Da qualche anno a questa parte si sente sempre più spesso parlare della violenza sulle donne. L’aumento dei casi di violenza è un dato oggettivo ma la discussione mediatica è sicuramente cresciuta in modo sproporzionato all’incremento statistico di violenze.
La speculazione sul dolore è qualcosa antico. È un tema che ha trattato anche Giorgio Gaber nel brano “La strana famiglia” a metà degli anni ‘80. Nella canzone, il Signor G, dava voce a un rappresentante di una famiglia disgraziata ma contenta dell’interesse che destavano le loro storie nella TV generalista.
Non dobbiamo dimenticare che chi dirige televisioni, giornali e blog è al corrente di quanto facciano rumore questo tipo di contenuti e, per rimanere a galla in alcuni casi, per lucrarci copiosamente in altri, non smetterà mai di far parlare di dolore, e a farlo nel modo più volgare e becero possibile, per attrarre più pubblico.
Nel caso della violenza sulle donne è però unanime il consenso a queste notizie in quanto, anche i meno interessati alle telenovele di cronaca, sostengono che “l’importante è che se ne parli” per dare un sostegno a una rivoluzione culturale che rivaluti la figura femminile, ancora troppo poco considerata in relazione all’uomo.
Diverso è quando questo argomento rientra nella sfera politica. Quando il tema serve solo ad alimentare quella cinica e continua campagna elettorale di cui i cittadini sono costanti spettatori. Quando nei comizi o nei talk-show ci si attacca a qualsiasi cosa pur di avere un applauso atto a convincere gli spettatori di essere dei servitori dello Stato che fanno di tutto per il bisogno dei cittadini. E qui, dietro un’apparente sensibilità, si cela la crudele ipocrisia umana che torna ad usare la donna come strumento, quasi come se non fosse proprio quello il problema culturale che porta, tra le altre cose, agli episodi di violenza.
Questo tipo di comportamento machiavellico è normale in politica, fa parte del gioco. Ma se prima l’ipocrisia coinvolgeva tutti, nessuno escluso, in questo caso, oltre alla falsità bisognerebbe denunciarne anche la sfumatura discriminatoria, che è molto più grave.
Femminicidio: un precedente che non possiamo permettere
Da qui l’utilizzo smodato della parola “femminicidio” e un’asta al rialzo per promettere aggravanti maggiori nel caso la persona uccisa sia una donna. Ma il reato di femminicidio è sempre esistito. Ebbene sì, si chiama omicidio e vale sia per gli uomini che per le donne, senza discriminare nessuno.
L’articolo 3 della Costituzione Italiana, nel suo primo comma, recita:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Andare a modificare il codice penale, per aggravare un reato perché commesso nei confronti di una donna, è quindi un precedente che non possiamo permettere. Anche se in questo caso non ci sarebbe nulla di male, infatti, lo stesso principio potrebbe essere usato per motivi discriminatori verso altre categorie. E questo potrà essere fatto in virtù di quel precedente considerato come un esempio di civismo.
Ne ha parlato anche Enrico Mentana, durante il suo telegiornale su La7, la sera del 10 giugno 2016:
“Chi ci segue sa bene che non amiamo affatto indulgere alla morbosità delle storie di cronaca, quelle più cruenti. E allora parliamo, con un servizio, di quella vicenda di Roma, di quella ragazza, Sara, che fu brutalizzata, poi uccisa, poi bruciata dal suo fidanzato. Ne parliamo perché oggi ci sono stati i funerali.
Ma anche per una riflessione più generale sul fatto che se bastasse parlare di femminicidio, fissare la specie di reato di femminicidio, avremmo fatto dei passi avanti, ma i fatti, invece, si incaricano ogni giorno di ricordarci che non è così”.
E poi, pensiamoci bene: chi uccide, che si parli di omicidio volontario o premeditato, non cambierà di certo idea per qualche mese di carcere in più. Infatti il trend dei delitti non ha accennato a diminuire nemmeno dopo le aggravanti messe in atto dalla legge promulgata nel 2013. Basta questa semplice osservazione per capire che un problema culturale non lo si risolve con 2 righe di codice penale. Questo concetto è però utile come strumento di propaganda. Il quale strumento, ancora una volta, è la donna stessa. Purtroppo.
Ed è proprio per far risaltare la figura femminile, nelle sue qualità e particolarità, che – in collaborazione con Cafè Musique – Sguardi di Confine ha partecipato alla realizzazione dello spettacolo teatrale “La Rivoluzione della Luna”. Il ricavato della serata è devoluto al centro antiviolenza di Busto Arsizio Eva Onlus. (Scopri di più).