Sfida la diversità viaggiando “oltre i confini” Federico Villa, atleta paralimpico di handbike, che grazie alla sua passione per lo sport, riesce a trasmettere un messaggio positivo per una disabilità senza stereotipi, senza pregiudizi e soprattutto senza più limiti.
Sguardi di Confine ha parlato con questo “handbiker vagabondo”, che con la sua compagna di viaggio Daniela Sala, è il protagonista di “Rolling Vietnam”, l’avventura più recente.
Federico ha 30 anni, quando non è in viaggio vive a Monza ed è disabile: è affetto da atassia di Friedreich, una malattia neuro-degenerativa che lo ha obbligato all’uso della sedia a rotelle da quando aveva 20 anni. Nel 2013 ha attraversato Cuba, da solo. Un viaggio cha ha condiviso per promuovere un’idea della disabilità oltre gli stereotipi e per condividere le risorse tecnologiche che permettono ad una persona in sedia a rotelle di muoversi in autonomia.
“Ad un tizio una volta ho detto che ero un ex soldato americano ed ero stato ferito in Iraq. A volte, soprattutto in Italia, dico solo che ho avuto un incidente, in macchina”. Ma perché? “Non lo so. Mi annoio a raccontare sempre la stessa storia”. Ecco, questo è Federico Villa “social freelancer”, come ama definirsi. Assieme all’amica e compagna di avventure Daniela Sala, giornalista di Radio Radicale, ha affrontato un intenso viaggio in Vietnam – chiamato Rolling Vietnam, dopo il precedente Rolling Cuba – in un percorso di vita attraverso la scoperta di luoghi lontani, forse inconsueti, ma che gli hanno permesso di costruire un racconto videofotografico utile a promuovere un dibattito sulla disabilità, “oltre i confini” e gli stereotipi.
Una sfida con se stesso, iniziata nel 2012 con la partecipazione alla Maratona di New York, trasformando la passione per lo sport in un messaggio per “chi verrà dopo di me”.
Si ringrazia www.rollingvietnam.org per la concessione delle foto
Federico, parli dell’handbike non solo come di un’attività sportiva, ma anche come di un mezzo di riscatto personale.
«Lo sport è diventato negli anni un mezzo di comunicazione importante, una situazione in cui sentirsi “alla pari”, un’occasione per condividere sogni, speranze e paure. I valori dello sport hanno aiutato molte persone con disabilità, me compreso, a sentirsi forti, a ritrovare energia e sentirsi in qualche modo uguali agli altri, se non “diversamente migliori”. Tutto questo ti prepara ad affrontare la sfida più grande, vivere. Ogni giorno è un traguardo, una vittoria silenziosa e importante».
Il Vietnam non è proprio dietro l’angolo e, soprattutto, non sembra un Paese facile da visitare per una persona in carrozzina. Come ti sei organizzato?
«Ho deciso di partire senza un tour organizzato perché mi piace perdermi. Mi piace affrontare gli imprevisti. E soprattutto mi piacciono gli incontri casuali con le persone del posto. Prima di partire abbiamo fissato la data di ritorno e alcune interviste. Nient’altro: nessun itinerario, nessun volo interno, nessun albergo (eccetto per le prime due notti). Alla fine ci siamo spostati in treno e in autobus, usando i taxi solo per gli spostamenti più lunghi all’interno delle città. All’occorrenza, senza nemmeno bisogno di chiedere, abbiamo sempre trovato qualcuno che ci desse una mano a sollevare me e la sedia, oppure che mi caricasse in spalla per farmi salire, ad esempio, sull’autobus. Non abbiamo quasi mai prenotato gli alberghi in anticipo, soprattutto dopo aver appurato che spesso venivano contrassegnati come accessibili anche alberghi con quattro piani di scale senza ascensore».
C’è un episodio legato ai tuoi viaggi iniziali che ti ha colpito particolarmente, tanto da cambiare la tua visione sulle difficoltà da affrontare?
«Tornavo da Perth, dove avevo partecipato ad un circuito di gare australiane. Ero il più giovane, avevo 20 anni. Al ritorno sono andato in aeroporto insieme ad altri due atleti. Ovviamente eravamo tutti senza accompagnatore e loro non hanno voluto nemmeno richiedere l’assistenza in aeroporto. Stavamo andando verso il gate e c’era una scala mobile. Si sono aggrappati al corrimano e tenendosi in equilibrio con la sedia sui gradini hanno iniziato a salire. E io, beh, non ero capace: non lo avevo ancora imparato. Ci ho provato, ma ho urtato qualcosa e la scala mobile si è bloccata. Con loro in bilico a metà della rampa. Non si sono nemmeno girati a guardare: il primo dei due — che aveva le gambe amputate — è sceso dalla sedia, se l’è caricata in spalla e camminando sui monconi è arrivato in cima. E l’altro — paraplegico — ha fatto lo stesso, tirandosi su a forza di braccia. Morale? Andare avanti. Sempre».
Per affrontare i viaggi hai dovuto ricorrere a particolari ausili tecnici, oltre al ruotino elettrico?
«Alcune soluzioni tecniche. Io stesso li ho conosciuti grazie ad amici o conoscenti, disabili e non. E ora mi piacerebbe ‘restituire il favore’, ad altri. Il viaggio è iniziato in qualche modo con e grazie all’handbike, quando avevo 19 anni. Sudafrica, Australia, Emirati Arabi, Libano: le prime gare internazionali mi hanno permesso non solo di confrontarmi in modo diverso con la disabilità, ma anche di girare il mondo».
Dopo l’esperienza di New York e Cuba, hai fatto rotta sul Vietnam. L’idea di visitare un Paese dove si fatica ad immaginare qualcosa di accessibile, ha il sapore della sfida
«Non è facile rispondere, forse è addirittura impossibile per me e per chiunque non viva in un Paese in via di sviluppo. Quaranta giorni non bastano, serve una vita. Per quanto riguarda però la mia personalissima esperienza, posso dire che in realtà con i giusti ausili – che in Italia in alcuni casi abbiamo la fortuna di ottenere – è stato più facile adattare le mie difficoltà al viaggio che non viceversa. Avendo incontrato e intervistato numerose persone con disabilità e associazioni locali, ho avuto comunque la conferma che la loro vita quotidiana è una sfida continua. Certo, le cose sono cambiate e stanno cambiando, da noi come da loro, e la persona con disabilità ha voglia di integrarsi nella società. È la società, però, a non essere ancora pronta: il disabile in Vietnam è accettato, a volte compatito, ma difficilmente incluso. La sorpresa è stata, a migliaia di chilometri di distanza e in un Paese completamente diverso sentir raccontare dai disabili le stesse difficoltà che si trovano a casa nostra, e che hanno a che fare soprattutto con la mentalità e con l’atteggiamento delle persone. Inoltre in Vietnam, i disabili intervistati hanno raccontato come, costretti costantemente ad arrangiarsi e a superare ostacoli anche per andare a scuola, abbiano sviluppato abilità ben al di sopra della media e raggiunto traguardi che loro stessi, forse, pensavano impossibili, diventando così un esempio per le proprie comunità. Sono incontri che spesso mi hanno sorpreso e a volte emozionato. E credo che le storie che queste persone ci hanno raccontato possano essere di ispirazione anche per chi vive in Italia, disabile o normo-dotato che sia».
Dunque parliamo di disabilità vista come risorsa e non come ostacolo?
«Penso sia necessario e inevitabile investire sulle differenze delle persone, che siano disabili o meno. D’altra parte anche noi disabili dovremmo credere di più in noi stessi ed esporci maggiormente: siamo una risorsa per il nostro Paese, sia sul piano dei valori che economico. Un dato che ci hanno riferito durante il viaggio mi ha fatto riflettere: il Vietnam perde il 2% del suo Prodotto Interno Lordo annuo per la mancata occupazione delle persone con disabilità. Il Vietnam è un Paese economicamente in crescita. Ma è anche uno dei Paesi al mondo con il più alto tasso di disabili. Su circa 92 milioni di abitanti, i disabili secondo un censimento del governo vietnamita sono 7 milioni, ma sarebbero addirittura il doppio secondo una stima del 2010 dell’Organizzazione mondiale della sanità.
Per noi è stata un’ottima occasione per esplorare il Paese da un punto di vista diverso, «seduto». Le difficoltà oggettive per un disabile nato qui sono evidenti. Il tasso di analfabetismo tra i disabili è circa cinque volte superiore rispetto alla media (il 23,8% contro il 4,4%) e solo un disabile su due completa la scuola primaria. In un Paese che praticamente non conosce la disoccupazione (la media nazionale è del 2,3% e in calo), si stima che un disabile su tre sia senza lavoro».
L’esperienza del diario di viaggio con la giornalista Daniela Sala ha sicuramente favorito un percorso di condivisione di emozioni e di confronto con nuove realtà territoriali, conoscendo persone con disabilità anche in zone al di fuori delle grandi città. Come è stata in tal senso la vostra “avventura” e quali risorse avete potuto scambiarvi?
«Abbiamo cercato le potenzialità di un percorso fatto di incontri tra culture differenti, in paesaggi rurali lontani dagli agi dei centri abitati e delle grandi città, un “diario di viaggio dell’accessibilità”. A volte la «diversità» dei disabili è una risorsa, come ci insegnano i programmatori di Enable Code, un’azienda di Ho Chi Minh City. Diversi programmatori vietnamiti —ci ha detto infatti l’amministratore delegato Colin Blackwell — hanno paura di tentare (e di fallire). Loro no. E questa è una disabilità ben peggiore che essere seduti su una sedia a rotelle».
Nell’immaginario comune un disabile non può fare tutto. Non può sempre arrivare ovunque. Cosa ne pensi?
<< Diverse persone ci avevano sconsigliato di visitare Huè, l’antica capitale del Vietnam, dove si trova la città proibita: un complesso di circa un chilometro per lato dove fino al 1945 viveva l’imperatore con la sua famiglia. Una persona in sedia a rotelle — ci avevano spiegato — non potrebbe visitare praticamente nulla. All’ultimo però l’abbiamo inserita comunque nell’itinerario, un po’ per curiosità e un po’ perché ci faceva comodo una tappa intermedia, un po’ per sfida, lo ammetto. Ci sono in effetti degli scalini piuttosto alti, circa una trentina di centimetri, e il terreno è sconnesso. Ma io sono leggero e la sedia anche, quindi gli scalini sono un ostacolo superabile. Alla fine siamo stati in giro tre ore, rimpiangendo di non avere avuto una giornata in più e domandandoci che cosa ci fosse di così «inaccessibile». Una volta ad Hanoi abbiamo visitato anche la baia di Ha Long, meta di quasi tutti i turisti che visitano il paese, ma che ha comunque conservato un’atmosfera selvaggia. L’unico modo per visitarla, con il poco tempo che ci è rimasto a disposizione è un tour in giornata da Hanoi. Ed è qui che la mia compagna di viaggio ha potuto cogliere un altro aspetto della disabilità. Da quando saliamo sull’autobus, la guida del tour, un ragazzo sui trent’anni, è ansioso per la presenza di un disabile. Ci tiene a rassicurarmi decine di volte che ci aiuterà il più possibile, ma anche a sottolineare che tante cose io non potrò farle (ad esempio il giro in canoa o la visita alla grotta prevista nel tour). Daniela mi comunica il suo fastidio nei confronti della guida e del suo essere in ansia anche quando io vado in bagno, convinto che abbia bisogno di aiuto in ogni momento. L’ho guardata e le ho detto solo: «Benvenuta nella mia vita quotidiana». La mia strategia, a quel punto, è stata quella di chiedere aiuto alla guida per qualunque cosa mi costi fatica, ma che avrei potuto fare benissimo per conto mio (passarmi la giacca, spingermi attraverso il corridoio, raccogliermi il telefono – che in media mi cade dalle mani almeno una volta ogni due ore). «Peggio per lui — le ho risposto quando Daniela mi ha fatto notare che così lo invitavo all’assistenzialismo — io devo sopravvivere e se lui è felice di fare fatica al posto mio facesse pure. Ricordi? Sono un furbo»».
Dopo le tre settimane trascorse in Vietnam hai poi proseguito il tuo viaggio nel sudest asiatico da solo. Dove sei stato, e perché questo prolungamento?
«Ho visitato Hong Kong, Manila e Singapore. Il senso delle tappe successive è stato quello di alternare realtà difficili, come il Vietnam, a Paesi sviluppati per poi ritornare alla povertà. Questo mi ha permesso di confrontare l’atteggiamento verso la disabilità. Ma soprattutto desideravo confrontarmi con me stesso e con le difficoltà pratiche del quotidiano. Sono stato ospitato da amici, a volte sul divano o per terra. Ho mangiato con loro, condividendo quello che potevano cucinare, e mi sono lavato con un catino d’acqua in cortile, ma è stata un’esperienza totalizzante, che mi ha dato moltissimo».
Come si potrebbe riassumere il significato del viaggio?
«L’obiettivo finale era raccontare il viaggio e diffondere il più possibile le informazioni su come sia possibile affrontare un’esperienza del genere, mostrando quindi tutti i “trucchi” che ho usato per muovermi in autonomia in un posto che di accessibile ha ben poco. Per il mio lavoro, ad esempio, ho scelto una fotocamera automatica che scatta sempre e indipendentemente dalla situazione in cui mi trovo. Volevo avere un vero racconto del mio viaggio, incluse scene di cadute dalla sedia, incontri, sguardi, gesti, insomma foto scattate con un’inquadratura in prima persona. Raccontano il viaggio, non la meta, sperando di coinvolgere nella storia chi le vede».
Prossimo Rolling?
«Rolling Argentina. Sarei dovuto partire già a novembre, ma mi devo fermare per un “tagliando tecnico”. No, non al ruotino elettrico. Al mio fisico. Quando sono andato a Cuba, la molla che mi ha spinto è che se avessi continuato a rimandare sarebbe diventato un rimpianto, non sarei stato più in grado di partire a causa delle mie condizioni fisiche in continuo peggioramento. Non sapevo esattamente quali problemi avrei incontrato, ma in fondo non era tanto diverso da affrontare una gara in pista. Ero comunque padrone della mia scelta: pedalare o fermarmi. La malattia non è mai in vacanza e mi segue a ruota, così ho rinviato a gennaio».