L’autismo non è una malattia mentale. È un problema neurologico. Riguarda il cervello, non la psiche. È il messaggio che Chiara De Bernardi, mamma e medico di base di Busto Arsizio (Varese), lascia a chiare lettere nella nostra intervista.
La sua Silvia, ormai 13enne, è stata associata all’autismo a 3 anni, prima invece, la colpa è stata attribuita alla presunta mancanza della madre. Così, con la pagina Facebook I colori di Silvia, cerca di diffondere, quotidianamente, «una cultura positiva ed ironica sull’autismo».
Chi è Chiara e chi è Silvia?
«Chiara è una mamma stanca in questo momento perché Silvia è un’adolescente e inizia ad avere un po’ di stanchezza. È una ragazza che sta crescendo, ha 13 anni e, oltre ai problemi adolescenziali, ha questa mente autistica che, da una parte, le dà un’intelligenza sovrumana.
Per lei, imparare una lezione è più semplice rispetto a noi, ha una memoria visiva formidabile, non ha problemi di intelletto o apprendimento. I problemi sono comportamentali. È una persona incredibilmente faticosa perché non sopporta l’imprevisto ma lo cerca.
A volte vuole andare al centro commerciale o al Luna Park: siamo state al Luna Park, era delusa perché le giostre ancora non erano tutte montate. Mia suocera che è una fata, sempre con noi, ci ha aiutate. Silvia però, tornata a casa delusa, ha rotto il suo gioco di Lego preferito che rappresenta la ruota panoramica del Luna Park.
Quindi Chiara chi è? Una mamma che vive nella costante ansia che Silvia faccia male agli altri o si faccia male a stessa. Queste crisi di rabbia non sono frequentissime ma sono devastanti. Io sono medico di base, il mio lavoro spesso si intralcia con gli impegni familiari».
Raccontami la nascita di Silvia. Quando vi siete accorti della presenza dell’autismo?
«È stato un momento bellissimo, nel 2004. È stata una bambina desiderata dopo la prima figlia, Irene. Desideravamo che giocassero insieme e condividessero tante esperienze. Purtroppo non è stato così visto che Irene deve fare un po’ da mamma a sua sorella.
Ci siamo accorti che Silvia era ‘strana’: non parlava ed era piuttosto tranquilla. Nel primo anno di vita non ha dato segnali, era vivace. Dal primo anno e mezzo ha iniziato ad incupirsi, a non rispondere. È sempre stata per i fatti suoi ma da quel momento ha iniziato frequenti pianti, capricci, scenate quando era in un luogo che a lei non piaceva.
La nostra pediatra, bravissima, ci consigliava comunque di darle i suoi tempi. Successivamente abbiamo scoperto che anche mio marito a una leggera sindrome di Asperger, ha parlato tardi, giocava sempre con i soliti giochi etc. Mia suocera insomma ha cresciuto un bimbo con autismo senza saperlo».
Significa che l’autismo può essere genetico?
«Assolutamente sì. È riscontrato che chi ha un parente con autismo ha molte più probabilità di averlo, così come chi ha un figlio autistico, non è raro che anche il secondo nasca con autismo. A ritroso, nella famiglia di mio marito, abbiamo riscontrato che anche il nonno soffriva di autismo.
Nel caso di Silvia, continuando a raccontare la sua storia, è stata aiutata da una psicomotricista, Viola. Io non ne volevo più sapere di medici. L’ho portata dalla neuropsichiatra e mi sono sentita dire:
“Signora, questa bambina ha sentito talmente tanto la sua mancanza che non sa come dirglielo”.
Ho provato a dirle che l’altra mia figlia non dava segnali simili a Silvia. Tra l’altro, la neuropsichiatra non mi ha parlato di autismo ma vagamente di disturbi, come un ritardo del linguaggio.
Insomma, avrebbe dovuto fare psicomotricità in ogni caso, quindi abbiamo iniziato a fargliela fare nell’estate dei due anni e mezzo. La mia pediatra mi ha consigliato di iscriverla all’asilo affinché fosse da stimolo per lei. Nel primo asilo dove l’abbiamo iscritta, quello della nostra parrocchia, l’hanno rifiutata: dopo qualche mese ci hanno detto che Silvia era ingestibile e per loro non sarebbe stato possibile tenerla anche perché non erano così frequenti, all’epoca, le commissioni per l’affidamento di un insegnante di sostegno.
Sono andata nell’asilo di Sacconago, quartiere di Busto Arsizio: lì, nell’asilo statale, l’hanno trattata con i guanti e sono stati meravigliosi. L’insegnante di sostegno è arrivata a gennaio. Silvia è stata aiutata tantissimo, prima di imparare a parlare ha imparato a disegnare e a cantare, poi a parlare grazie ai Teletubbies a 5 anni e mezzo.
Siamo seguiti all’ospedale San Paolo di Milano da una bravissima dottoressa, Olgiati. Lei è stata la prima a capire che Silvia aveva bisogno di test visivi e non di test normali con le parole. Lei quelli vocali non li capiva e così risultava avesse un ritardo mentale mentre la sua intelligenza è visiva. Ora lei fai test senza parlare, solo con le immagini. Risolve così piccoli quiz e domande visive.
Invece per quanto riguarda la memoria rispetto alle azioni, quella è limitata. Ad esempio, per la routine del bagno (lavare i denti, le mani etc), devo scriverle dei cartelli, perché ha una memoria di lavoro limitata».
Quando è stato diagnosticato l’autismo a Silvia?
«Dopo l’infelice esperienza con la neuropsichiatra della nostra ASL ci siamo rivolti al centro di riferimento su consiglio della mia pediatra: mi ha indicato un medico di Rho che, dopo un anno, mi ha mandato al San Paolo, ha fatto lui la diagnosi di autismo, Silvia aveva 3 anni. Da allora siamo seguiti a Milano. Siamo stati molto contenti ma c’è da segnalare che, dopo la diagnosi, loro non posso dirti nulla: non c’è una terapia, non c’è un percorso. Hai autismo, arrivederci e grazie.
L’unica cosa che ci è stata indicata è stata quella di un trattamento psicomotorio e uno logopedico. E dove vado a farlo? Nell’ospedale della nostra città la neuropsichiatria non è ben fornita. Vorrei andare a Magenta (Milano) dove sono molto bravi ma non posso andare lì perché risiedo in provincia di Varese. Per questo motivo, io e un’amica con un figlio autistico abbiamo redatto un documento da sottoporre all’attenzione dei neuropsichiatri, ora attendiamo il parere dell’associazione alla quale siamo appoggiati.
Non è possibile che io riceva la diagnosi di mio figlio in modo massivo. I pediatri e i neuropsichiatri non sono preparati all’autismo eppure è una sindrome che colpisce 1 su 100. Tutt’oggi non sono preparati. I pediatri di base non fanno un minimo di formazione e neppure gli specialisti sono preparati. La nostra ASL, così come altre della zona, ha seri problemi con gli specialisti del settore».
Quindi un genitore al cui figlio viene diagnosticato l’autismo cosa deve fare?
«Intanto c’è da capire quando gli viene diagnosticato. Ad alcuni figli dei miei pazienti ho fatto io stessa la diagnosi, ma già da adulti. Non sappiamo però dove mandarli. Ad esempio io li mando all’AIAS di Busto Arsizio, è il centro migliore della nostra zona. Però, anche lì, non possono farsi carico di tutti.
Per la nostra Unità di Neuropsichiatria Infantile, invece, è sempre colpa del padre o della madre. Sono davvero rari i bimbi diagnosticati autistici dalla nostra neuropsichiatria e i danni fatti sono tanti».
Più si diagnostica tardi l’autismo, più aumentano i problemi?
«Esatto. Una diagnosi tardiva è, molto spesso, una diagnosi sbagliata».
La diagnosi di autismo a Silvia a 3 anni ha inciso in modo particolare verso di lei?
«Abbiamo iniziato a seguirla ancora prima della diagnosi ufficiale perché il dottore di Rho ci aveva segnalato fosse autismo e così abbiamo iniziato a farle fare psicomotricità. Le faceva due ore a settimana, una piccola goccia che però ha aiutato Silvia tantissimo. Le dico sempre che le ho dato un animaletto e mi ha restituito una bambina. La verità è che non si sapeva che sarebbe stata necessaria molta più psicomotricità.
Ho letto tutti i libri di Temple Grandin, è una dottoressa in zootecnologia, americana, autistica. Disegna strutture per animali, allevamenti e macelli. È nata nel 1947 e scrive tantissimo di autismo: dice che sia una fortuna che sia nata in quella data perché al tempo non esisteva ancora l’autismo come diagnosi e quindi le hanno diagnosticato un malfunzionamento cerebrale.
Sua madre le ha fatto fare terapia come se lei avesse un danno neurologico e relativa riabilitazione dalla tata che la seguiva 10 ore al giorno. Stava con gli altri, doveva preparare il letto, la tavola, giocare con la sorella. Quando poi, negli anni ’60 c’è stato il boom dell’autismo con altri ricercatori, si è rovinato tutto: davano una spiegazione psicoanalitica dell’autismo. Per loro un bambino era autistico per colpa di qualcun altro, perché aveva subito un trauma.
Temple Grandin è convinta che se fosse nata dieci anni dopo sarebbe finita in un manicomio invece l’autismo non è una malattia mentale. È un problema neurologico. Riguarda il cervello, non la psiche».
Il miglior supporto per garantire una vita migliore a una persona con autismo qual è?
«Bella domanda. In Italia è ancora una chimera. Questa condizione, non malattia, come qualsiasi disabilità, non puoi guarirla. Non è neppure degenerativa perché non te la sei beccata nel corso della tua vita: sei nato così e così morirai.
Non è una malattia ma una condizione. Se fossimo abituati alla diversità potremmo permettere una serena convivenza anche con le persone con autismo. La loro difficoltà maggiore è gestire l’ansia derivata soprattutto da stimoli sensoriali alterati (vedono e sentono troppo) e questi stimoli fanno andare in corto circuito il cervello.
Vivono sempre in una situazione di iper stimolazione: ci sono ragazzi che non sopportano gli sforzi, altri i rumori forti, altri che cercano rumori e luci forti perché sono ipo-sensoriali. Questo ovviamente crea disagio in tutto il mondo attorno a loro che va diversamente: noi ‘normali’ non possiamo adattare tutto a loro ma, ad esempio, si possono aiutare, intanto, capendo che loro non ce la fanno ad aspettare il prelievo del sangue in ospedale in fila o l’attesa per entrare in un museo. Un possibile aiuto a loro deve insomma essere quello del creare un ambiente il più confortevole possibile per loro per ridurre uno stress sensoriale.
A Gardaland, dove l’ambiente è faticoso, i ragazzi con disabilità non fanno la coda e hanno un pass speciale. Questo permette a loro e a noi famiglie di goderci una situazione ottimale. Anche in aeroporto abbiamo la corsia preferenziale».
Speranze e paure per il futuro di Silvia?
«La speranza è che Silvia diventi in grado di sfondare con i suoi disegni (se riusciamo li venderemo online) e mantenersi, magari con l’aiuto nostro e di sua sorella. Paure: che lo Stato non sia accogliente con i disabili (vedi legge sui caregiver) e che Silvia sia uno dei tanti disabili dimenticati e finisca in un istituto».
Perché hai creato la pagina Facebook “I Colori di Silvia”?
«La pagina fb è nata per diffondere una cultura positiva ed ironica sull’autismo. Dico anche le mie stanchezza e paure. Mi piace che la gente mi sia vicina, anche così».
Avete una vostra canzone?
«Non proprio. Lei ama molto la musica, dalla classica (riconosce i diversi autori classici ed ama in particolare Mozart e Tchaikovsky). Ma ama anche le sigle dei cartoni, Lady Gaga, Eminem».
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