L’atto del chiedere scusa è problematico per diverse ragioni. La prima riguarda il fatto che le formule utilizzate per esprimere una scusa sono vincolate dal linguaggio e per questo motivo sono ambivalenti. Nel linguaggio quotidiano si può chiedere scusa per educazione, come nella frase “scusa, puoi ripetere?” oppure si può dire “scusa se ti ho ferito”.
Nei due casi si esprime un concetto con la stessa parola, “scusa”, ma Il suo valore è determinato da un contesto più ampio in cui essa acquista senso, il quale può essere molto diverso a seconda delle situazioni.
In una forma prototipica le scuse avvengono in uno scambio, una relazione a due in cui uno è offeso e l’altro offensore. In questo caso, il loro valore è quello di ripristinare l’armonia sociale e assumersi, da parte dell’offensore, la responsabilità di aver ferito. Tuttavia, spesso le scuse possono sovvertire la stessa norma che regola il loro uso per motivi di etichetta e si trasformano in una parodia: “Mi scusi, ma lei cosa vuole da me?”
Le scuse, per come si sono cristallizzate nel linguaggio, sono una mera convenzione e ci sono tanti modi di scusarsi quanti modi di non farlo veramente. Per esempio, l’Oxford dictionary distingue delle vere e proprie non-apologies (o fauxpologies), attraverso le quali i dirigenti della classe politica statunitense riescono a delegare le scuse servendosi di motivazioni disparate.
Anche in Italia le scuse fatte dalla classe politica sono messe sotto accusa oppure sollecitate. Nel 2016, infatti, Maurizio Gasparri utilizzò il termine “handicappato” in modo dispregiativo. Dopo esser stato sollecitato alle scuse da Laura Bigami e da una petizione online, Gasparri precisò che le scuse erano già state fatte, rinnovandole.
Ci si può chiedere se esista una differenza tra scuse pubbliche, di rito, e private. Quanto è legittima la richiesta di una scusa quando l’altra persona può continuare imperterrita a credere di essere nel giusto e, ancora peggio, di non aver ferito nessuno?
Sembra una vera e propria arte quella di chiedere scusa quanto quella di evitare le scuse. Il fatto che non si possa determinare la sincerità dietro all’oscurità di un linguaggio che intende, non intende, maschera e dissimula allo stesso tempo, porta a mettere in dubbio anche il perdono.
Il perdono, infatti, giunge solitamente solo dopo le scuse, ma diversamente da esse non è così frequente dire a qualcuno: “Ti perdono”.
Forse perché essendo già la scusa una negoziazione, pronunciare quelle fatidiche parole porta a rimarcare ostinatamente l’errore commesso dall’altro. Dopotutto, talvolta anche il perdono viene concesso quasi sotto forma di umiliazione, come se dietro ad esso si nascondesse un “ma” giudicante.
Tutto questo porta a chiedersi se tra le dinamiche linguistiche c’è spazio per la genuinità di scuse sentite e di un perdono concesso in modo definitivo. Infatti, quando un individuo si interroga razionalmente sul fatto di averne ferito un altro, sa che “deve” chiedere scusa perché convenzionalmente le scuse sistemeranno la situazione.
C’è allora forse un modo di interrogare razionalmente le proprie emozioni per scusarsi “veramente”? Forse la risposta non risiede nel linguaggio ma nello sguardo che indaga gli occhi tristi, delusi, forse anche arrabbiati di qualcun altro che ci sta di fronte.
Se le emozioni contribuissero nella stessa misura di quanto lo fa il linguaggio al processo dello scusarsi, la classe dirigente avrebbe più difficoltà a parlare.
Riconoscere la propria responsabilità e scusarsi non è facile, nemmeno perdonare lo è, quindi magari un’altra soluzione risiede nel passaggio da parole ai fatti.
Chiedere scusa mille volte non serve, basta una volta soltanto e la genuinità risiederà nell’evitare di ripetere un comportamento, una parola, persino un pensiero che ferisce.
Non, “scusa non lo farò più”. Scusa e basta, a livello del linguaggio, tanto il suo valore evanescente si conosce già. Non serve una nuova formula linguistica, ma è vero che a tanti di noi serve una maggiore sensibilità.