Carlotta Sami, voce dei rifugiati: «Il futuro è un’Europa che condivide»

È mai capitato, ai nostri “25 lettori“, di avere la chance di conoscere una persona ammirata a lungo e da lontano, e constatare che la realtà sia perfino meglio di ciò che si era immaginato?

Sicuramente è il caso di chi scrive nei confronti di Carlotta Sami, Capo Ufficio Stampa di Roma e Portavoce del Sud Europa per UNHCR. Il suo lavoro nel campo dei Diritti Umani e della Cooperazione allo Sviluppo ha avuto inizio nel 1995, fra l’altro con la gestione di progetti di emergenza in Palestina, ed è poi continuato tra Ministero degli Esteri e diverse ONG italiane; la dr.ssa Sami è stata inoltre portavoce di Save the Children fino al 2008, per poi prendere parte alla board di Concord e rivestire il ruolo di direttrice generale di Amnesty International in Italia, fino all’approdo, nel 2014, all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.

Le abilità comunicative spiccate, precise e spesso coraggiose nei contenuti che dissemina paiono davvero al servizio di un sentimento di genuina pietas nei riguardi delle persone per cui e con cui lavora, senza mai rinunciare a concretezza e radici. Con le prime sicuramente innate, e la seconda probabilmente vissuta e assorbita da tanti confronti, storie e ascolti dell’altro, ha reso oltremodo giustizia alle aspettative della vigilia del nostro incontro, possibile a seguito del focus imbastito da Sguardi sulla scorsa Giornata Mondiale del Rifugiato.

Combattendo insieme l’afa di una serata milanese, in una cascina molto particolare nel quartiere di Porta Romana, abbiamo dialogato di “porti sicuri”, possibili soluzioni, e del suo ruolo di portavoce ONU, fra fake news, numeri reali e… rivoluzioni.

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Carlotta, un caso che ha fatto discutere l’Italia nelle ultime settimane è l’attracco della Sea Watch a Lampedusa: qual è la posizione di UNHCR sull’operato della comandante Carola Rackete?

La nostra posizione intanto è quella di manifestare chiaramente preoccupazione per il fatto che, negli ultimi due anni, invece di sostenere il lavoro di salvataggio e assistenza nel Mediterraneo, si è sempre più criminalizzato il lavoro dei privati. Questo è molto pericoloso, perché da un lato ha preso come obiettivo le organizzazioni non governative, dall’altro ha avuto un effetto di scoraggiamento dei soggetti privati ad effettuare salvataggi: il Mar Mediterraneo è trafficatissimo di navi commerciali, e molte volte ci è stato riportato da migranti e rifugiati che sono sopravvissuti di aver visto navi che passavano e non effettuavano salvataggi. In ultimo, da UNHCR c’è stata la richiesta di rivedere il Decreto Sicurezza bis, nella parte che prevede un sanzionamento per i comandanti e le navi che violino il divieto di accesso ai porti.

Utilizzando proprio il termine “criminalizzazione” nella nota che è stata inviata.

Sì, abbiamo chiesto di sollevare tutti gli ostacoli che sono stati posti soprattutto alle ONG. Il frequente sequestro delle navi post approdo e la sospensione per settimane dell’attività di ricerca e soccorso sulla base di un assunto – non dimostrato nei fatti – per cui chi salva costituirebbe un fattore di attrazione (il famoso pull factor, ndr), stanno causando un aumento esponenziale del tasso di mortalità nel Mediterraneo: siamo passati da un morto ogni 29 persone che arrivavano vive in Italia nel 2018, a un morto ogni 6. È chiaro che non sta avendo un effetto di deterrenza, ma di peggioramento delle condizioni e aumento del rischio.

Che arrivino meno persone non è tanto conseguenza di queste politiche che pretendono di essere di deterrenza, quanto del fatto che in Libia è stata presa la decisione di supportare solo la Guardia Costiera, l’unica entità statale rafforzata dai Paesi europei. Questo non ha aiutato. Adesso poi la Libia è un Paese che più che mai è in guerra. UNHCR chiede la chiusura dei centri di detenzione da anni, ad esempio attuando un sistema diverso.

È chiaro che a parte la volontà politica, per attuare un sistema diverso dovrebbero essere supportati pratiche o cambiamenti che invece non sono avvenuti. D’altra parte, ribadiamo anche con forza che la Libia non è un porto dove possano essere riportate le persone: è contro il Diritto Internazionale. Sappiamo che le persone che vi rientrano finiscono nei centri e subito dopo nel circuito dei trafficanti.

Specificatamente, è possibile far concordare l’articolo 10 della Costituzione italiana con il Decreto Sicurezza bis?

UNHCR, essendo Agenzia delle Nazioni Unite, non si può pronunciare sulla Costituzione italiana; quello che possiamo fare è monitorare e rilevare quando uno Stato non emana leggi che siano conformi al Diritto Internazionale. In questo senso abbiamo constatato che il Decreto Sicurezza bis, così come alcuni elementi del primo Decreto Sicurezza, non è in linea con il Diritto Internazionale.

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Ancora oggi qualche personalità politica insiste nel definire la Libia un “porto sicuro”, nonostante i recenti attacchi aerei diretti ai centri di detenzione. Qual è la situazione in questo momento?

Gli stessi Ministri degli Interni e degli Esteri hanno detto in più occasioni che non è un “porto sicuro”. Pretendere che le persone vengano riportate lì è paradossale. La situazione è drammatica: dal riaccendersi del conflitto sono morte più di 750 persone, ci sono stati più di 9000 feriti, 95000 nuovi sfollati fra i Libici – ce n’erano già più di 100mila – e le condizioni nei centri sono terribili. Da noi e dalle ONG come Medici Senza Frontiere, che lavorano nei centri quando è possibile, sono state segnalate morti per malattie come la tubercolosi per assenza totale di medicine, in alcuni casi anche assenza di servizi igienici, assenza di cibo, acqua potabile. Dobbiamo pensare che in quei posti vivono ragazzi, uomini, donne, ma anche neonati: nascono bambini, che spesso muoiono dopo pochi mesi.

Perché le persone permangono nei centri per un tempo indefinito.

Dalle testimonianze delle ultime persone che sono arrivate, ci ha colpito il fatto che siano rimaste in detenzione sia nelle prigioni che poi nelle mani dei trafficanti, in altri luoghi che non possiamo raggiungere, addirittura per un anno e mezzo, due. Un incubo. Perché effettivamente i migranti che hanno lasciato un Paese povero ma tutto sommato sicuro potrebbero avere l’opzione di ritornare indietro – e l’ONU organizza dei rimpatri, anche se non riesce a riportare tutti quelli che vorrebbero. Invece chi non può rientrare non ha opzioni: o muore, oppure piuttosto che morire in detenzione cerca di avere una chance di sopravvivere, nelle mani dei trafficanti.

Una cosa è importante dire. Spesso leggo giornalisti o politici usare l’espressione «scelgono di partire». Un migrante o rifugiato che si trova in Libia non ha più nessuna possibilità di esercitare alcun tipo di volere: non è il migrante o rifugiato che decide se partire o non partire. Vengono venduti e sottoposti ai lavori forzati, e vengono eliminati. Talvolta muoiono, pochissimi riescono a fuggire, e altre volte quando i trafficanti ritengono di aver estorto sufficiente denaro alle persone, le mettono sulle barche e le fanno partire. Ma non è il migrante o rifugiato a decidere quando e come.

E a maggior ragione non è attirato da alcun fattore di salvataggio in mare delle ONG!

No, perché ai trafficanti non importa: i soldi li prendono prima. Che le persone arrivino vive o morte a loro non interessa.

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Uno dei temi di cui si parla a tutto campo in ogni ambito politico è una eventuale riforma degli Accordi di Dublino. Quali sono i punti di focus su cui sarebbe opportuno riflettere maggiormente?

Intanto sarebbe opportuno che, soprattutto in un Paese esposto come l’Italia, ci fosse la volontà di riformarli. Abbiamo visto che in realtà quello che è mancato è questo. Noi abbiamo inviato proposte per la riforma moltissime volte alle scrivanie dei governi, sostanzialmente mirando a un’equa gestione dei richiedenti asilo e dei rifugiati.

Teniamo presente che in Europa arrivano pochissimi rifugiati: nel mondo ci sono 70 milioni tra sfollati e rifugiati, l’86% vive in Paesi in via di sviluppo. Quelli che arrivano in Europa sono una goccia rispetto al mare che ci troviamo a gestire spesso in collaborazione con Paesi poverissimi. Proprio pochi giorni fa il nostro Alto Commissario Filippo Grandi, che è italiano, ha espresso un monito ai governi del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dicendo: «Non pensiate di poter contare in eterno sulla generosità dei Paesi africani». Spesso io ricevo commenti come “ma perché questi vengono da noi? Non c’è mica la guerra in Africa”: in questo momento ci sono 15 conflitti in Africa, e tutte le persone che ne fuggono vanno principalmente nei Paesi vicini, poverissimi. Qui in Europa ci sono le risorse finanziarie e culturali per poter gestire situazioni anche complesse; quello che manca è la volontà, che sarebbe sufficiente anche per condividere la questione, sicuramente difficile. A quel punto, fra tutti i Paesi, il peso si ridurrebbe.

Quello che noi chiediamo è una condivisione sulla base della volontà di tutti i Paesi dell’UE, e poi auspichiamo la possibilità di gestire il fenomeno. Uno dei modi sarebbe non subire gli arrivi “irregolari”, ma stabilire canali legali perché i richiedenti asilo accedano all’Europa secondo quote che ogni Paese può esprimere. A oggi l’Unione Europea con tutte le sue Nazioni fa ancora poco da questo punto di vista.

Stiamo parlando dei cosiddetti “corridoi umanitari”.

Sì. Ci sono tante modalità. Ci sono i corridoi umanitari che sono appunto gestiti e finanziati da privati; nel nostro caso in Italia – e poi il modello è stato esportato anche in altri Paesi – esclusivamente da associazioni e Chiese, cattolica ed evangelica. Poi ci sono altri insediamenti, sostenuti e finanziati dai governi, con diverse modalità.

Esistono i “corridoi universitari”: al momento stiamo lavorando con l’Università di Bologna per corridoi dall’Etiopia e la Germania crea moltissime borse di studio per rifugiati. Poi chiaramente ci sono anche le situazioni più estreme, ad esempio le evacuazioni per motivi di salute.

L’altro elemento, peraltro già presente nel regolamento di Dublino ma applicato poco e male, è la riunificazione familiare. C’è una quantità di rifugiati che si muove pagando i trafficanti e che in realtà avrebbe diritto a essere riunita con la propria famiglia; fanno questo perché le procedure per la riunificazione richiedono anni e non vengono facilitate in alcun modo, anzi, quasi scoraggiate. Purtroppo questa provvisione viene oscurata, in favore della norma per cui la persona deve richiedere asilo nel primo Paese in cui è fermata.

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Riguardo invece più in generale quelle che vengono chiamate “fake news” su immigrazione e displacement, fu famigerato il dibattito a cui partecipasti lo scorso anno su La7 insieme al deputato Carlo Fidanza di Fratelli d’Italia, durante il quale venisti attaccata per un presunto coinvolgimento illecito di Soros e Mastercard nelle attività di UNHCR…

In quella trasmissione era in corso una discussione molto civile sul Decreto Sicurezza con Senatori della Lega. Le posizioni erano diverse, ma erano, appunto, civili. Il Deputato di Fratelli d’Italia in questione mi ha attaccata dal nulla: sono assolutamente consapevole che lo avesse pianificato, proprio perché pochi minuti dopo la fine della trasmissione era già pronto sui social media un meme in cui c’era la mia foto e uno slogan su Soros. Era già organizzato, faceva parte dell’avvio di una campagna di fake news in Italia, che mirava a criminalizzare appunto Soros e Open Society, ma che è stata poi utilizzata per mettere in piedi una raccolta firme contro l’adesione dell’Italia al Patto Globale sulla Migrazione.

Il Global Compact for Migration era un progetto che andava avanti da più di due anni, nulla più che un accordo di buona volontà fra tutti gli Stati a livello mondiale, per una gestione razionale e regolare delle migrazioni; quindi un’iniziativa nell’ottica della gestione positiva delle migrazioni, che avrebbe potuto aiutare i Paesi. E invece su questa base è stata montata una campagna che è riuscita a far sì che l’Italia non siglasse quel patto.

Quello che Fidanza insinuava era che UNHCR desse carte di credito sovvenzionate da Soros ai rifugiati, i quali poi sarebbero arrivati a usarle sui nostri territori. Capiamoci: non si tratta di carte di credito, ma di un equivalente della post-pay che noi diamo ai rifugiati e richiedenti asilo in Grecia. Esse sono cessate quando la persona non è più residente, con controlli mensili e, ovviamente, non funzionano al di fuori dei confini della Grecia!

È un sistema a sostegno dei singoli e degli individui che noi attuiamo in tutti i luoghi in cui esiste un’infrastruttura tecnologica sufficiente, perché queste carte permettono alle persone di andare a ritirare qualcosa come 18€ al mese a testa per sostenere i bisogni essenziali, e di farlo con un semplice bancomat. È chiaramente molto più dignitoso e meno costoso per le agenzie fare un lavoro del genere che non distribuire, come si faceva un tempo, i sacchi di farina.

In questo modo sembra più semplice far arrivare le donazioni direttamente sulle carte.

Certo. Oltretutto è più rispondente a quelle che sono le esigenze di ogni nucleo: invece che riversare chili di riso a una famiglia per cui non è necessario, gli utenti stessi vanno e comprano esattamente ciò che serve loro.

Verrebbe da chiedersi come si possa combattere la diffusione incontrollata delle fake news.

Credo che i grandi social media siano un po’ in ritardo su questo. Non penso ci debba essere censura sul web, però dall’altra parte i social non hanno fatto nulla per impedire che soggetti con intenzioni malevole si impadronissero di quella tecnologia, e questo è preoccupante.

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Ritornando all’Italia, in che cosa si può dire che il modello ordinario di accoglienza italiano, i SIPROIMI ex SPRAR, rappresenti eccellenza?

Sono stata recentemente a un incontro a Milano con degli studenti di giornalismo, e una studentessa che è stata in Olanda e Germania notava come, nonostante si creda che l’integrazione funzioni meglio in quei Paesi e sia sicuramente più efficiente, si stanno creando dei ghetti, mentre invece in Italia, dove funziona peggio, sembra non stia accadendo. Da un lato è vero, dall’altro no: sappiamo che si stanno formando delle vere e proprie città-favelas nel sud-Italia, ma sappiamo anche che nel resto del Paese, pur con grandi lacune, negli ultimi anni si era riusciti ad avviare un sistema di accoglienza ed integrazione diffusa che stava dando degli ottimi frutti.

Ciò accadeva proprio perché l’Italia è fatta di piccoli comuni, ed è nei piccoli centri che abbiamo visto, anche laddove poteva sembrare probabile trovare chiusura, essere più facile anche per gli amministratori parlare con la comunità e far capire quello che stava succedendo. Purtroppo, una delle nostre preoccupazioni anche in relazione al Decreto Sicurezza è che si è andati in direzione contraria, privilegiando i grandi centri di accoglienza, nelle periferie, che vanno a creare una ghettizzazione oltre che uno spreco di risorse: sappiamo bene, monitorando da anni, che molto spesso la mala gestione si è verificata nei grandi centri piuttosto che che in quelli piccoli.

Come vengono scelti i personaggi testimonial di UNHCR? Li raggiungete voi, si offrono volontari loro, entrambe?

Li scegliamo noi. Abbiamo una procedura molto stringente, facciamo un’analisi che noi chiamiamo di due diligence: verifichiamo il loro profilo, che siano persone con una presenza pubblica scevra da problemi. Tastiamo prima il terreno, e se la persona si avvicina a noi volontariamente, meglio; quello che conta è verificare che ci sia un interesse genuino alla questione. Poi chiediamo un impegno abbastanza costante, nel fare apparizioni pubbliche, missioni sul campo, etc., e ovviamente non retribuito. Cerchiamo anche di far finanziare ai testimonial le missioni a cui prendono parte, e al massimo rimborsiamo le spese di viaggio.

L’analisi che conducete si riflette anche sul loro privato, o non vi compete?

Chiaramente essendo un’Agenzia delle Nazioni Unite abbiamo bisogno di profili che non siano controversi o appesantiti da conflitti d’interesse. Noi operatori dell’ONU firmiamo un codice di condotta, e siamo tenuti a osservarlo sul luogo di lavoro ma anche nella vita privata: è giusto richiederlo anche ai nostri testimonial.

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A questo proposito, a livello di public relations, com’è andata la Giornata Mondiale del Rifugiato del 20 giugno scorso?

È andata molto bene. Abbiamo avuto una copertura stampa aumentata di quasi il 40% rispetto all’anno precedente: più di 850 articoli, interviste e pezzi sulla Giornata Mondiale e sui tantissimi eventi. È già il terzo se non il quarto anno in cui strutturiamo la Giornata Mondiale come un momento in cui tutte le realtà, anche quelle più piccole, possano avere visibilità registrandosi sulla piattaforma e aderendo alla campagna #WithRefugees: chiediamo sempre di farlo attorno a elementi che per noi sono accomunanti, come il cibo, l’arte, la musica.

L’unico aspetto sul quale abbiamo avuto un po’ di difficoltà quest’anno è stato lo sport. Soprattutto il calcio era uno dei punti di forza per moltissime realtà di accoglienza in Italia: si creavano moltissime squadre e tornei. Il fatto che il Decreto Sicurezza abbia chiuso centri e spostato persone ha disgregato molte comunità, e quindi tante squadre che esistevano non ci sono più, e ce ne siamo accorti amaramente.

Per tanti altri aspetti è andata benissimo: abbiamo avuto un fantastico Refugees’ Got Talent a Catania, vinto da una giovane poetessa nigeriana, che ha attirato l’attenzione globale, dal Guardian ad Al Jazeera. Siamo molto contenti di questo. Abbiamo poi una bellissima mostra in corso a Venezia, nell’ambito della Biennale. Per noi è fondamentale avviare collaborazioni: il nostro budget sulla comunicazione è molto ridotto, però ci rende molto creativi e soprattutto predisposti a realizzare collaborazioni. Anzi, spingere e supportare collaborazioni e altre realtà. Puntiamo a essere aperti: siamo sì un’Agenzia delle Nazioni Unite, ma non dobbiamo stare dentro a una bolla.

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L’importante è far conoscere le storie. Parlando più personalmente della tua storia, come ti trovi nel ruolo di rilievo che rivesti e nella struttura di cui fai parte?

È un bel lavoro, perché evidentemente ha una grande esposizione. Sono una portavoce, non mi sento assolutamente al vertice, e la cosa che mi piace di questa posizione è che mi ha permesso di tornare in contatto con le persone. Sono nel campo umanitario da 20 anni e soprattutto negli ultimi tempi ero sempre meno vicina alle persone per cui lavoravo; questo ruolo invece me lo consente.

Poi apprezzo moltissimo l’Agenzia per cui lavoro, che in mezzo a mille difficoltà è piena di donne e uomini molto motivati e preparati. Quello che pensavo dell’Agenzia da fuori è quello che ho trovato all’interno. L’unico aspetto un po’ più peculiare mio è che moltissimi arrivano alle Nazioni Unite da giovani, io invece ci sono arrivata a 43 anni! Ho fatto prima il mio percorso con le ONG e ho vissuto e sto vivendo due mondi, essendone molto felice.

Da portavoce, sei quella che “ci mette la faccia”.

Questo sì. Questo richiede un gran senso di responsabilità.

L’abbiamo visto con Laura Boldrini prima di te: l’essere una donna in una posizione di visibilità è spesso accolto non favorevolmente.

Ricordo il benvenuto che mi diedero un paio di testate, se non sbaglio Libero e Il Giornale, appena arrivai: “L’erede della Boldrini specializzata in banalità”, oppure “La radical chic che ama i neri invece degli Italiani”. È sempre così per una donna: qualche richiamo alla sua stupidità o ad aspetti che non c’entrano niente con il suo lavoro, per dirla in maniera diplomatica. Sono gli incerti del mestiere e ci sono state parecchie minacce che ho denunciato. È capitato anche a colleghi maschi in altri Paesi europei, in maniera altrettanto seria e aggressiva. Devo dire che ho sempre avuto grande supporto dal mio ufficio, dai miei responsabili, e dal mio team, con cui lavoro benissimo.

Per salutarci su altre note, ci racconti qualcosa di te in poche parole e con una canzone che ami?

Difficile! Non riesco facilmente a parlare di me… Direi che sono determinata, appassionata ma schiva. Per quanto riguarda la canzone… sono terribile con i titoli! Ecco, Revolution di Bob Marley. Ho davvero una memoria pessima e le canzoni di Bob Marley sono le uniche di cui ricordo i testi. Dev’essere stata l’età in cui le cantavo!

Mi auguro che invece la mia memoria di questo incontro non sia stata terribile, e di essere riuscita a trasmettere almeno un quinto dell’importanza del lavoro della dr.ssa Sami e di tutti gli operatori UNHCR, che si spendono ogni giorno, tra resistenze e pregiudizi ma anche spiragli di condivisione e accoglienza, affinché quei 70 milioni di esseri umani non abbiano più bisogno di rivoluzioni.

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