Edith Bruck, nata Steinschreiber, è una scrittrice, poetessa, traduttrice e regista di origine ungherese nata nel 1932 e sopravvissuta all’Olocausto. Deportata ad Auschwitz a soli dodici anni, nel 1944, perse nei campi di concentramento i genitori e il fratello. Dopo esser stata trasferita insieme alla sorella Eliz a Dachau, Christianstadt e Bergen-Belsen, venne liberata nel 1945 dagli alleati. A sedici anni, dopo il primo matrimonio si spostò con i membri rimanenti della famiglia a Israele. Nel 1945, a vent’anni, si spostò in Italia dove conobbe il marito, Nelo Risi.
Nella breve postfazione del suo primo libro autobiografico, “Chi ti ama così” pubblicato nel 1959, Edith scrive di aver iniziato il proprio racconto alla fine del 1945 in Ungheria, ma di essere “riuscita a scriverlo fino in fondo in una lingua non mia”.
Scrittrice migrante, transnazionale, che sfugge alle etichette del genere letterario della testimonianza pur sentendone il pesante “dovere morale”, in “Chi ti ama così” Edith Bruck racconta della sopravvivenza e della vita, della morte e della disumanità.
Alla domanda di Maria Cristina Mauceri su quale cittadinanza sentisse associata alla propria identità ebraica, Edith Bruck risponde: “Sono un esserino nel mondo. Non potrei armarmi per difendere un paese, sono una pacifista nata che detesta ogni sopruso e violenza verso chiunque”.
Sul perché la scrittrice abbia deciso di scrivere in italiano, come riporta il Corriere, questa è per Edith una “lingua corazza”. “Non avrei mai potuto scrivere in ungherese quello che ho scritto in italiano. Rimane per me una lingua sradicata. L’ungherese mi fa molto più male: mi ferisce, mi riporta ricordi molto dolorosi, difficili da sopportare”.
Tra le sue opere principali si possono ricordare le raccolte di racconti Andremo in città (1962) e Due stanze vuote (1947) e il suo libro del 1988 Lettera alla madre, vincitore del premio Rapallo Carige oltre a Signora Auschwitz: il dono della parola (1999). Nel 2018 l’Università di Roma Tre le ha conferito la Laurea honoris causa in Informazione, editoria e giornalismo.
Chi ti ama così, tematiche di una testimonianza al femminile
Ripercorrendo “Chi ti ama così” emergono molte specificità di una testimonianza al femminile, in cui l’elemento del genere problematizza in modo ulteriore la testimonianza della sopravvissuta.
Come fa presente Stefania Lucamante, fino all’inizio degli anni ’80 si riscontrano lacune nella rappresentazione letteraria delle donne sopravvissute. Questo per un motivo principale: “La diffusa opinione che separando la voce femminile da quella collettiva – maschile – si rischiasse di affievolire la potenza di un unico coro di tali testimonianze. Che si rischiasse insomma di diminuire l’importanza dell’unicità dell’evento secondo la tesi sostenuta da Lawrence Langer, oltre a stabilire una ‘gerarchia delle sofferenze’”.
Nella testimonianza al femminile, tuttavia, ci sono delle specificità causali rispetto a un genere di appartenenza. L’esperienza dello stupro, della perdita dei figli e nel libro di Bruck anche del divorzio, sono legate anche alla condizione di donna.
Già a partire dalla genesi editoriale dell’autobiografia di Edith Bruck, lei stessa dice: “L’unica difficoltà l’ho avuta con un editore di sinistra che voleva pubblicare il libro ma anche censurarlo, togliere la violenza dei militari sovietici verso le donne ungheresi, e io ho detto di no a nessun tipo di censura. Poi ho provato con l’editore Lerici e l’ho pubblicato con loro”.
In “Chi ti ama così” i temi trattati sono moltissimi. C’è una grande attenzione all’altro che, per quanto diverso, alienato, nella sofferenza acquisisce caratteristiche universali. Questo si esprime nel libro in ben due passaggi, all’inizio quando la narratrice descrive “lo zingaro” e alla fine, quando parla degli ebrei cosiddetti orientali:
«Mio padre portava spesso a casa uno zingaro che noi chiamavamo zio e a cui regalavamo qualche straccio, o qualche cosa da mangiare. Lui scherzava con noi, e diceva la verità quando affermava che gli zingari e gli ebrei sono uguali, odiati da tutti e sempre vanno, vanno e non si fermano mai, non hanno un posto che gli appartenga».
E poi alla fine: «Vedendo quegli strani esseri pensavo che avevamo in comune una cosa sola: la persecuzione».
Altro tema che emerge, è l’indifferenza crescentecausa della già enorme sofferenza. Ed è indicativo che la responsabilità collettiva, percepita anche dai tedeschi che in qualche modo tentano di aiutare, si manifesti con l’emozione più scomoda, la stessa che spesso si trova associata al sopravvissuto: la vergogna.
«Ripetevano sempre: – Assurdo: assurdo che i tedeschi possano fare delle cose simili – e si vergognavano», scrive Edith.
Nonostante sia un’autobiografia, emerge anche la dimensione del noi nel momento in cui l’umanità viene strappata ai sopravvissuti. Lì rimane solo la descrizione iconografica di azioni, la condanna non riesce a esprimersi e rimane soffocata: «Poi continuammo a camminare, rubare, morire, litigare tra noi. Le nostre facce affamate avevano l’espressione della pazzia. Spesso assalivamo i contadini strappando dalle loro mani le rape che portavano alle bestie; rimanevano immobili e si chiedevano come degli esseri umani potessero essere ridotti così. Ma io avrei voluto urlare: “Siete stati voi”».
In “Chi ti ama così”, troviamo anche l’impossibilità del perdono: «Ma io non avevo dimenticato, non lo potevo e non lo volevo, né loro erano cambiati».
Infine, la violenza in tutte le sue forme, fisica, carnale, psicologica è descritta in modo crudo e senza via d’uscita. La violenza più grande è la speranza che essa non si ripeta: «Qualche settimana dopo incontrai un conoscente e chiesi se mi poteva aiutare. Disse di sì, che avrebbe preso una camera per me e in quell’albergo avrebbe pagato lui. Dimenticai che lui era un uomo e accettai il favore»
Il libro di Edith Bruck è da leggere per condividere “il dovere morale”, per combattere l’indifferenza che uccide, per sentire lo schiaffo della vergogna. Scrivere è stata per molti sopravvissuti l’unica e forse l’ultima ancora di salvezza. Leggere è rimanere ancorati alla realtà della vita altrui, anche quando è stata segnata dalla sopravvivenza.