual è stata la molla per rinascere e sollevarti dall’anoressia?
«A 20 anni ho scoperto che si poteva cambiare sesso anche da donna a uomo, ho scoperto l’esistenza della transizione FtM. In tutti quegli anni, infatti, non conoscevo il fenomeno della transessualità al maschile. Nel mio paese c’era una donna trans ma non un uomo trans, in tv non ne parlavano e non avevo amici che avevano fatto il percorso. Stiamo parlando di più di 20 anni fa.
Nel frattempo mi sono innamorato perdutamente di una ragazza che ha lasciato il suo fidanzato per stare con me. Con lei vivevo in modo maschile, non mi sentivo la sua ragazza ma il suo ragazzo. Verso i 21 anni, mia madre ha scoperto un quaderno nel quale annotavo messaggi con lei, così mi ha accusato di essere lesbica. Le ho cercato di spiegare: non ero lesbica, non mi sentivo una donna.
Ho detto a mia mamma che mi ero da sempre sentito un uomo e che sapevo che si poteva cambiare sesso, quindi le ho chiesto aiuto. Lei, all’epoca, pensava che il mio bene fosse non transizionare. Non mi diede un grande appoggio, cercò invece di dissuadermi in tutti i modi. Però, per amore di questa ragazza e per la consapevolezza della possibilità di poter cambiare sesso, sono uscito dalla problematica dei disturbi alimentari.
Ho rivissuto i successivi due anni nuovamente da ragazzo. Mi presentavo al mondo come un maschio, mi fasciavo il seno che, essendo molto magro, era anch’esso ridotto. All’epoca pesavo 48 chili e sono alto un metro e 71 circa».
In quel caso, quindi, possiamo dire che eri ‘trav’, quindi travestito e non trans, differenza che ci hanno raccontato lo scorso anno Lory e Scarlett (entrambe MtF)?
«Non credo, non mi travestivo. Anche perché è frequente vedere una donna con un abito unisex. Quanti uomini, invece, vedi in tacchi a spillo? Penso che l’abbigliamento maschile si presti a essere unisex piuttosto che quello femminile. Pensiamo alle inviate delle Iene: sono vestite in giacca e cravatta ma nessuno le vede come travestite. Così come per l’orientamento sessuale: se vedi due uomini mano nella mano pensi subito che siano una coppia gay, due donne a braccetto invece vengono viste solo come due amiche.
Insomma, oggettivamente è vero che mi travestivo. Ma credo di non essere mai stato percepito come tale né socialmente che culturalmente. Non siamo microcosmi autonomi, viviamo in corrispondenza anche del mondo esterno. Basti dire che abbiamo un’identità di genere che si rafforza proprio nel momento in cui la terapia ormonale realizza il nostro intimo sentire e consente di portare all’esterno l‘identità da noi percepita.
Nel momento in cui gli altri iniziano a rapportarsi a noi nel genere che sentiamo e, nel momento in cui veniamo “visti” anche dal mondo esterno così come ci percepiamo, inizia una fase di grande benessere. In qualche modo siamo tutti connessi».
Insomma, tornando al tuo percorso: l’amore per una donna e la conoscenza della possibilità di transizione di sesso ti hanno fatto risalire, verso i 20anni. Come hai proseguito poi il tuo percorso?
«Poi ho avuto un crollo tremendo. A 23 anni la mia famiglia non era molto dell’idea che io cambiassi sesso e la mia realtà non mi dava dei modelli di riferimento ai quali potermi ispirare. Il mondo, 15 anni fa, era molto meno preparato di adesso. Ogni volta che qualcuno mi scambiava per maschio e poi scopriva che ero femmina, divenivo oggetto di risatine e occhiate insistenti e accusatorie.
Nel mio intimo sono sempre stato molto timido. Ho sofferto veramente tanto per il fatto che il mondo esterno non mi percepisse come maschio. Fino a quando hai 20 anni, è facile essere scambiato per un ragazzino sbarbato. Quando vai avanti, però, diventa sempre più difficile presentarsi come maschio.
Mi fasciavo il seno e, con indosso la camicia, andava tutto bene. Alla sera, però, dovevo togliermi quelle bende e ne soffrivo. Non trovavo la mia felicità. Nel frattempo avevo incontrato una persona che pensavo avesse il mio stesso disagio per poi rendermi conto che si trattava di una questione differente. Non era un ftm, non era una donna che si sentiva un uomo, non era un uomo trans. Era semplicemente una donna lesbica, una cosiddetta ‘butch’, ovvero una lesbica un po’ mascolina. Era più grande di me e mi aveva cercato di far ragionare sull’opportunità di fare un passo indietro prima di fare un passo avanti. Così ci ho provato: mi sono fatto crescere un po’ i capelli, ho fatto le meches e ho tolto le bende.
La vita, in quel momento, mi si è alleggerita molto, almeno all’esterno. Mia madre era contenta, mia sorella pure e il mondo pensava che finalmente ‘Maria’ (questo il mio nome di battesimo) sembrava stare meglio. Avevo anche iniziato a prendere un po’ di peso quindi i problemi alimentari non emergevano più. Insomma, dall’esterno vedevano tutto questo come indice di benessere. Associato a una femminilizzazione, l’analisi che il mondo poteva fare su di me era che Maria stava bene e aveva superato i suoi problemi.
Insomma, la pressione sociale verso di me si è alleggerita e ho tirato così fino a 35 anni. L’unica mia caratteristica, alla quale non ho mai rinunciato, era il mio orientamento sessuale. L’ho sempre vissuto come eterosessuale: mi sentivo un uomo e mi piacevano le donne. Agli occhi del mondo, invece, ero omosessuale. Nel momento in cui avevo smesso di rivendicare il mio genere, per amore della serenità degli altri – quindi accettavo di esser individuato come femmina – mi presentavo come lesbica e dicevo di avere la fidanzata.
A 27 anni ho iniziato a convivere con una donna e comprato casa con lei. La mia famiglia aveva accettato e sembravano tutti sereni. Nel frattempo ho completato gli studi di giurisprudenza, iniziato il praticantato e sono diventato avvocato. Come se non bastasse, ho aperto il mio studio. Non vengo da una famiglia di giuristi, mia madre fa la parrucchiera, per cui sono proprio partito da zero in questo ambito. Mi sono aperto il mio studio legale, è partito bene e sono diventato un bravo avvocato, tutto andava bene. Studio, lavoro e ogni aspetto della vita andavano per il verso giusto.
Ma io mi sentivo profondamente infelice. Così, a 35 anni, ho detto basta. Ho pensato che, fino a quel momento, avevo vissuto per gli altri. Finalmente volevo vivere un po’ per me. Anche con la mia compagna, nella quotidianità, la vita insieme a me non era semplice: mi alzavo la mattina e non c’era una maglietta che mi piacesse, o perché si vedeva il seno, o perché essendo bianca era troppo chiara.
Dovendo lavorare in Tribunale dovevo sempre cercare un abbigliamento elegante ed era quell’eleganza che non potevo certo permettermi di indossare. Con la gonna e i tacchi non potevo vedermi. Vero che mi ero femminilizzato nel taglio di capelli, vero che non compravo più le camice abbottonate da uomo ma non per questo andavo in giro vestito propriamente da donna. Insomma, avevo cercato un po’ il mio stile: all’udienza andavo in completo con giacca e pantalone semplice, con un completo a vita bassa e, al massimo, un paio di mocassini. La camicia era abbottonata da donna ma magari aveva i gemelli.
Insomma, cercavo dei compromessi. Dentro di me, però, il disagio era lo stesso di quando avevo 4, 5, 6, 10, 20, 25 anni. Quindi, a un certo punto, ho detto basta. Inizialmente ho preso contatti con un consultorio a Vigevano. Tra l’altro, nonostante il mio malessere, da oltre dieci anni non dicevo più a nessuno che mi sentivo un uomo. La mia compagna, ogni tanto, si rivolgeva a me al maschile e mi viveva da uomo ma nulla di più. Non capivo neppure più se questo malessere derivasse solo dal mio sentirmi uomo o se ci fosse anche altro.
Arrivato dalla psicoterapeuta, però, la prima cosa che ho detto, dopo 12 anni di silenzio, è stata:
“Non sono una donna, sono un uomo e non ce la faccio più”.
Mentre lo dicevo, ho pensato: “Mamma mia, l’ho detto davvero?”. È stata come la pentola a pressione quando devi spegnere il fuoco e alzare la valvola per sfiatarla. È stato un urlo disperato. Da lì, ho iniziato un percorso con una psicoterapeuta sessuologa. Mi disse subito: “Bene, lei è un uomo trans, quindi?”. E io, incredulo: “Quindi lei mi vede?”. “Certo che la vedo”. Insomma, ho capito che non ero invisibile.
Ho fatto con lei un percorso di un annetto per risolvere altre questioni, non ultima come comunicare a mia madre la mia decisione. Fino a quel momento mi ero messo completamente da parte per non disturbare, per non ferire, per non far star male. Quindi, con la psicoterapeuta, ho lavorato su questo aspetto. Lei non aveva dubbi sul fatto che io potessi avere benessere dalla transizione e iniziarla subito. Era preoccupata, piuttosto, per come avrei potuto affrontarla con tutti quegli scrupoli e quelle delicatezze nei confronti delle persone alle quali voglio bene.
Dopo un anno, dal momento in cui mi sono rinforzato rispetto a tutte le questioni affettive, ho iniziato il percorso. Ho contattato il centro Niguarda che sapevo essere il centro più rigoroso per la concessione del nulla osta e l’avvio della terapia ormonale. La dottoressa che mi ha rilasciato il nulla osta mi ha detto di non ricordare quante altre volte, nella sua lunga carriera, lo avesse rilasciato immediatamente come decise di fare nel mio caso.
Di solito fanno fare circa 6 mesi di psicoterapia prima di rilasciarlo, per questo non mi ero preparato il discorso da affrontare con mia mamma. Lei, appena mi ha visto, mi ha chiesto cosa avessi, ha capito subito che avevo bisogno di dirle qualcosa. “Non sto bene, potrei essere a metà della mia vita e l’ho vissuta per voi”. Così le ho spiegato:
“Non mi sono mai sentito tua figlia, voglio diventare ciò che mi sento di essere, cioè tuo figlio”.
Ammetto che sono anche scoppiato a piangere, era difficile e avevo paura, non sapevo come l’avrebbe presa. Mia madre è cardiopatica, ha tanti problemi di salute, aveva già avuto un’emorragia cerebrale, quindi temevo potesse accusare male il colpo proprio dal punto di vista della sua salute. Invece abbiamo chiacchierato tre ore, mi ha fatto mille domande ed era molto preoccupata per la mia salute.
Mi ha chiesto quali interventi avrei fatto, se fossi stato nel centro giusto, se fossi stato sicuro di non rischiare la morte e via dicendo. Mi ha fatto pure una domanda tenerissima, evidenziandomi anche ‘l’ignoranza’ che c’è verso questo tema:
“Una compagna ce l’hai, che bisogno hai di diventare un uomo?”.
Quindi le ho spiegato che non volevo diventare un uomo per stare con una donna, anzi sapevo che avrei potuto perdere la donna che amavo proprio a causa della mia transizione.
Ho messo a rischio tutto, mia madre, la mia donna, il mio lavoro. Non sapevo in che misura le persone avrebbero capito oppure avessero scelto di essere rappresentate da un altro avvocato. Non potevo saperlo. Ero veramente spaventato ma anche al punto del non ritorno. Ero pronto a buttare per aria tutti gli anni di università e il praticantato pur di essere me stesso.
Così ho iniziato la mia transizione di genere. Il 10 luglio del 2014 ho fatto la prima puntura di testosterone. Da lì, poi, è iniziato tutto il cambiamento. C’è stato un momento in cui ho dovuto spiegare la transizione ai clienti. Agli amici non è suonata molto strana la questione, qualcuno mi ha detto di esserselo aspettato. Ho vissuto in questo paesino meraviglioso, Tromello, dove mi hanno sempre accettato sia da ‘ragazzina maschiaccio’, sia come lesbica visto che ho vissuto lì con la mia compagna.
Mentre la transizione dava i primi effetti visivi, emergeva il mio benessere agli occhi degli altri. Prima, invece, molti percepivano un’ombra sul mio viso. Sono stato smentito in tutte le mie paure.
“Non lo faccio perché mia madre, mia nipote, mia sorella, il paese… chissà come soffriranno”, pensavo.
Invece ho scoperto che le persone a me vicine soffiavano proprio perché mi vedevano insoddisfatto, triste, nervoso, infelice, depresso. Sono sempre stato un vulcano di allegria però, chi aveva la sensibilità di vedere oltre, sentiva che qualcosa non andava. Invece, nel far felice me stesso, ho fatto felici tutti. Quando sei felice vai in giro con il sorriso e lo trasmetti: chi ti vuole bene e vede quel sorriso ne gode.
Con il lavoro, problemi zero. Da chi mi ha detto di non avermi scelto perché uomo o donna “ma perché è un bravo avvocato”, a chi si è emozionato. Ho cercato di trasmettere il messaggio con le più semplici e tranquillizzanti parole del mondo. I clienti venivano da me perché avevano loro dei problemi, non per ascoltare i miei e certo non dovevo fare passare la mia transizione come un problema, non dovevo spaventarli e appesantirli.
Quando iniziava a crescermi la barba, la tenevo apposta per approfittarne e trovare un aggancio per parlare con il cliente: “Si sieda un minuto, le rubo qualche secondo perché qui stiamo facendo qualche cambiamento”. Così vedevo subito la reazione: se capivo che voleva saperne di più, approfondivo. Se vedevo che non era interessato a sapere altro, terminavo il discorso. Se la reazione era emotiva, invece, prendevo ancora più tempo per spiegare bene la questione.
Mi è capitato di avere reazioni meravigliose. Da chi si è commosso a chi mi ha ringraziato:
“Non conoscevo questo aspetto e lei non era tenuto a spiegarmelo. La ringrazio perché mi ha arricchito, mi ha dato un pezzo di lei prezioso”.
Non ho perso un cliente. Per me era diventato anche un piacere dirlo. Alcuni miei clienti hanno 70 anni ma anche con loro è andata bene.
Con alcuni anziani ho avuto meno problemi che con altri, in generale. Anche nel mio paesino, alcuni mi dicevano: “Ti se cuntent?” (sei contento? Ndr.). “Basta, se ti se cuntent, sun cuntent anca mi. Ma ta ciami?”. (Se sei contento, son contento anche io. Come ti chiami? Ndr.).
Anche con i bambini non ho avuto problemi. Ho due nipoti di 10 e 12 anni, all’epoca ne avevano 8 e 10. Mia sorella è stata estremamente intelligente nel gestire l’informazione da comunicare. Si è agganciata al fatto che il maschietto, fin dalla nascita – nonostante io avessi capelli lunghi e meches – mi abbia sempre chiamato zio.
Lui stesso, verso i 4 anni, mi volle parlare di persona per chiedermi se mi sentissi maschio o femmina. Così, ho detto a mia sorella che l’unico della famiglia che aveva capito bene la questione era lui. Insomma, mia sorella si è agganciata alla sensibilità del più piccolo e ha raccontato tutto:
“La zia Maria non si è mai sentita una femmina, si è sempre sentita un maschio e questo è così importante per lei che ha deciso di fare un percorso che la porterà a essere felice e stare bene”.
Mia sorella non voleva passasse un messaggio di onnipotenza, non voleva che i bambini pensassero che si può cambiare sesso liberamente. Voleva far comprendere che, quando qualcosa fa star male, è giusto cercare di fare di tutto per stare bene. Ed è questa la verità. Non è un capriccio, né una scelta. Certo, scegli di cambiare sesso ma perché vuoi essere felice. La sfumatura è davvero sottile ma profonda. Cosa mi muove per andare a un consultorio, al Niguarda, a prendere testosterone? Il motore di tutto questo cos’è? È che voglio stare bene».
Qualcuno ha mai insinuato che la tua transizione di genere fosse un capriccio?
«L’unico evento è stato in mezzo a sconosciute incontrate ad Arcilesbica insieme ad altri transessuali. Al tavolo c’erano alcune ragazze che mi continuavano a chiamare Maria nonostante avessi spiegato tutto. Per loro non sarei stato mai un uomo: “Sei solo una lesbica che non si accetta” mi dicevano. È molto diffusa questa mentalità tra alcune lesbiche, pensano che noi ragazzi trans siamo delle lesbiche che non si accettano.
Siccome non accettano l’omosessualità – pensano – vogliono cambiare sesso per andare a letto con le donne. A dire il vero è una situazione lontanissima dalla realtà. Insomma, l’orientamento sessuale e l’identità di genere sono questioni assolutamente differenti. Non dimentichiamoci che ci sono ragazzi transessuali gay. Idem ragazze transessuali lesbiche. E, all’interno dello stesso orientamento sessuale, ognuno poi si vive sotto le coperte in modalità differente. Non puoi far di tutta l’erba un fascio.
Non cambi sesso perché sei in cerca di un partner o perché il genere dal quale sei attratto non ti consente di vivere pienamente la relazione sessuale perché sei omofobo. Tu sei tu, sei tu sotto la doccia, sei tu nel letto, con la tua compagna. Pensiamo al mio caso: dopo l’intervento al seno ho potuto abbracciare con gioia, finalmente, la mia compagna. Prima era molto problematico riuscire a farlo».
Qual è stata la prima sensazione che hai provato dopo l’operazione al seno?
«Poter sentire il corpo della persona sul mio, senza il disagio dato dal mio stesso corpo, è stato estremamente liberatorio. È stata una liberazione, mi veniva persino da piangere. Non mi immaginavo nemmeno io quanto potesse essere bello sentirsi toccare per come si è sempre sognato di essere. Prima, abbracciando la mia compagna, c’erano i miei seni di mezzo che non c’entravano nulla, mi facevano male e basta».
Quando hai fatto isterectomia e mastoplastica?
«Lo scorso anno, maggio 2016, dopo due anni circa di terapia ormonale».
Per quanto riguarda i cambiamenti burocratici, com’è andata? Hai cambiato nome all’anagrafe?
«Fino al 2015, la prassi era di avere due procedimenti in Tribunale. Nel primo chiedevi l’autorizzazione agli interventi, con il secondo la rettifica del nome dopo l’intervento. Ci si riferiva, tra l’altro, a interventi demolitivi degli organi genitali. Non mastoplastiche additive né riduttive. Non falloplastiche o vaginoplastiche ma isteroannesiectomia bilaterale per gli FtM (quindi rimozione di utero e ovaia) e orchiectomia (rimozione dei testicoli) per MtF. Questi sono stati i residui degli interventi che fino al 2015 venivano richiesti per accedere al cambio del nome.
Nel 2015 la Corte Costituzionale, anticipata dalla Cassazione, ha decretato che gli interventi non sono più obbligatori. Ora il Giudice, dopo un rigoroso accertamento riguardo serietà e definitività del procedimento di transizione (eventualmente anche tramite un consulente d’ufficio), non può negare la rettifica. Insomma, dal 2015 in poi gli interventi non sono più obbligatori per cambiare nome all’anagrafe. Grazie a questo importante principio, si è aperta la possibilità di avere altresì autorizzazioni congiunte, sia agli interventi che al cambio dell’identità anagrafica, evitando lungaggini e costi di due procedimenti distinti. In alcuni Tribunali sono stato il primo ad ottenere entrambe le autorizzazioni.
Il ragionamento giuridico sotteso alla richiesta congiunta, in alcuni Tribunali, ha dato risultati eccezionali. In altri Tribunali si è ancora legati alla vecchia tradizione quindi i due procedimenti vengono tenuti separati. Quando l’ho fatto io non era ancora stata pronunciata questa sentenza della Corte Costituzionale. Nel 2015 chiesi l’autorizzazione agli interventi chirurgici. Realizzato l’intervento di isterectomia, sono tornato in Tribunale e ho chiesto la rettifica anagrafica.
Non so ancora se farò gli interventi ricostruttivi. Purtroppo le tecniche chirurgiche italiane, al momento, non sono per niente all’altezza di un buon risultato dal mio punto di vista».
Gli interventi di transizione di genere sono a spese del singolo o lo Stato dà un sostegno?
«Ci sono due canali, privato o pubblico. La disforia di genere – così si chiama ancora – che va ad identificare quella scissione tra sesso anatomico e sesso percepito, è inserita ancora nel Manuale Diagnostico delle Malattie Mentali. È ancora contemplata nel manuale per via dello stress psicologico che la persona vive, legata alla condizione in cui vive. Non è la condizione in sé ad essere considerata malattia ma lo stress che ne deriva. Nel percorso di transizione è previsto che si debbano affrontare colloqui psichiatrici per escludere altre aree di disagio, oltre alla disforia, oppure che (se esistono) non provochino implicazioni.
Nel mio caso, per iniziare l’iter di transizione ho scelto di seguire la procedura con il pubblico. Andando dall’endocrinologo pagavo il mio ticket come una visita qualsiasi. Quanto ai farmaci ci sono regioni, come la Toscana, in cui la TOS (Terapia Ormonale Sostitutiva) è gratuita e altre, ad esempio la Lombardia, in cui invece si paga.
Per quanto riguarda gli interventi, idem. Poiché si tratta di interventi per la salute, autorizzati altresì dai Tribunali, all’esito di un lungo percorso, si può procedere tramite SSN. Il chirurgo, pur eliminando organi “sani” non sta commettendo un reato perché è autorizzato dal Tribunale: grazie alla sentenza è chiaro che si tratta di un intervento richiesto per la propria salute. Il mio utero e le mie ovaie, per intenderci, erano sane ma, per il mio benessere psicofisico, era necessario che venissero rimosse. È stato pertanto possibile rimuoverle senza una spesa economica grazie a questo principio. Io sono stato operato a Pavia e non ho speso un euro. Ho pagato solo i controlli successivi, come per qualsiasi altro intervento».
Per la falloplastica, invece, come funziona?
«Per quanto riguarda gli interventi ricostruttivi è possibile dimostrare – con sentenza e dichiarazioni dei medici – che la presenza degli organi genitali come naturalmente sviluppatisi, provoca uno stato di frustrazione, di disperazione, di depressione nel soggetto. La ricostruzione dell’anatomia corrispondente al genere percepito, pertanto, non è intervento estetico ma è necessario per la mia salute, quindi lo Stato lo rende accessibile gratuitamente. Il problema è che, ad oggi, i risultati non sono all’altezza delle aspettative di alcuni di noi, soprattutto in ambito FtM (Female to Male – da donna a uomo)
Allora cosa puoi fare? Puoi andare in Commissione regionale e richiedere la possibilità di un intervento all’Estero rimborsato dalla Asl all’80 per cento circa. Alcune strutture chiedono il rimborso diretto, per cui vengono pagate direttamente dalla Asl, in altre invece il rimborso è indiretto: fai l’intervento, paghi e poi presenti il pagamento alla Asl in Italia e vieni rimborsato. Si tratta di lunghe procedure».
Tornando al tuo caso, stai riflettendo se fare la falloplastica o meno?
«Per ora voglio fermarmi. Ho appena fatto lo scorso anno tutti gli altri interventi: mastectomia, isterectomia e mi hanno dato la carta d’identità a gennaio. Voglio prendermi il mio tempo e capire. Si tratta di un intervento dal quale non si torna più. Siccome è molto rischioso, anche dal punto di vista della possibilità di avere anche una sensibilità tattile etc., ci voglio pensare bene».
In cosa consiste la tua attività al centro Ala Onlus di Milano?
«In Ala sono responsabile dello sportello legale e, al sabato pomeriggio, partecipo come facilitatore al Gruppo Ama (Auto Mutuo Aiuto) insieme ad Antonia Monopoli. Ascolto gli altri e cerco di aiutarli anche attraverso il racconto della mia esperienza. È bello rendere ciò che qualcun altro ti ha dato in altri momenti della tua vita, mettersi a disposizione dei più giovani che hanno gli stessi dubbi e le stesse difficoltà che hai superato e cercare di dare loro qualche spunto. Spero almeno di essere capace di aiutarli. Io ci provo.
Quando coordino i gruppi, cerco sempre di tirare su di morale gli altri anche quando il discorso prende pieghe tristi. Cerco di vedere il lato positivo della situazione di cui si parla o di far capire che le cose non funzionano per stereotipi. A volte dei ragazzi mi dicono che vivono in un paese piccolo e per questo pensano di non poter fare la transizione. In quel caso spiego subito che io arrivo da un paesino di 3mila abitanti: dico loro di vederla come una risorsa, può essere che il paese piccolo sia più accogliente di una grande città. Parla e apriti».
La tua esperienza insegna che, se ci si apre agli altri, i riscontri possono essere ancora più positivi rispetto al previsto…
«Sì, non bisogna aver paura di parlare anche se si fa fatica. Si fa fatica ma resto dell’idea che, visto che la vita è la mia e la decisione è stata la mia, la fatica di spiegare – che è anche un po’ l’onore oltre che l’onere – deve essere la mia. Non posso pretendere che le persone abbiano una certa apertura. Se poi, dopo che ti ho spiegato, mi rifiuti, è un problema tuo. Prima però è qualcosa che mi riguarda, riguarda tutti e due ma deve partire da me. Poi, se dall’altra parte trovo chiusura, perfetto: resta nella tua chiusura e mi circondo di altre persone. Prima però mi devi spiegare perché non mi accetti e perché ti permetti di farlo: nessuno è il Padre eterno.
Tempo fa ho fatto un colloquio con un collega: inizialmente mi aveva detto che per lui, se una persona nasce maschio deve restare maschio, se nasce femmina deve restare femmina. Gli ho detto: “Certo, però se ci beviamo un caffè ti spiego meglio”. Sono partito dicendogli:
“Hai due figli, un maschio e una femmina. Hai la matematica certezza che si sentiranno nel genere al quale biologicamente appartengono?”.
Non ci aveva mai pensato. Ma tutti abbiamo un vicino di casa, un nipote, un amico, un cugino, un parente lontano: può succedere di confrontarsi con una persona trans e cosa fai? Così questo mio collega ha ammesso di non aver mai pensato a questo caso, non avendo mai parlato con una persona trans. Ha capito che non doveva dare per scontato cosa avrebbero fatto i suoi figli nella loro vita e ci avrebbe pensato.
Un altro caso significativo è quello che mi è accaduto con un anziano di Tromello. Vedevo che mi trattava un po’ male, distaccato. Da ragazza mi ha sempre considerato bene, a un certo punto ha fatto il volta bandiera, si è allontanato. Gli ho chiesto se ci potevamo vedere, sono andato nel suo ufficio e gli ho chiesto se avesse qualcosa che non andava, se gli avessi fatto qualcosa. Così ne ho approfittato per raccontargli di me, della mia transizione: si è commosso e, con i lacrimoni agli occhi, mi ha confessato di essere stato indispettito con me perché, nonostante il bel rapporto che avevamo, non gli avevo parlato.
Si era offeso per essere venuto a conoscenza della mia transizione dagli altri e non da me direttamente. Pensa che equivoco: avrei potuto discriminarlo a mia volta perché pensavo che mi discriminasse. Invece, ci teneva a me a tal punto di esserci rimasto male per il mio comportamento. Ci teneva che io facessi il gesto di andare da lui a parlargli. Mi ha dato una lezione importantissima. Da quel momento, quando vedo qualcuno che mi sembra più lontano del solito, cerco subito di parlare, chiedere, chiarire. Faccio lo stesso anche con i clienti».
Il tuo futuro: sogni e speranze?
«Quelle di tutti. Che le persone a cui sono affezionato stiano al mondo e stiano bene e che il lavoro funzioni perché è la mia vita. Spero che i clienti mi scelgano e di poter fare questo lavoro per il quale ho studiato tanto e che mi piace davvero tanto (lavoro anche sabato e domenica con piacere se non ho impegni perché dietro i fascicoli vedo le persone). Spero di trovare persone a fianco a me contente di avermi nella loro vita e infine mi auguro di avere buona salute, quella è scontata.
Per quanto riguarda l’amore, in questo momento, non so. Esco da una relazione che mi ha molto provato e sono in difficoltà sulla questione. E poi, per quanto riguarda il discorso transizione, c’è da dire che ho un corpo che non è più quello di prima. Vorrei un attimo avere il tempo di riflettere. Se si avvicina a me una donna ora pensa di avere davanti un uomo, mi dicono tutti che non mi si potrebbe proprio scambiare per una donna. Chiaro che, se entriamo in intimità, le dovrei spiegare tutto e sono ancora un po’ impacciato in questa fase, sono giovane nella mia transessualità. È tutto un ambito nuovo per me quindi voglio andarci piano.
Avevo una casa, una compagna che era la mia famiglia ed è andato tutto a rotoli. Ora ho un po’ di paura ad intraprendere un’altra relazione, attendo un attimo. E poi vorrei cogliere l’occasione di questo momento di solitudine per decidere se voglio o no, da solo, intraprendere la falloplastica o la metoidioplastica, senza influenze esterne».
La tua canzone preferita?
«Ne ho tante ma ce n’è una molto vecchia “Strada Facendo”. Questo “gancio in mezzo al cielo” di Baglioni, mi piace veramente tanto. Spero di essere il gancio in mezzo al cielo per gli altri. Da giovane avrei tanto voluto trovarlo quel gancio e spero tanto di esserlo per qualcun altro perché non l’ho avuto. Non è una critica né sul mio paese, né sulla mia famiglia, mi riferisco alla mancanza di un punto di riferimento riguardo la transizione.
“Strada facendo vedrai che non sei più da solo”, è qualcosa che auguro a trans e non trans, a tutti noi, indipendentemente dall’orientamento sessuale o il genere. Diamoci tutti una mano perché la vita non è facile per nessuno».