Una vita in cammino, quella di Alfonso Casale. A partire dalla sua gioventù, quando dalla Campania si spostò a Verona per intraprendere un percorso ecclesiastico. Da allora ci fu un cambio di rotta, posto di fronte a ciò che la vita e i suoi sentimenti gli chiedevano nel profondo. Quindi il viaggio verso Milano, a 17 anni, per cercare fortuna e aiutare economicamente il padre invalido e rimasto senza lavoro.
Da allora di strada ne ha fatta davvero tanta. Oggi è il patron di Telcom spa, un’azienda che consta di 200 dipendenti a Ostuni (Brindisi) oltre a diverse sedi in tutto il mondo e dalla quale sono passati (tra gli altri) l’allora Ministro Massimo D’Alema (2008) e il presidente della regione Puglia Raffaele Fitto (1988). Lanciata nel 1973 per il commercio di elettrodomestici, prese preso il lancio, passando anche dalla collaborazione fianco a fianco con Antonio Merloni. Poi, la svolta nel 1987 con l’introduzione in Italia dello stampaggio rotazionale nelle sue diverse applicazioni. In particolare (tra le 25 attuali linee di prodotti) ci sono serbatoi in plastica per acqua potabile e vasi a imitazione di terracotta che finirono anche in Piazza San Pietro in occasione della beatificazione di Padre Pio (ogni informazione sull’azienda la trovate qui)
Appena raggiunta la pensione, Casale ha continuato il suo cammino decidendo di iscriversi all’università di Sociologia. Presa la laurea magistrale, dai suoi studi ne ha tratto un libro con lo scopo di far riscoprire il patrimonio storico-culturale della via Traiana e permettere ai numerosi pellegrini della via Francigena di includere anche il territorio pugliese nel proprio viaggio. “La via Francigena del Sud, l’Appia Traiana come il Cammino di Santiago” è un progetto di turismo sostenibile acquistabile online (qui) con la prefazione di Raffaele Nigro e Lino Patruno.
Oggi vive in una masseria ottocentesca, la Masseria Appia Traiana (proprio accanto alla storica via Traiana), circondato da 4500 ulivi dai quali produce olio biologico insieme alla sua Elena (Tateo), la moglie. Qui, in buona parte si trovano sono piantagioni secolari che chiunque può adottare per contribuire al loro mantenimento (questo il link).
Insignito Cavaliere della Repubblica e Commendatore all’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, Alfonso Casale ora trascorre le sue giornate ancora in parte tra le mura della sua Telcom e le azzurre distese sconfinate di Ostuni al timone della sua Itaca, una barca a vela. Di lui c’è un intero capitolo sul libro “Una marcia in più. I conti che tornano del made in Italy” edito da il Sole 24 Ore a firma di Mauro Castelli nel 2006, mentre della Telcom spa ne hanno già parlato tutte le maggiori testate nazionali e non.
Noi, intanto, lo abbiamo intervistato e immortalato in video (in fondo all’articolo)…
Chi è Alfonso Casale?
«Sono un emigrante, come sono stati emigranti i miei genitori e i miei nonni. I miei nonni immigrarono in Africa e tanti miei zii immigrarono negli Stati Uniti. Io, all’età di diciassette anni, sono emigrato in Lombardia. Poi ho trovato la mia Itaca qui, mi sono sposato e ho dato il via all’avventura di mettermi in proprio».
Cos’è per lei la sua barca a vela Itaca? Cosa significa il suo nome Itaca?
«Significa in qualche modo risolvere i problemi di sussistenza. Nella vita sono partito da condizioni economiche molto disagiate e da una situazione in cui mio padre era invalido e disoccupato e io a 14anni percepivo gli assegni familiari per il resto della famiglia. Quindi, il mio obiettivo era quello di raggiungere un minimo di serenità, di autosufficienza e cercare un futuro meno incerto e meno problematico.
Il nome Itaca è l’acronimo di Italia Alfonso Casale oppure Italia Tateo Casale (Tateo è il cognome di mia moglie Elena)».
..Itaca è anche la poesia del poeta greco Costantino Kavafis che apre il suo libro sulla via Francigena del sud, poesia simbolo della ricerca di se stessi. Ndr.
Chi era Alfonso da ragazzino?
«Da ragazzino, come tutti gli altri, ero pieno di ideali, aspirazioni; mi piaceva la musica e mi sarebbe piaciuto quando ero ancora adolescente fare il missionario. Ho fatto le scuole medie in una scuola apostolica a Verona presso i padri Stimatini, poi a quattordici anni ho cambiato strada perché mi innamorai di una ragazza e iniziai a sognare di poter fare il maestro e poter vivere di musica. Tuttavia, l’impatto con la realtà è stato ben diverso. Prima feci domanda per andare a lavorare in Germania nelle miniere, fui arruolato, poi al momento della partenza non ebbi il coraggio di partire vista la disperazione di mio padre. Ero il primogenito, di 6 figli, che si allontanava. Quindi dalla Germania dirottai su Milano.
Feci la classica valigia di cartone, un amico mi pagò il biglietto del treno e quindi sbarcai a Milano. L’impatto fu forte. Come misi il piede sul tram numero uno che partiva dalla stazione e arrivava allora fino a via Ludovico il Moro, non appena salii sulla piattaforma posteriore dove c’era il bigliettaio, trovai due ragazzi che mi presero in giro. Io avevo solo una valigia di cartone e una chitarra, loro dissero “tal chi el el terùn con la piva” (“guarda qui il terrone con la zampogna” ndr.), capii dopo il significato di questa espressione.
A Milano comunque risolsi subito il problema del lavoro, ricevetti una buona formazione, iniziai lavorando in albergo, portando le valigie ai clienti. I primi giorni dormivo in una baracca di muratori, un ragazzo del mio paese mi procurò una brandina, così iniziai a girare tutti gli alberghi di Milano perché in quel modo avrei avuto anche la possibilità di alloggiare gratuitamente e rimediare qualche pasto. Trovai lavoro all’hotel Touring in piazza della Repubblica, così potevo mandare i soldi a casa. A quel tempo andavo a comprare il Corriere della Sera che costava 40lire e lo rivendevo nell’ascensore, così il cliente mi lasciava 10lire di mancia. Tra le mance e il ricavato della vendita dei giornali potevo mandare i soldi ai miei familiari. Tutti gli emigrati al tempo lavoravano per mandare i soldi a casa, proprio come fanno oggi i ragazzi dalla Nigeria e dal Ghana.
In seguito, dato che sapevo scrivere a macchina e fare un po’ di corrispondenza e contabilità, fui assunto alla Remington. Questa multinazionale americana è stata per me un’università perché imparai tante cose che mi furono utili anche quando successivamente andai a lavorare presso una multinazionale sussidiaria della Ford, la Philco che si occupava di elettrodomestici».
Come si arriva alla creazione di Telcom?
«Mi sono sposato nel 1973 che non avevo ancora 23 anni e subito mi nacque il primo figlio. Fui trasferito al sud dalla Philco e, dato che il padre di mia moglie era un commerciante di olio, iniziai questa attività di vendere l’olio al nord anche se era un’attività precaria. Più tardi mi fu offerto un lavoro da parte di un’azienda del settore elettrodomestici e andai a lavorare lì, mettendo a frutto l’esperienza che avevo guadagnato lavorando a Milano e a Bergamo. Tutta l’esperienza mi aiutò a far crescere molto quell’azienda, loro furono generosi nella retribuzione così riuscii a comprarmi subito casa. All’età di trent’anni avevo già un piccolo gruzzolo da parte e decisi di mettermi in proprio, vista la facilità con la quale ero riuscito a far crescere quell’azienda.
I primi anni ho fatto ciò che sapevo fare, attività commerciale nel settore elettrodomestici. Iniziai a distribuire all’ingrosso televisori e lavatrici, in seguito iniziai a importarli dall’estero e feci un’azienda nostra in Arabia Saudita. Tutta l’esperienza acquisita presso la Philco e l’azienda pugliese costituirono il patrimonio con il quale sono partito. Poi il mondo degli elettrodomestici è cambiato e ho dovuto cercare qualche idea per il futuro. Quel settore in Italia era entrato in crisi perché i paesi emergenti avevano portato via il mercato italiano».
Com’è nata l’idea della produzione di Telcom attraverso il rotational molding?
«Un amico mi parlò di questa tecnologia: il rotational molding, che allora in Italia era sconosciuta e mi indirizzò negli Stati Uniti. Lì scoprii le innumerevoli applicazioni di questa tecnologia.
La prima macchina è arrivata da Busto Arsizio (Varese), da un’azienda che aveva preso spunto dalla tecnologia di un’azienda americana. Io comprai da loro la prima e la seconda macchina, poi mi rivolsi a un’azienda del novarese».
Quale collaborazione ha avuto con Antonio Merloni?
«Merloni decise di iniziare una produzione per conto di terzi e noi fummo tra i primi clienti a comprare da lui le lavatrici che abbiamo introdotto con il nostro marchio sul mercato italiano. Eravamo il suo cliente più anziano, poi per la crisi la sua attività è andata a scemare e negli ultimi anni fu costituita una società tra noi e Merloni nella quale noi offrivamo il marchio Telcom e lui conferiva il controvalore in denaro».
La crisi ha influito sul suo modo di fare imprenditoria?
«Le crisi portano sempre dei grossi cambiamenti e costringono ad investire nell’innovazione e nella ricerca. Questi sono gli effetti positivi. Poi per il resto la crisi ha generato il calo della domanda e conseguentemente quello della produzione. In dieci anni di crisi abbiamo perso circa il 30% del fatturato e abbiamo tagliato sui numeri del personale. La crisi ora è finita ma a recuperare tutto ciò che si è perso ci si impiega un po’. Noi ora lavoriamo quattro giorni a settimana e l’azienda italiana consta di 200dipendenti oltre i dipendenti dell’azienda rumena e di quella albanese».
Cosa pensa della frase: “Più spendi meno spendi”, intensa come “è importante investire”?
«Deve riferirsi alla qualità dei prodotti, dei macchinari, alla qualità di ciò che tu offri al mercato. Nella nostra azienda c’era un’idea precisa dietro, noi dovevamo, in piccolo, capovolgere l’Italia. I pregiudizi sono forti e un piccolo paesino del profondo sud che deve vendere in Svizzera e Germania si è esposti a pregiudizi. Ti trovi a competere con Paesi che stanno ancora più a sud, quindi la scelta strategica è stata quella di fare il miglior prodotto possibile al più alto livello di qualità e questa scelta ci ha premiato, tant’è che i nuovi concorrenti hanno deciso di adeguarsi al nostro livello di qualità».
Per quanto riguarda la sua laurea, cosa l’ha portata a iscriversi all’università in età adulta?
«In tutte le aziende nate dopo gli anni ‘60 è attuale il problema del passaggio generazionale. Molte aziende nel passaggio si sono dissolte e i problemi sono stati ampiamente analizzati dalle università italiane. Io ho cercato di non rimanere vittima di questo evento. Quando mio figlio, dieci anni fa, si ritenne maturo e idoneo per prendere le redini dell’azienda (lui aveva 40 anni io 65), fece parte di un disegno preciso il fatto che io mi allontanassi dalla Telcom. Solo così lui poteva crescere e legittimarsi, prendendo le redini senza avere la figura ingombrante di un padre al quale tutti avrebbero continuato a rivolgersi. Quindi ho lasciato l’ufficio e mi sono detto: “Ora che faccio? Mi iscrivo all’università”, quindi ho fatto l’università da frequentante, mi mettevo a studiare per non fare brutta figura con i ragazzini di vent’anni, per non rischiare l’accusa di essere favorito.
Puntavo a prendere trenta o trenta e lode, poi c’erano materie ostiche nelle quali mi accontentavo anche di un 24, però alla laurea magistrale sono arrivato a 110 e lode. L’università è finita, la crisi è continuata, quindi volevo dare una mano al superamento della crisi. Ora mi interesso più che altro di operare sui costi e sull’innovazione di prodotto e ristrutturare la rete vendita. Al giorno d’oggi bisogna puntare sul marketing e l’innovazione, solo questo fa recuperare ciò che hai perso. Inoltre, nasce sempre nuova concorrenza…».
In quali Paesi c’è maggiore concorrenza?
«Soprattutto nei Paesi dell’est, in Polonia, Croazia, Repubblica Ceca, Slovenia, Germania orientale. Lì hanno prezzi più bassi, da noi il costo del lavoro è circa 26 euro all’ora, in questi paesi 5, 6 euro all’ora. Per non parlare di tutti i costi accessori che ci sono da noi, i problemi burocratici, fiscali… è diventata dura».
Da dove nasce l’idea di scrivere un libro sulla via Francigena?
«Studiando economia mi sono reso conto del fatto che il modello di sviluppo predicato da Truman nel ‘49 e diffusosi in tutto il mondo, è stato un modello fallimentare. I modelli di sviluppo già da diversi anni, invece, sostengono che solo uno sviluppo endogeno, e che sia ecosostenibile, è uno sviluppo che può garantire un futuro. Osservando la via Traiana e approfondendo la storia, la funzione nei secoli, conoscendo il cammino di Santiago, ho fatto un’analisi comparativa e ho riscontrato che essa rappresenta una grande occasione di sviluppo sostenibile poiché si superino determinati ostacoli che io elenco nel mio lavoro. Questi ostacoli sono il campanilismo, l’incapacità di allargare i propri orizzonti, di fare rete… difetti tipici italiani.
Per me l’ecosostenibilità è fondamentale. Se non vogliamo rubare il futuro ai nostri figli la cosa giusta da fare è che le nostre attività non rubino il futuro. Ci sono dei pilastri fondamentali: la protezione dell’ambiente, il corretto utilizzo delle risorse non rinnovabili. Per esempio, nella mia azienda ho sempre evitato l’usa e getta e ho effettuato la sostituzione di serbatoi di cemento amianto con quelli adatti al contenimento di acqua potabile. Tutto ciò che facciamo non ha impatto ambientale ed è ecocompatibile».
Anche l’idea di aver creato una produzione di prodotti biologici rientra in quest’ottica?
«In questo mi ci sono trovato un po’ per caso. La mia famiglia ha vissuto per quindici anni in azienda, poi quando l’azienda è cresciuta sono stato costretto a liberare quella parte di palazzina. Ho acquistato una masseria e ho avuto l’idea di farne un’azienda agricola. L’idea è cresciuta giorno per giorno, principalmente volevamo rendere gradevole l’ambiente nel quale saremmo vissuti, così l’abbiamo restaurata, abbiamo bonificato cent’anni di abbandono, abbiamo riportato alla vita settecento piante secolari che stavano morendo e abbiamo portato migliaia di camion di terra e trasferito qui tutti gli alberi secolari che venivano spiantati dalla zona industriale.
Poi abbiamo piantato 4mila alberi giovani per rendere giustificabile l’acquisto di un trattore e un sistema di irrigazione. Vista la quantità di olio di oliva prodotto in Puglia, utilizzando diserbanti e pesticidi, abbiamo deciso di rendere l’area un posto sicuro, abbiamo recintato e interdetto l’area ai cacciatori, abbiamo piantato un boschetto e creato un impianto di irrigazione a goccia. Noi non usiamo veleni e abbiamo voluto fare un olio di qualità. Abbiamo voluto seguire i principi dell’attività industriale in quella agricola, solo che qui è più difficile raggiungere un equilibrio economico delle vendite perché la gente al supermercato compra olio di importazione a 4 o 5 euro al litro, noi con quel prezzo non ci paghiamo nemmeno le spese di raccolta.
Quindi abbiamo puntato a un prodotto di qualità. Ma è difficile entrare nel giro commerciale, e quindi lo vendiamo tramite conoscenze dirette, a chi compra l’olio diamo l’albero d’ulivo in adozione, mettiamo il suo nome sull’albero e inviamo la foto con il numero di identificazione fornito dalla Regione (sono alberi protetti). Quindi questo è il mio sogno, raggiungere l’equilibrio economico in modo che chi erediterà domani la proprietà non mi debba maledire (ride ndr.). Tanti terreni dove si coltivava l’olivo qui sono stati abbandonati perché il lavoro che ci voleva per ricavare un litro di olio era remunerato a livello di schiavismo».
Come fa una persona a acquistare l’olio da voi?
«Attraverso il sito internet Masseria Appia Traina (qui)».
Casale nel futuro?
«Il futuro riguarda più i miei figli e i miei nipoti, io ormai sono un uomo del passato. Per quanti anni posso lavorare ancora? Poi c’è un tempo per tutte le cose. Probabilmente lavorerò fino all’ultimo giorno in cui sarò in vita, ma la biologia è una regola alla quale non si sfugge, quindi lavorerò senza molte ambizioni. Qui siamo più impegnati alla conservazione del patrimonio aziendale. L’azienda come esiste adesso è frutto di 45 anni di lavoro e prima della crisi era un’azienda che non aveva fattori di rischio perché nella costituzione del business io mi sono sempre preoccupato di eliminare uno a uno tutti i rischi.
Per eliminare il rischio finanziario non ho sprecato le risorse quando c’erano buoni profitti, abbiamo capitalizzato per evitare di dover esser scannati. Non volevamo avere rischi connessi all’andamento metereologico perché quello influisce molto su un’attività, quindi abbiamo fatto prodotti che si possono vendere tutto l’anno, anche questo fattore di rischio così è stato eliminato. Poi non volevamo avere il fattore rischio clienti, quindi dato che servire solo pochi grossi clienti è un gran rischio, abbiamo creato un’organizzazione commerciale in cui ci sono più di quattromila clienti, se ne perdiamo uno non ci strappiamo i capelli.
Per quanto riguarda il fattore rischio connesso ad area geografica, noi non vendiamo solo in Puglia, vendiamo anche in Svizzera, Francia, Germania in America, prima delle crisi noi non avevamo paura di niente. L’unico fattore di rischio per noi poteva essere una guerra nucleare, un cataclisma cosmico. Non avevo considerato una crisi mondiale dovuta alla finanza e alla moneta, che è quello che ci ha regalato il sistema bancario mondiale. Hanno fatto una tosatura generale di tutte le pecore. Questo fattore di rischio, una crisi che piombasse dall’alto, questo non era previsto né prevedibile e la crisi ha influito fortemente sulla domanda. C’è stato un calo generale del potere d’acquisto dei salari e questo ha generato il fallimento di molte aziende, il trasferimento all’estero di altre. Le odierne politiche del Governo non tengono conto delle cause della crisi, nessuno chiude volentieri la propria attività industriale e la trasferisce all’estero se non è costretto da motivi economici».
Quanto lo Stato potrebbe intervenire e come?
«Lo Stato dovrebbe fare subito tutte quelle riforme e provvedimenti che non hanno risvolto economico. Per esempio, eliminare la burocrazia per le aziende. Abbiamo decine di migliaia di leggi che colpiscono le aziende in modo pesante da un punto di vista economico. Secondo, lo Stato non può scaricare sulle aziende lo smantellamento del welfare, questo non è un problema solo italiano, è un problema dell’occidente, da quando è crollato il muro di Berlino, gradualmente il welfare che era servito per creare un argine all’espansione del comunismo non serviva più e si è cominciato a scaricare sulle aziende i costi sociali che servivano per fare la differenza. Scaricarlo sulle aziende però è quasi immorale. Se tu scarichi su di me i costi dell’assenteismo e quelli dell’assistenza sociale, quelli delle maternità e dei licenziamenti – che uno è obbligato a fare -, le aziende autonomamente o si trasferiscono o falliscono o si muovono in modo più veloce.
Lo Stato può tagliare un po’ la spesa pubblica corrente, quella si mangia la maggior parte delle risorse del bilancio dello Stato, bisogna tagliare i costi della difesa e non quelli delle università, della cultura e degli investimenti. Per rimettere in moto il sistema produttivo italiano, che negli anni sessanta e settanta veniva ammirato in tutto il Mondo, devi cominciare a smantellare le cose brutte che hai fatto dagli anni sessanta in poi».
Questa idea di Stato manca di più al sud rispetto al nord?
«Al sud ci sono problemi storici che sono partiti dall’Unità d’Italia dei quali uno deve tenere in conto. Bisogna studiare la storia e l’economia, porre riparo alle cose sbagliate e alle ingiustizie, alla distribuzione della spesa pubblica sul territorio nazionale. Se si inizia a far le cose con equità si può mettere il sud in condizioni migliori. Oggi tutte le famiglie dei miei amici hanno i figli fuori, il fenomeno migratorio è spaventoso e qui stanno restando soltanto i vecchi. La situazione è veramente disastrosa, prima o poi si arriva a fare le barricate.
Le risorse si esauriscono e questi giovani che studiano alla Bocconi e alla Luiss, – sappiamo cosa costa tenere un figlio all’università – dopo che la famiglia si è dissanguata per farli studiare, chi beneficia delle risorse? Vanno a costituire un esercito di intellettuali di riserva per le aziende del nord o vanno a lavorare all’estero in Francia Germania, Spagna, Inghilterra. Ragazzi con la laurea in tasca che fanno i camerieri, ragazzi che fanno lavori umili presso le multinazionali. Così il sud diventa ancora più povero. Lasciamo stare lo spirito imprenditoriale… per avere l’energia elettrica ci ho messo dieci anni. Dopo quarantacinque anni se ti porto a fare un giro, le strade nella zona industriale non sono completate. C’è abbandono in giro. Se vai in Vietnam ci sono zone industriali con i parchi.
Negli anni ‘60 in Lombardia c’era competizione tra le aziende, queste iniziarono a trasferirsi verso Vimercate, Trezzo, Bergamo, i Comuni facevano a gara per attrarre le aziende. Negli anni ‘60 c’era una competizione virtuosa perché i Bergamaschi si alzavano alle quattro o cinque del mattino per fare i muratori a Milano. Quando lavoravo alla Philco venivano a bussare a casa mia per chiedere lavoro. Questa trasformazione del tessuto industriale in Lombardia è avvenuto come doveva avvenire. La fabbrica (l’Alfa Romeo stava dentro la città), al nord ha usufruito dell’esercito industriale di riserva, come diceva Marx, al sud invece sono state date le polpette avvelenate, il petrolchimico, il siderurgico. La stessa politica che hanno applicato gli Stati Uniti, quando hanno spostato in Alabama, Arizona o India e al sud le industrie che hanno ammazzato decine di migliaia di persone. Al sud è stata fatta la stessa cosa, tante aziende che hanno trasportato i ferri vecchi li hanno fatturati come macchinari nuovi, la fabbrica non è mai stata aperta e hanno incassato centomila miliardi. Tutte le industrie fortemente inquinanti sono state spostate al sud con i soldi pubblici».
A proposito di pregiudizi in quanto imprenditore del sud, ne ha mai subiti?
«Non tanto dai visitatori che vengono dall’estero, clienti che vengono dalla Germania, Francia, Inghilterra e Stati Uniti per i quali non c’è nulla di straordinario che nel sud ci possa essere un’impresa leader nel proprio settore, i pregiudizi soprattutto sono duri a morire da parte di qualche cliente o fornitore che viene dal nord Italia e che credendo di fare un complimento dice “Ah non avrei mai pensato di trovare un’azienda così”, la cosa nasconde dietro un retroterra di pregiudizi sulle imprese meridionali».
Cosa significa oggi essere imprenditori?
«Oggi essere imprenditori significa anche farsi carico di una responsabilità sociale molto importante, innanzitutto è bene chiarire che l’impresa oggi nella nostra società dev’essere chiaramente finalizzata al profitto perché un’impresa che non fa profitto è un’impresa malata. Poi quando l’impresa funziona in questo modo può assolvere anche importanti funzioni sociali a prescindere dal conto economico. Oggi i Governi, dopo la caduta del muro, tendono a scaricare i costi del welfare sulle aziende private, quindi bisogna cercare di adeguarsi a questo cambiamento».
Quale consiglio dà ai giovani di oggi?
«I giovani oggi soffrono una crisi epocale e chiaramente se sono un po’ schiacciati dagli squilibri che si sono creati nella società. per i giovani è difficile inserirsi nel mondo del lavoro ed è difficile programmare il futuro. però bisogna fare una considerazione, loro oggi stanno meglio di come stava la generazione precedente quindi non è il caso di scoraggiarsi. La possibilità degli individui di costruirsi un futuro sulle proprie capacità, sulla professionalità e preparazione culturale e tecnica è molto importante, soprattutto se si vuole accedere a professioni di carattere intellettuale. Il problema non si pone per i giovani che accettano i lavori più umili, però giustamente se uno ha aspirazioni più elevate deve adeguarsi al cambiamento, non deve scoraggiarsi e deve capire che ci vuole tanta fatica e impegno, purtroppo la selezione è dura».
Oggi il marketing passa attraverso i social media e il web in generale. Quanto contano ancora le relazioni umane?
«Dalle relazioni umane non si può prescindere, è chiaro però che oggi ci sono strumenti nuovi per fare marketing, mentre prima era prevalente il rapporto interpersonale, oggi il rapporto interpersonale è importante nel medio termine, ma nell’immediato bisogna tener conto dei nuovi strumenti di comunicazione che hanno cambiato il mondo. Di questo mutamento ognuno ne deve essere consapevole».
Lei si definisce un emigrante, parola calda al giorno d’oggi…
«Gli immigrati sono sempre stati una ricchezza per i Paesi che hanno ricevuto l’immigrazione, la Germania non sarebbe quello che è oggi se non ci fossero stati milioni di turchi, italiani e spagnoli che si trasferirono lì per lavorare. Gli Stati Uniti non sarebbero la potenza che sono oggi senza l’immigrazione. i nostri conti INPS andrebbero in bancarotta se non ci fossero i contributi dei lavoratori stranieri, tante aziende italiane sarebbero costrette a chiudere se non ci fossero gli stranieri a fare il lavoro che gli italiani rifiutano e che oggi fanno gli stranieri, per esempio i servizi alla fiera di Milano che potrebbe chiudere senza, inoltre le persone che assistono i nostri ‘nonnetti’ non avrebbero sussistenza. L’immigrazione è una ricchezza».
Nella sua vita c’è anche sostegno del Terzo Mondo, ha creato un progetto per il Mozambico che ha dato da bere a 35mila persone…
«È stata un’azione di volontariato, di responsabilità sociale. L’idea è nata in collaborazione con l’Aifo (associazione che combatte la lebbra ndr.), li affiancavamo con frequenza. La Telcom ha sostenuto questo progetto per la creazione di 50 pozzi, adesso lo facciamo a livello familiare. Non possiamo distribuire utili che non ci sono».
Cosa significa per lei il cammino?
«Il cammino è un’esperienza che l’uomo moderno avverte sempre di più. Riscoprire un turismo a 4km all’ora è una sensazione stupenda che ha contribuito al grande successo del cammino di Santiago, è ovvio che anche camminare immersi nella natura attraversando luoghi ricchi di patrimoni culturali, anche questo contribuisce. Però il cammino è come staccare la spina è come lasciare dietro di sé tutto il bagaglio che ci portiamo sulle spalle fatto di monetizzazione del tempo e fatto di vincoli e doveri di lavoro, doveri familiari.
La vita moderna frenetica fatta di velocità di dinamismo e di aggiornamento continuo delle capacità tecnologiche. Fare un cammino significa ritrovare se stessi, è una forma di meditazione è una forma di riflessione sul senso della vita. Infatti molti che fanno il cammino di Santiago non lo fanno con spirito religioso ma con spirito laico. Quindi è una rigenerazione, chi fa il cammino di Santiago torna a casa diverso, è un’altra persona quando torna a casa.
È un trend in continuo sviluppo, sulla base di questo, visto che sulla via Appia Traiana c’è un patrimonio immenso di siti archeologici e di importanza storica, mete di pellegrinaggio che risalgono al quarto secolo dopo cristo, ambienti naturali sconosciuti e incontaminati. Io credo che ci sia una grossa potenzialità per poter pensare a un modello di sviluppo sostenibile. Ovviamente non risolverà tutti i problemi oggi della società e i problemi dei posti di lavoro ma potrà dare un grosso contributo su risorse che già esistono. Non ci saranno da fare quali investimenti in infrastrutture, considerato che ci sono generosi supporti economici da parte della comunità europea e dal ministero dei beni culturali, quindi è una opportunità che secondo noi andrebbe colta».
Cos’è per lei la vita?
«La vita ognuno la prende a modo suo, io posso parlare per me e io tendo a dare un senso alle cose che faccio al lavoro, all’attività agricola, al rapporto con i nipoti, al rapporto con la natura e con l’ambiente. Cerco di trovare un mio equilibrio, chiaramente non è il modo di vedere comune perché c’è chi ha altri valori e obiettivi».
La fede è rimasta nella sua vita? Quanto conta per lei l’aspetto religioso?
«Nella maturità conta sempre meno perché ci si rende conto che spesso la religione nel senso dei riti e nel senso delle chiese, ogni confessione è in gran parte una costruzione umana. Perciò la fede che uno può avere da bambino, nella maturità credo che si trasmetta in una fede che si manifesta nel rimanere stupiti di fronte alle leggi che regolano l’universo».
La sua canzone preferita?
«Vecchio Frack. A me piacciono le canzoni classiche napoletane, quando ero ragazzo le mie canzoni preferite erano quelle di Domenico Modugno, se devo mettere un sottofondo musicale però mi piacciono i classici, Chopin, Mozart».