Giuseppe Baldessarro, giornalista. Si è occupato per vent’anni di criminalità organizzata, prima per il Quotidiano del Sud, poi per diverse testate nazionali. Ha lavorato nel campo televisivo, ad esempio per Presa Diretta. Attualmente è direttore del mensile Narcomafie e cronista e inviato per Repubblica.
Lo abbiamo incontrato grazie al convegno proposto da Libera Varese, venerdì 23 settembre. Nella foto con la coordinatrice provinciale, Antonella Buonopane.
Parliamo di infiltrazione di ‘Ndrangheta nel nord negli anni ’60 e ‘70…
“È arrivata in quegli anni, a seguito delle immigrazioni di quelli che venivano al nord per cercare lavoro nell’immediato dopoguerra. Poi anche per il confino forzato dei mafiosi che venivano al nord. La combinazione di questi due elementi ha creato l’insediamento mafioso in diverse regioni del nord ma anche del centro italia”.
In tutte le regioni del nord?
“Praticamente sì. In alcune di più, in altre un po’ meno perché c’era magari il confino ma non la grande immigrazione. Ad esempio in Veneto: era la terra in cui i mafiosi andavano a fare il confino ma non c’era la comunità calabrese che si spostava a cercare lavoro. È la logica del branco. Poi ci sono rimasti e siamo già magari alla terza generazione di famiglie mafiose che vivono al nord”.
Oggi come possiamo riconoscere le mafie al nord?
“Oggi le mafie sono in piena fase di cambiamento. Stanno molto cambiando anche se i settori tradizionali che loro ‘frequentano’, sono sempre gli stessi. Sono i nuovi appalti, i lavori pubblici, etc. Le mafie sono cambiate ed è cambiata soprattutto l’ndrangheta. Non è più e solo militare, aggressiva, che si prende, vuole e pretende il monopolio di alcuni settori. Oggi è anche una ‘ndrangheta delle terze generazioni: è fatta di uomini che hanno studiato, che hanno delle loro imprese, loro attività e agganci importanti con settori della politica o fanno loro stessi politica. È una mafia molto più difficile da individuare e combattere. Anche se poi i segnali ci sono e si ritrovano ancora oggi. Sulle cronache locali dei nostri giornali si vedono i segni della mafiosità da cui si può poi risalire alle mafie”.
Quali possono essere i segni di questa “mafiosità”?
“Quando c’è un incendio doloso è un segnale spia. Quando c’è tanta usura, per esempio, è un altro segnale. Quando c’è una fortissima concorrenza in alcuni settori come i lavori pubblici piuttosto che privati. La fornitura di servizi è la nuova frontiera, per esempio. Le mafie non si occupano più solo di fare lavori ma forniscono servizi. Si stanno allargando in maniera importante e, dove arrivano, applicano i metodi mafiosi. Dai metodi ti rendi conto: ad esempio l’intimidazione, l’incendio, l’attentato, il danneggiamento, il furto, l’usura, l’estorsione. I metodi sono sempre quelli. Nelle regioni dove si stanno ancora insediando evitano quanto più possibile la violenza perché la violenza è un campanello d’allarme eccessivo. La usano quando vogliono usarla”.
Quindi non è vero, come si dice, che ora la mafia non usa più la violenza…
“No, la usa ancora. In maniera meno plateale possibile ma la usa ancora. E anche i sistemi della violenza sono cambiati. Non vanno più a trovare l’imprenditore, piuttosto gli creano il vuoto intorno perché ora hanno delle complicità che sono diverse. Hanno la complicità delle banche: se vuoi far fuori un competitore che ti dà fastidio, inizia a creare un problema con le banche, piuttosto che con i fornitori. Non è un metodo violento che si vede ma un metodo altrettanto efficace: chi fa impresa inizia ad avere difficoltà con le banche, con i fornitori, con gli operai. È un imprenditore finito che lascia spazio ad altri”.
E un imprenditore cosa può fare per combattere questa situazione?
“Deve denunciare, immediatamente. La denuncia resta lo strumento principale ancora oggi. È più difficile da dimostrare il reato. E poi, soprattutto, non deve restare solo. Un imprenditore che resta solo, che non ha una collettività che lo sostiene, lo aiuta, lo conforta e lo incoraggia, è un imprenditore destinato a scomparire. Non lo ammazzano più ma lo fanno scomparire come professionista, l’effetto è esattamente lo stesso. Le mafie sono cambiate in questo, non hanno più bisogno di uomini armati che vanno in giro ma di buone influenze. Può fare più danni un sindaco complice contro un imprenditore perché non gli dà i permessi che chiede o gli manda i controlli dei vigili tre volte al giorno. È come avere un’arma in mano. Poi, ovviamente, tutta la rete dei poteri che stanno intorno alla politica, all’economia, intorno al commercio. È diventato un fenomeno molto più complesso ed è un fenomeno che sempre meno si combatte sul piano repressivo e militare e sempre più va combattuto sul piano culturale”.
Un singolo cittadino come può fare antimafia?
“Comportandosi in una certa maniera ma, ovviamente, non è sufficiente. Un singolo cittadino ha il dovere di studiare: le mafie le combatti efficacemente se le conosci. E oggi studiare le mafie non significa studiare la stagione delle stragi, la criminalità organizzata che si vede. Significa studiare l’economia, i territori, la rete degli appalti, la politica. Le scelte politiche fatte in una maniera o nell’altra possono diventare determinanti. Un cittadino, anche da solo, più informato, più colto, più intelligente, magari stando un’ora in meno su Facebook e un’ora in più su un buon libro, è un’arma micidiale. Se riesce ad associarsi alla sua famiglia nel portare avanti questo discorso, poi nella scuola, nelle associazioni, ovunque. L’antimafia si può fare ovunque: in parrocchia piuttosto che al Rotary, lo fai dove hai relazioni. La criminalità organizzata è fortissima perché è organizzata: a una criminalità organizzata non si contrappone uno Stato altrettanto organizzato. Cosa fare di meglio se non iniziare ad organizzarci? È importante iniziare a lavorare sul piano culturale. Viviamo una stagione molto triste da questo punto di vista. Abbiamo i ragazzi che non stanno più insieme tra di loro, che non parlano più tra di loro, che stanno attaccati ai computer, telefonini o tablet, dieci ore al giorno e diventano vittime passive di tutto quello che gli avviene intorno. Credo che alcune cose si debbano combattere anche su quel piano. Lì continuiamo ad avere i nostri piccoli eroi che fanno cose grandi. Nella cultura, piuttosto che nella polizia, nei carabinieri o nelle associazioni ma sono sempre di meno. Abbiamo una generazione, dai trent’anni in giù, che paradossalmente, per la prima volta, è peggiore dei propri genitori. E questo è un problema nostro, dei più grandi, perché vuol dire che non siamo stati all’altezza”.
Insomma, bisogna ripartire dall’educazione…
“Assolutamente: dall’educazione e dagli stili di vita. È chiaro che se a un ragazzo fai vedere la possibilità di andare in giro con una bella macchina pur non avendo un lavoro, cercherà di imitarti. Fagli vedere uno stile di vita diverso. Dobbiamo dedicare più tempo ai ragazzi”.
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