Ricordo che nel 2016 ho avuto la fortuna di assistere a un concerto di un coro gospel diretto da un ragazzo sulla sedia a rotelle che era completamente a suo agio nel dirigere magistralmente una quindicina di cantanti che seguivano le sue indicazioni.
Benché il gospel non fosse uno dei miei generi preferiti, la passione trasmessa da quel ragazzo ed il suo muoversi sicuro ed esperto, ma soprattutto il suo coraggio nel ricoprire quel ruolo che implicitamente significa il caricarsi sulle spalle la responsabilità sia della corretta esecuzione di ogni cantante che segue le sue indicazioni sia della buona uscita dell’intero concerto stesso, mi hanno coinvolta, emozionata e dato una carica pazzesca.
La scorsa estate ho partecipato ad un altro concerto di questo coro in compagnia di alcune amiche del team di Sguardi di Confine e di nuovo siamo rimaste tutte affascinate dalla bellezza e dalla perfezione di questo concerto gospel tanto che abbiamo tutte avuto il desiderio di conoscere e approfondire la storia di Francesco Maria Gabriele Mocchi, il direttore di LV Gospel Project.
Mentre Francesco mi racconta del suo incidente e della sua “uscita dal tunnel”, mi viene in mente quanto sia vera la frase di San Francesco d’Assisi: “Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”.
Francesco per me è un grande esempio di tenacia e penso che la sua storia riveli un insegnamento per tutti: nell’equitazione così come nella vita gli ostacoli, in un modo o nell’altro, si superano e se uno di questi ci fa inciampare, con coraggio e determinazione ci si rimbocca le maniche e si cerca l’uscita del tunnel con la consapevolezza di poter tornare a fare “quasi” tutto perché “the show must go on”.
Parlami di Francesco a 360 gradi
«Sono nato il 25 aprile, in un giorno di festa, di 45 anni fa. Sono nato a Pavia, una città piccola ma che amo particolarmente: un luogo pieno di tesori ma poco valorizzato, anche per il carattere dei pavesi, notoriamente molto chiusi e diffidenti. Ecco, una cosa ci tengo a dirla… sotto questo aspetto io non sono molto pavese, caratterialmente sono molto estroverso, amo chiacchierare, conoscere persone nuove e ragiono molto “con la pancia”.
Sin da piccolo mi sono dedicato, grazie alla disponibilità dei miei genitori, a molte passioni: ho praticato molti sport, ho imparato a suonare il pianoforte e ad andare a cavallo prima ancora di imparare a leggere e scrivere. Ho frequentato il Conservatorio Nicolini di Piacenza e poi il Verdi di Milano, studiando pianoforte e composizione. Mi sono laureato in Economia e Commercio a Pavia, cercando sempre di mantenere vive le mie passioni principali: i cavalli e la musica.
Ho fatto parte della squadra sportiva di equitazione della aeronautica militare e poi, mio malgrado, ho dovuto cominciare a fare il commercialista, professione che ho intrapreso in continuità con quella di mio padre. In realtà il mio sogno sarebbe stato fare il chirurgo, ma quella professione mi avrebbe negato la possibilità di continuare ad andare a cavallo e suonare, perché la medicina è una disciplina totalizzante».
Nel luglio 2014 hai avuto un grave incidente che ti ha condizionato il futuro…
«Esattamente il primo luglio 2014: sono oramai passati 6 anni! Un incidente assolutamente fortuito, facendo un piccolo salto con un mio cavallo, Fior di Nebbia.
Per capire le proporzioni dell’incidente, facevo categorie fino ad un metro e 45 di altezza, e mi sono spaccato la schiena su un saltino di 40 cm. Paragonerei questo incidente a quelli in cui incappano persone che si rompono le ossa inciampando sul marciapiede.
Fior di Nebbia ha sfiorato con un anteriore una barriera di quell’ostacolo giallo maledetto, è caduto… ed io con lui: ciononostante il cavallo non mi ha calpestato, né sfiorato. Sono rimasto per terra, su un terreno in sabbia (quindi anche morbido), senza perdere conoscenza e senza capire cosa fosse successo. L’esito della caduta (l’ho scoperto più tardi) è stato la frattura di 6 vertebre, una doppia lesione midollare toracica, 10 costole rotte, naso, orbita e zigomo rotti, più una serie indefinita di lividi».
Dove hai trovato la forza di non arrenderti e di lottare per recuperare il più possibile?
«Se devo essere totalmente sincero il grosso della forza l’ho ricavata dall’ambiente “ostile” che ho vissuto nella prima struttura riabilitativa in cui mi sono ritrovato, dopo l’intervento chirurgico. Metto la parola ostile tra virgolette perché l’ho vissuta come tale ma in realtà si tratta della migliore struttura riabilitativa sul territorio nazionale (infatti altri pazienti si trovavano a loro agio!).
Io l’ho vissuta veramente male, immerso tra protocolli medici, psicologi che mi perseguitavano (e che ho cacciato via sempre a male parole in ogni occasione in cui mi si paravano davanti) e un ambiente in cui passava il concetto che non c’era speranza di recupero e che bisognava rassegnarsi a suon di farmaci antidepressivi (quelli, come gli psicologi, li buttavo nel cestino appena gli infermieri se ne andavano) e terapie molto pesanti che con il tempo provocavano assuefazione.
Ho sempre avuto – questo in generale – la necessità di avere una certa forma di controllo delle realtà in cui vivevo, brutta o bella la situazione che fosse: superare i momenti di difficoltà con dei farmaci che mi facevano sembrare “tutto bello” non faceva e non fa per me. L’avversione che poi ho trovato in alcuni medici della struttura nei miei confronti e nella mia volontà di andare oltre quello che i protocolli dicevano sulla mia situazione clinica è stata un ottimo carburante motivazionale. Poi, dopo l’ennesimo litigio con il primario e i medici che mi seguivano, sono finalmente arrivato all’Istituto Clinico Quarenghi di San Pellegrino Terme, ed è tutto cambiato in positivo. Non ringrazierò mai abbastanza l’equipe del Dottor Salvi e la famiglia Quarenghi per quello che hanno fatto per me. Nonostante siano passati sei anni dall’incidente, la mia riabilitazione è una storia ancora tutta da scrivere».
Quando nasce la tua passione per il mondo equestre? Dopo l’incidente come è cambiato il tuo modo di vivere l’universo equestre?
«Ho cominciato a montare a cavallo a 4 anni e da allora non ho mai smesso, fino all’incidente. Tutt’ora sono legato al mondo dei cavalli inizialmente per ragioni politiche, dato che nel 2015 sono stato eletto nel consiglio nazionale della Federazione Italiana Sport Equestri –un’esperienza molto formativa e interessante che mi ha aiutato anche ad “uscire dal tunnel” e cominciare a viaggiare mensilmente in direzione di Roma per assolvere al mio incarico – e successivamente lavorative.
Nel 2017, la mia esperienza politica è terminata ma sono rimasto connesso all’universo equestre per ragioni professionali (seguo diversi centri ippici come commercialista) e personali (ho tantissimi amici in questo mondo). Il sogno è quello un giorno di risalire a cavallo… cosa che in realtà potrei già fare adesso, ma voglio aspettare ancora un po’, perché voglio farlo a modo mio…».
So che dopo l’incidente hai scelto di lasciare Pavia e i tuoi cari per trasferirti ad abitare in un paese in Val Brembana al centro di riabilitazione. È una scelta coraggiosa, perchè questa decisione? Dove hai trovato la forza di resistere?
«Le ragioni sono state molteplici: in primo luogo non volevo essere di peso ai miei genitori, pur sapendo che ci saremmo vicendevolmente mancati. Inizialmente loro venivano fino a San Pellegrino Terme da Pavia, due volte la settimana, pur di starmi vicini… quando ho cominciato a stare meglio, venivano sempre e comunque a trovarmi una volta la settimana.
In secondo luogo mi ero prefissato un obiettivo ben preciso: concentrarmi sul mio corpo e sulla riabilitazione, cosa molto difficile quando sei a casa tua in mezzo agli affetti, nella tua comfort zone. Sono convinto che la riabilitazione a tutto tondo riguardi non solo la parte prettamente fisica, ma anche la capacità di essere autonomi ed indipendenti: gli sforzi nel fare le pulizie, cucinare, fare il bucato e mantenere la casa in uno stato decente sono stati grandi all’inizio, ma alla fine posso dire che chiunque in qualsiasi momento potesse venire a casa da me a “SanPe” e trovare una situazione più che dignitosa.
Infine, io in clinica mi sono sempre sentito in famiglia, per il rapporto splendido creato con i medici, i fisioterapisti e tutto lo staff… molto semplicemente mi sentivo a mio agio e protetto».
Da circa un anno sei tornato a vivere a Pavia. Dopo esserti abituato a vivere in un paese, è una scelta coraggiosa anche tornare a vivere in città, soprattutto con tutte le barriere architettoniche per noi disabili in carrozzina. Come mai questo scelta?
«Il ritorno a Pavia è stato dettato dal fatto che volevo riprendere la mia vita ordinaria, soprattutto dopo l’ultimo intervento subito a dicembre 2018. Detto a chiare lettere, il primo intervento chirurgico d’urgenza subito necessitava una revisione molto importante: revisione così impegnativa che molti specialisti si erano rifiutati di operare. Ho trovato un chirurgo vertebrale, il Dott. Roberto Bassani, che si è dichiarato disposto ad intervenire; nel corso di quell’intervento ne sono successe di ogni, ma alla fine è andato bene e mi ha nuovamente cambiato la vita in positivo. A quel punto, dopo quattro mesi di riabilitazione nuovamente presso la clinica a San Pellegrino Terme, ho deciso di tornare a casa e di proseguire, comunque con la supervisione a distanza del Dottor Salvi la mia riabilitazione a casa.
Pavia, come ogni città italiana, è veramente una “raccolta” di barriere architettoniche, ma come dicono a Roma: “esticazzi”. Faccio tutto quello che riesco a fare, e dove non arrivo, troverò qualcuno che mi aiuta, o eventualmente rinuncio. Poco vale la pena innervosirsi quando ci si trova davanti a degli ostacoli! Almeno… io la penso così!».
Chi ti è stato vicino/è vicino nelle tue scelte?
«La mia famiglia e i miei amici, tutti in modo incondizionato, rispettando le mie scelte e non facendomele pesare in alcun modo».
Com’è la tua vita oggi?
«Molto movimentata, forse troppo: sto ritornando ai ritmi pre-incidente. La differenza è che se prima dedicavo circa quattro ore al giorno all’equitazione, ad oggi quelle ore le dedico alla riabilitazione. Mi divido tra quest’ultima, la professione e la musica. Senza trascurare, naturalmente, il tempo dedicato alla famiglia e alla mia fidanzata Cristina».
Sei direttore di un coro gospel. Da quanti anni? Quale percorso ti ha portato a diventare direttore del coro?
«Sono direttore esattamente dal 1999: un’eternità! Come dicevo all’inizio dell’intervista, suono fin da piccolino il pianoforte, passione ereditata dalla mia famiglia, da parte di mamma. Non sono mai riuscito a farne a meno.
A 12 anni diventai voce bianca della cattedrale di Pavia, e poi, nella piena adolescenza, cambiando registro di voce, entrai a far parte del coro diocesano.
In seguito, cominciati gli studi universitari, cominciò anche la mia esperienza nella Corale Universitaria Lorenzo Valla di Pavia, corale storica pavese, di cui divenni direttore, letteralmente per caso (il direttore precedente era scappato con una mora) nel 1999. Di lì, vista la mia passione per la musica gospel, la virata del repertorio dal classico al gospel, appunto, fino al cambio di nome del gruppo in LV Gospel Project e alla modernizzazione della struttura dal punto di vista artistico e formale».
Quale ruolo ha avuto la musica nel tuo percorso riabilitativo?
«Fondamentale!
Inizialmente mi mancava come l’aria… una volta presa casa a San Pellegrino, ho cominciato a riempire la casa di strumenti musicali, prendendo a volte a testate il muro, dato che non ero in grado di utilizzare il pedale espressivo del pianoforte (cosa che tuttora faccio molta fatica a fare, dato che le mie gambe non sono molto collaborative).
E poi, nel 2016, il mio coro è venuto letteralmente a reclamarmi a San Pellegrino: abbiamo fatto un paio di concerti per i pazienti in clinica, ho rivissuto l’emozione di dirigere i miei ragazzi, nonostante una serie di impedimenti iniziali anche a livello di mia gestualità. Da lì è stata una reazione a catena: ho ricominciato a scendere a Pavia, anche solo per fare le prove, per poi ritornare in Val Brembana, e ho avuto una ulteriore spinta ad “uscire dal tunnel”.
Ad oggi, abbiamo ripreso l’attività a pieno ritmo, con rinnovato entusiasmo, e con una formazione eccezionale dal punto di vista artistico ed umano».
Direttore di un coro, fantino esperto, laureato in Economia e commercio: disciplina e ordine, velocità e coraggio, rigorosità e precisione. Come si conciliano questi mondi apparentemente così distanti?
«In realtà sono tutte facce di una stessa medaglia. Le peculiarità che hai elencato sono alla base di qualsiasi cosa tu voglia fare bene».
C’è un episodio divertente, importante, particolare, significativo che vuoi raccontarmi?
«Ce ne sono tanti! Uno in particolare, che ha segnato veramente una pietra miliare nella mia riabilitazione, è stata la mia elezione a consigliere della Federazione Italiana Sport Equestri. Mi trovavo ancora presso l’Istituto Clinico Quarenghi, in una fase che da un punto di vista medico si può definire ancora “acuta”. Ricordo chiaramente che alla notizia, peraltro inaspettata della mia elezione nel consiglio nazionale, ero in compagnia di altri pazienti della clinica e, nonostante farmaci, malesseri vari e problemi legati alle rispettive patologie, abbiamo fatto un brindisi, scolandoci due bottiglie di prosecco.
Di lì a pochi mesi, e per questo sarò sempre grato anche a questa esperienza nella politica sportiva, avrei preso il mio primo treno per scendere a Roma per partecipare al mio primo consiglio federale (prima mi era impossibile muovermi su distanze così lunghe). Una volta “sbloccato” quel passaggio, il mio percorso riabilitativo ha preso veramente una piega diversa, perché mi sono reso conto di poter fare “quasi” tutto!»
In questi mesi di emergenza Covid-19 col tuo coro avete registrato a distanza delle canzoni… parlami di questa iniziativa. Quale ruolo ha avuto la musica durante i mesi di emergenza? Quale contributo avete dato come coro gospel in questo periodo?
«Abbiamo promosso questa iniziativa, così come hanno fatto altri musicisti e gruppi, per rimanere uniti nella nostra passione del canto, per essere vicini alle persone che ci seguono (abbiamo più di 5000 fan su Facebook), e per sperimentare un modo diverso di fare musica, considerato anche il fatto che prima di risalire su un palco, temo che passeranno ancora alcuni mesi.
La musica porta con sé qualcosa di magico: non smetterò mai di dirlo e pensarlo. Paragonerei il ruolo che ha avuto nella emergenza con il ruolo che ha avuto per me nella fase più acuta della mia riabilitazione: un’ancora di salvezza e un fattore di spinta motivazionale forte. Chi di noi non migliora le proprie prestazioni, oppure non si sente risollevato, ascoltando la musica che più gli piace? Chi come me ha il privilegio di “fare musica”, cioè di scrivere arrangiamenti o brani inediti e vederli crescere e concretizzarsi, ha un bonus ulteriore, che in un periodo di chiusura totale come quello che abbiamo appena vissuto, porta con sé un valore enorme.
Il nostro contributo è stato semplicemente quello di garantire una vicinanza emotiva tra di noi e verso chi ci segue: non abbiamo presunzioni ulteriori, se non quelle di cercare di far stare bene le persone in quei 4 minuti di canzoni in cui ascoltano e vedono quello che abbiamo realizzato.
È possibile seguirci sulla pagina Facebook del coro».
Qual è la colonna sonora della tua vita? Perché?
«Un nome solo: Queen! Sono un fanatico del gruppo, conosco a menadito ogni canzone che abbiano mai pubblicato, tutto ciò fino alla morte di Freddy Mercury, di cui sono innamorato perso, artisticamente parlando, per la genialità e la complessità del personaggio stesso e dei brani da lui composti. Alcuni brani sono così complessi, articolati e liricamente espressivi, che mi sentirei di paragonarli a composizioni orchestrali classiche».
Qual è la tua canzone preferita? Perché?
«“The show must go on”, perché “LO SPETTACOLO DEVE CONTINUARE”!»