Matilde Serao, giornalista e scrittrice dotata di intelligenza e spirito di osservazione fuori dal comune, utilizzava l’immagine del “paravento” per descrivere il ritorno nella sua amata Napoli, dopo anni trascorsi a Roma inseguendo la professione. Era l’inizio del Novecento e grandi e maestosi palazzi la accoglievano all’arrivo in stazione, il biglietto da visita di una città solo in apparenza cambiata, moderna, al passo con il resto d’Italia. Dietro quella immagine di facciata tuttavia, Napoli si presentava esattamente come la fondatrice de “Il Mattino” l’aveva lasciata: martoriata dalla fame e dal disagio sociale, con qualche decorazione architettonica in aggiunta, per tenere lontani i visitatori, almeno in un primo momento, dalle reali problematiche della città.
A distanza di più di un secolo quella metafora può essere nuovamente impiegata per descrivere il passaggio da una campagna elettorale lunga, estenuante, tutt’altro che avvincente, a uno scenario post voto ancora incerto e attanagliato dal rischio che tutto venga catapultato esattamente al punto di partenza. Nel bene o nel male i cittadini hanno scelto i loro rappresentanti, ma la strada che conduce alla formazione del nuovo Governo è tutta in salita, tempestata di tranelli e pericolose voragini, pronte a inghiottire la sentenza di cambiamento emessa dal popolo sovrano.
Che cosa si cela dunque dietro al paravento che ci separa dalla XVIII legislatura?
Due sono al momento gli indizi disponibili: il rischio di deludere gli elettori a causa delle numerose proposte economicamente non realizzabili, e quello di non poter nemmeno cominciare, in virtù dei complessi stratagemmi contenuti nel fardello della legge Rosato che nonostante la vittoria plateale del Movimento 5 Stelle, come partito, e del centrodestra, come coalizione, minacciano la formazione del nuovo esecutivo, tenendo in ostaggio vincitori e vinti, obbligati ora a trovare punti d’incontro per non vanificare il risultato ottenuto.
Tornando alla campagna elettorale, la struttura di quella immagine di facciata, al momento solo parzialmente rimossa dal responso delle urne, ha trovato solide fondamenta nell’abilità, mostrata da buona parte delle forze in gara, di raccontare un paese pronto a rinascere attraverso promesse impossibili da mantenere. Anche il telespettatore più annoiato e il lettore più distratto si sarà infatti reso conto dell’assurdo gioco dialettico consistente nell’alzare di continuo l’asticella, fino a raggiungere meraviglie programmatiche da bancarotta immediata.
Ci ha provato il centrodestra con la proposta di rovesciare il sistema fiscale, la famigerata flat tax, con l’impegno ad espellere in scioltezza e autonomia mezzo milione di clandestini, o ancora con l’obiettivo di abolire la legge Fornero e di alzare le pensioni minime a livelli da sogno. A trainare la compagine Matteo Salvini, sprovvisto di felpe personalizzate ma proiettato fin da principio alla conquista di Palazzo Chigi, con un tragicomico intervento di fine campagna in piazza Duomo, condito da giuramento su Vangelo e Costituzione, a margine di una auto proclamazione a eroe nazionale accolta con passione dal suo popolo: le coperture finanziarie e i trattati europei saranno poi un problema di qualcun altro.
Al suo fianco il redivivo Silvio Berlusconi, tornato per salvare gli italiani da una nuova e pericolosa minaccia, pronto a spezzare le catene della Severino pur di respingere i grillini nullafacenti. Questo forse l’aspetto più surreale e preoccupante dell’intera montatura. L’ex Cavaliere si è riappropriato del palcoscenico come se nulla fosse successo, cancellando davanti alle telecamere, con un nuovo elisir di credibilità piovuto dal cielo, decenni di processi, prescrizioni, compravendite di testimoni e giudici, leggi su misura, fondi neri, frodi fiscali e si potrebbe proseguire per giorni.
Nonostante tutto, sarebbe interessante quantificare il numero di ore trascorse da Berlusconi in televisione o davanti al microfono di qualsiasi emittente radio, portando fieramente con sé una nuova versione della mai tramontata (e mai attuata) rivoluzione fiscale, in barba a quel curriculum giudiziario che nel resto del mondo lo avrebbe obbligato a scomparire dalla scena pubblica. “Menomale che Silvio c’è”: la campagna elettorale appena conclusa ci ha ricordato che esiste ancora su questo pianeta qualche pazzo pronto a commuoversi e urlare a squarciagola il celebre ritornello dei tempi che furono (e che sono).
Anche il centrosinistra, prima di finire masticato all’interno dei seggi, ha raccontato fino alla nausea all’Italia che “si può fare meglio”, cioè che quasi nulla di particolarmente rivelante è stato compiuto negli ultimi cinque anni, fatta eccezione per le unioni civili e per il biotestamento, e che quindi si procederà spediti, cioè a passo di lumaca, per un’altra gloriosa legislatura protetta dal renzismo e dai suoi “cento punti”: il capolavoro di arroganza dell’altro Matteo.
Per ogni canale della cosa pubblica quello che è stato fatto (niente) e quello che verrà migliorato, un’opera mastodontica ideata come guida al voto che ad un passo dal precipizio ha condannato il Partito Democratico anziché esaltarne le virtù. Crollo totale, “troppo tecnici” ha ammesso Renzi nella non conferenza che ha sancito le sue nuove non dimissioni, quel “vado via ma rimango” che gli consentirà di avere voce in capitolo nella delicata fase delle consultazioni al Colle, e di poter agire da segretario del partito nella formazione dei nuovi gruppi parlamentari, cercando di rimuovere l’ombra di un’alleanza con i pentastellati, suggerita per ora a bassa voce dalla minoranza interna, ormai stufa di sottostare ai suoi dettami.
Non è andata meglio alla sinistra a sinistra, ai Liberi e Uguali di Grasso, Boldrini e D’Alema e di tutti gli esuli. Veri fantasmi nelle urne, ma i primi, e forse gli unici, a tracciare le coordinate reali del movimento, riassunte nel presagio bersaniano secondo cui “dove non va la sinistra prima o poi va qualcun altro”. Detto fatto, e l’elettorato è rimasto intrappolato in quel bosco metaforicamente segnato dall’ex segretario, divenuto nel frattempo un vero e proprio labirinto azzera consensi, un virus per la sinistra disunita che da Roma si muove rapido e raggiunge le realtà locali, come testimoniato dal boom leghista di Palazzo Lombardia, dove per i prossimi anni governerà un signore che nel 2018 parla di razze da difendere e di invasioni da arginare.
La mappa dei talk e dei salotti televisivi, luoghi in cui nemmeno per sbaglio è andato in scena un confronto reale, viso a viso, tra forze, idee e proposte diverse, ci porta infine a considerare il notevole mutamento del grillismo, che come sottolineato da autorevoli commentatori, sembra essersi dotato di un doppiopetto che consente di alternare i toni del vaffa a prestazioni più istituzionali, la rabbia di Di Battista ai toni più pacati di Luigi Di Maio.
Il Movimento 5 Stelle ha retto al disastro di Rimborsopoli e ha fatto incetta di collegi, presentando come contromossa una potenziale squadra di ministri che nessuno conosce e che incarna quindi quell’idea del nuovo che ha convinto metà paese. Rosatellum a parte, il parametro delle acrobazie da campagna riguarda irrimediabilmente anche loro, e l’idea di proporre un reddito di cittadinanza sa di assistenzialismo: una mina vagante che potrebbe riservare spiacevoli sorprese a un futuro governo pentastellato, in quanto difficile, se non addirittura impossibile da mettere in atto come priorità.
Nell’enorme spettacolo messo in piedi dal carrozzone mediatico meritano un cenno almeno due grandi esclusi, poiché nessuno ha avuto il coraggio o l’interesse di parlare di Ius soli e dell’inferno che ancora vivono quotidianamente migliaia di persone nelle zone terremotate, queste ultime rientrate all’improvviso nei radar della politica a poche ore dal voto. Un atteggiamento indegno ma niente paura: insediato il nuovo governo, qualcuno dovrà fare i conti con il futuro degli studenti messi all’angolo da chi dovrebbe tutelare il loro percorso di crescita, e con un esercito di famiglie e lavoratori che hanno perso tutto, e attendono da troppo tempo risposte concrete per ricostruire il futuro.
Ultimo oscuro protagonista, quel neofascismo rivelatosi a giochi fatti orfano di approvazione, ma comunque fino alla fine in prima linea nel momento in cui le sfumature più marcate della cronaca hanno incrociato il percorso delle elezioni. I fatti terribili di Macerata, dal tragico destino di Pamela Mastropietro al raid dell’ex leghista Luca Traini, hanno mosso le coscienze e probabilmente anche i voti, generando un vortice di accuse reciproche e incrociate che ha spedito altrove la sensibilità, il rispetto e l’esigenza di fare silenzio per riflettere sulla follia umana. In questo improvviso e sconvolgente polverone, ci ha rimesso anche l’antifascismo, valore nobile e irrinunciabile, macchiato dalla strumentalizzazione di chi ha invaso le piazze per metterle a soqquadro e cercare lo scontro, riducendosi inconsapevolmente alla stregua dei pazzi nostalgici.
E’ ormai questione di giorni e quel paravento che per lunghi mesi ha raccolto l’attenzione del popolo attorno alla prospettiva di un sistema sano e in pieno sviluppo, verrà completamente rimosso insieme alle mirabolanti promesse di un roseo avvenire. Il venditore di pentole, figura professionale che esce profondamente evoluta dalla trafila dei comizi in prima serata, dovrà gettare la maschera e prepararsi all’urto violento con la realtà. Una magra consolazione ma pur sempre tale.