Per Daria, essere donna è «una gioia e una liberazione». Ma, prima di arrivare a questa consapevolezza, ha dovuto affrontare molti ostacoli dovuti alla non accettazione di sé da parte dell’ambiente circostante che non l’ha aiutata nella ricerca della propria realtà di genere.
Impegnata nel campo dell’attivismo, donna trans, femminista, antispecista e vegana ci ricorda, prima di tutto, una questione importante: «Non ci si può focalizzare su una sola lotta, su un solo tema. Le forme di oppressione sono molteplici, ma hanno una radice comune. Se si lotta per i diritti delle donne, non ci si può dimenticare delle donne trans, che sono doppiamente discriminate: come donne e come persone trans. Allo stesso modo, non ci si può dimenticare delle altre minoranze oppresse. Teniamo presente che, se l’analisi delle lotte non è intersezionale, è inefficace. Questo perché la matrice che opprime è una forza unica».
Daria fa parte di Intersexioni, “un collettivo che analizza le interconnessioni tra le diverse forme di dominio con lo scopo di modificarle e scardinarle”. E così, attraverso questa intervista, le dedichiamo il “Transgender Day of Remembrance” (TDoR), una ricorrenza internazionale che si celebra il 20 novembre di ogni anno per commemorare le vittime della transfobia.
Chi avesse la fortuna di trovarsi nei dintorni di Firenze può ascoltare il libro parlante di Daria (e non solo), questa sera, all’ExFila (qui il link dell’evento su Facebook per tutte le informazioni).
Gli altri, possono leggere con calma e attenzione questa nostra intervista a Daria. Per l’occasione utilizziamo la “schwa” (ovvero il simbolo “ə” per il singolare e ”ɜ” per il plurale), nella trascrizione, come proposto da Luca Boschetto e utilizzato da Intersexioni. Lo scopo è quello di “cercare di superare sia il problema del maschile usato come universale ‘neutro’, sia la costrizione del binarismo di genere”, come scrive la dott. Michela Balocchi in Oltre il Binarismo di Sesso/Genere, in un articolo del 2018 per UAAR.
Chi è Daria?
«Sono una donna trans, femminista, antispecista e vegana. Mi occupo di attivismo, in particolare per i diritti delle persone trans, ma anche per i diritti delle persone intersex, delle persone omosessuali, degli animali e delle donne. Faccio parte di Intersexioni e sono molto orgogliosa di farne parte».
Cosa significa essere donna?
«Partendo dal fatto che ho vissuto con un forte malessere per molti anni come uomo, ora, per me, essere donna è una gioia e una liberazione».
Com’è stato il tuo percorso di consapevolezza di essere una donna trans?
«I primi segni si sono manifestati presto, intorno ai 6, 7 anni, con il desiderio di indossare vestiti femminili. Poi questa cosa si è ripresentata durante l’adolescenza, in modo molto forte. Ma è nel periodo dei miei vent’anni che è esplosa in tutta la sua portata. Proprio in quel momento ho avuto un crollo psichico dovuto a varie cause, tra le quali annovero principalmente l’essere stata forzata a vivere un ruolo e un genere che non erano i miei. Così, in quel periodo, mi rivolsi ad uno psicanalista.
La prima volta che lo incontrai mi chiese perché mi ero rivolta a lui e io gli risposi: “Perché non mi sento un uomo”. In quel momento stavo male e mi sono dovuta fidare, ma in seguito ho capito che si trattava di una persona transfobica, che non conosceva per niente il tema trans e non era in grado di gestirlo.
Ho portato la questione, che necessitava di ascolto e comprensione, decine e decine di volte durante tutto l’arco dell’analisi, ma è sempre stata rispedita al mittente. In certi casi mi diceva che mi avrebbero molestata e insultata per strada, se solo mi fossi azzardata a uscire abbigliata come una donna; in altri casi mi diceva che non avrei trovato modo di esprimermi al femminile se non in teatro; fino poi a negare la validità alle mie richieste, spostando l’attenzione dalla mia identità di genere al mio orientamento sessuale. Mi diceva che, se me la fossi voluta “giocare” con gli uomini, andava anche bene, ma avrei dovuto “giocarmela” da uomo. Molto spesso però chiudeva il discorso dicendo che, rispetto al volermi esprimere al femminile, ci sono cose più importanti nella vita.
Dal momento che in 15 anni di analisi questa forte spinta a manifestarmi al femminile non passava, e dato che ormai non soffrivo più psichicamente, decisi di lasciare l’analisi e di dare ascolto a questa voce per vedere dove mi avrebbe portata. Qualche mese dopo aver lasciato l’analisi scrissi a Michela (Balocchi, co-fondatrice di intersexioni ndr.), che allora si trovava a Washington DC per il suo periodo di ricerca post dottorato Marie Curie.
Nel mio messaggio le dicevo di sentire un forte impulso a manifestarmi al femminile, che non sapevo chi ero, ma che volevo capire dove mi voleva portare questo impulso. Avevo paura della sua risposta, perché temevo il giudizio, in quanto ero sempre stata giudicata da tuttɜ.
Ma quando ore dopo lessi la sua risposta, che appunto non avevo voluto leggere prima per paura, che mi diceva che ero entrata a far parte di un gruppo in cui erano presenti,tra lɜ altrɜ: un uomo trans, una persona gender non conforming e un uomo trans-intersex, e che se non mi fossi sentita a mio agio nel portare dentro al gruppo un tema del genere il gruppo stesso non avrebbe avuto senso di esistere, mi misi a piangere; avevo trovato finalmente uno spazio in cui portare questa cosa per poterla vedere meglio, capire e vivere. Così, da quel momento cominciai a sperimentare.
Il momento della consapevolezza arrivò nel maggio del 2017, in occasione del pride di Arezzo, cui partecipai con il mio gruppo, Intersexioni appunto, nel quale decisi di manifestarmi al femminile in pubblico; era la prima volta e fu una cosa veramente bella. Finalmente mi vedevo: ecco chi ero! Ero quella persona che camminava felice in mezzo agli altri per le strade. Mi dette un’impressione davvero forte. Da quel momento in poi cominciai a uscire al femminile esclusivamente in pubblico e mi adoperai per seguire un percorso medico per effettuare la mia transizione. Nel 2018 mi sono rivolta all’ospedale San Martino di Genova, che mi ha presa in carico nello stesso anno».
Come mai hai scelto Genova per il tuo percorso di transizione?
«Avendo avuto un percorso molto deludente, almeno dal punto di vista della mia identità di genere, con uno psicanalista, non mi fido più dellɜ psicologhɜ. Visto che non ho patologie mentali, non accetto che mi venga imposto unə psicologə. Nei centri di transizione pubblici, in Italia, ad eccezione di Genova e Messina, è previsto un percorso psicologico obbligatorio, che può durare molti mesi, se non addirittura anni, prima che la persona trans abbia il permesso di accedere alla terapia ormonale.
Genova funziona in modo diverso. La persona si interfaccia con unə endocrinologə e poi l’ospedale la indirizza da unə psichiatra della struttura, dove nel giro di una sola seduta viene valutato se la persona che richiede di effettuare il percorso ha patologie incompatibili con la transizione oppure no. Se non ci sono patologie, la terapia ormonale inizia da subito. I protocolli cui si rifà Genova sono gli “Standards of Care” del WPATH.
L’imposizione dellɜ psicologhɜ e dellɜ psichiatrɜ non è giustificabile al giorno d’oggi. Prima del 2013 (anno in cui è uscita la nuova edizione del DSM, il manuale psichiatrico diagnostico), essere trans equivaleva ad avere un disturbo dell’identità, quindi una condizione clinica pari alla schizofrenia. Ma adesso essere trans non è più considerata una patologia, lo ha recentemente ribadito anche l’OMS. Quindi protocolli che impongano dellɜ professionistɜ dell’igiene mentale come obbligatoriɜ, che decidono se e quando una persona può accedere alle terapie ormonali richieste, sulla base non scientifica che sia possibile accertare questa sorta di pseudo condizione, anche sopra la volontà del soggetto, è una palese compressione della sua capacità di agire, che non è più in grado di decidere di sé e del proprio corpo. Tutto ciò mi indigna moltissimo, è la ragione centrale del mio attivismo».
Quanto conta il principio di autodeterminazione? Anche di fronte alla legge italiana…
«Il principio di autodeterminazione è di fondamentale importanza. Se io, a parità di condizioni rispetto ad altre persone non trans, non ho la piena capacità di prendere decisioni che riguardano me e la mia vita, vuol dire che la libertà di cui godo è limitata senza motivo valido. E il modo in cui la libertà viene limitata è attraverso il controllo del nostro corpo, perché il corpo è ciò che più intimamente possediamo, è ciò che siamo. Se qualcunə impedisce, ostacola, limita, senza motivo, le trasformazioni del corpo che sono necessarie alla persona trans per esprimersi in base al proprio genere, sta ostacolando il pieno sviluppo di quella persona.
Nel 1972 ebbe i documenti rettificati la “Romanina”, una donna trans molto conosciuta. La motivazione che fu data dal tribunale fu la tutela dell’ordine pubblico, non il suo diritto personale di essere donna.
Il diritto all’identità di genere però è garantito anche dal nostro ordinamento giuridico. Nel 1985 la Corte Costituzionale affermò l’esistenza del diritto all’identità sessuale, che deve essere perciò garantito.
Ma il diritto all’identità di genere è stato stabilito anche dal diritto internazionale. Così in una sentenza della Corte dei diritti Europea, che ha sentenziato che tale diritto è garantito dall’art 8 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino. E così è stabilito dalla direttiva 97/11 dell’Unione Europea.
Infine, la Corte Costituzionale ha ribadito che ci si rivolge ai tribunali per la rettifica anagrafica del sesso legale con lo scopo di tutelare l’identità di genere della persona, oltreché per tutelare il suo diritto alla salute, che non si può imporre l’operazione chirurgica di rettifica del sesso alla persona trans affinché questa abbia i documenti modificati.
E conviene ricordare che, in nessun modo e da nessuna parte, la legge italiana prevede l’obbligo dellɜ psicologhɜ in funzione decisionale sulle scelte del soggetto che si rivolge ai centri di transizione».
Citando il tuo intervento dell’8 marzo, durante lo sciopero transfemminista, l’Articolo 3 della nostra Costituzione resta “lettera morta per le persone trans e non binarie”…
«Credo sia l’articolo meno rispettato della nostra Costituzione. L’uguaglianza non si vuole, perché si vuole far prevalere le esigenze della maggioranza. In realtà le minoranze esistono e hanno delle esigenze specifiche, che devono essere tutelate e rispettate. Non parlo solo per noi persone trans, parlo di tutte le minoranze».
Riprendendo sempre questo tuo intervento, spiegami per te l’importanza della visibilità delle persone trans nella società. Che cosa significa per te? In che ambiti si deve esprimere per te?
«Spesso sentiamo criticare i pride perché sono troppo appariscenti, colorati, aperti e stravaganti. In realtà quello dei pride è un modo per mostrare immagini non consuete, che la società non è abituata a vedere. Ma anche la società si muove nello stesso ambito, facendosi vedere, attraverso i mass media, per esempio, o la moda, e producendo a sua volta immagini di ciò che la stessa società intende e impone come genere; soltanto che lo fa con alle spalle un forte apparato culturale di leggi, prassi, comportamenti accettati, modi di essere, ruoli, aspettative che finiscono per normalizzare certi comportamenti, che sono riflessi ad esempio dai mass media, ma non solo, e condannare quelli che invece non lo sono.
Per poter entrare in questa produzione di immagini e mettere in discussione il concetto di genere che la società riflette come normale occorre necessariamente farsi vedere, mostrare modi di essere che mettono in discussione questi stereotipi, che vedono ad esempio la donna in gonna e tacchi, e l’uomo in giacca e cravatta.
Dal momento che si è ciò che si esprime di essere, occorre produrre immagini ben visibili di sé; è uno dei pochi modi, se non l’unico di influenzare il concetto di genere della società. Quando questo riesce, c’è anche una piena accettazione della persona trans, che altrimenti è soggetta alla gogna della passibilità rispetto agli stereotipi di genere classici».
Può mostrarsi, però, soltanto chi ha costruito una forte identità di sé, probabilmente…
«Non penso che sia una questione di forza o coraggio. Ad esempio, se io non potessi per qualche motivo esprimere la mia identità di genere, cadrei in un malessere poco sopportabile; quindi la scelta è il male minore, semmai. Quando una persona trans si esprime al mondo, incontra certamente resistenze esterne, ma queste resistenze non saranno mai peggiori del non potersi esprimere. Penso invece che sia essere liberamente ciò che si è che dà forza e struttura la propria identità».
Hai subito discriminazioni?
«Purtroppo sono stata discriminata all’interno della mia famiglia. Mia madre ha una certa età e ha rifiutato in modo netto la mia transizione. È una questione piuttosto comune nelle famiglie italiane, di qualsiasi ceto sociale ed età; forse perché in Italia c’è l’imposizione di dover difendere la famiglia tradizionale a tutti i costi e quindi viene condannato tutto ciò che mette in discussione le fondamenta di questo sistema, che appunto si basa sulla famiglia. Per quanto riguarda la società, invece, penso che sia molto più pronta ad accettare le persone trans, più di quanto non si creda. Le persone sono molto più aperte rispetto a quanto si pensi. Da questo punto di vista, infatti, non ho subito discriminazioni».
Cosa consiglieresti a una persona che si trova oggi nei panni della Daria di qualche anno fa?
«Prima di tutto consiglierei di fare esperimenti su di sé. Al tempo, quando mi posi il problema nei termini di dover fare qualcosa, questo fu il consiglio che mi fu dato da una persona del mio gruppo che stimo moltissimo, quindi lo consiglio alle persone che si stanno interrogando sulla propria identità di genere, così come al tempo fu consigliato a me. Ciò che bisogna capire è cosa ci fa stare male e cosa invece ci fa stare bene. Nel caso di ciò che ci fa stare male, occorre capire se il malessere proviene dalla non accettazione dell’ambiente esterno, per esempio la famiglia, che riflette negatività rispetto alla scelta di effettuare la transizione; in tal caso il consiglio è chiaramente andare avanti e contrastare la negatività esterna con il proprio benessere in direzione della propria realizzazione personale».
C’è qualcosa che non ti chiedono mai ma vorresti ti venisse chiesto?
«Nessuno mi chiede mai se la transizione è la cosa più importante della mia vita. Forse lo si dà per scontato, ma nel mio caso la transizione non è la cosa più importante. Ci sono altre cose importanti che riempiono la mia vita. Ecco, collegandomi a quanto mi avevi chiesto prima, mi viene in mente un altro consiglio: non concentrarsi soltanto sulla propria transizione. La vita è anche, e soprattutto, altro. Ci sono tantissime cose che possono riempire la vita dandole senso: la musica, la letteratura, l’attivismo, l’amicizia, le relazioni affettive, il lavoro. Dovrebbe essere così per tuttɜ».
Cos’è per te la vita?
«Per me la vita è la ricerca della serenità. Una ricerca su più piani: come una sorta di giardino con molte piante, che devono essere tutte annaffiate, seguite e curate. Una sorta di giardinaggio esistenziale insomma».
La tua canzone preferita?
«Amo molto Bach e Wagner. Preferisco, sopra ogni cosa, la Passione Secondo Matteo e, per quanto riguarda Wagner, il Tristan und Isolde.
In questi giorni però ho in mente la Passacaglia in do minore, che quindi è un po’ il mio pezzo preferito del momento».