Féminin Pluriel, network internazionale femminile nato in Francia nel 1992 da Beatrice Lanson Villat, ha la sua rappresentanza anche in Italia. Nel Bel Paese è arrivato cinque anni fa grazie a Diana Palomba, avvocato e presidente attuale della divisione italiana. Lo scopo primario è quello di facilitare le relazioni e il business tra donne in tutto il mondo. Va da sé che tanto impegno, per valorizzare la figura femminile, non poteva non sposare una causa sociale: la no profit Féminin Pluriel è infatti impegnata, in particolare, per combattere la violenza contro le donne e sostenere progetti in ambito “education”. In pratica, affianca e propone anche iniziative volte a educare i più piccoli al rispetto, bimbi o bimbe che siano.
“La mission di Féminin Pluriel mi ha entusiasmata da subito, mi piaceva molto che donne con profili diversi potessero fare squadra. All’interno dello stesso ambito lavorativo esistono già tante associazioni di categoria, nel nostro caso facciamo rete tra differenti professioni” spiega Palomba. “Sposiamo molte battaglie sociali, alcuni leitmotiv sono comuni a tutti gli Stati in cui è presente Feminin Pluriel: maggiore rappresentatività, equal pay, gender gap, sono gli aspetti che ci accomunano. E poi la filantropia: una parte del ricavato delle nostre membership sostiene cause in aiuto a donne e bambini”. Non da ultima, di fatti, spicca la serata di raccolta fondi per gli orfani di femminicidio in Italia (l’11 ottobre scorso, a Milano, alla presenza del cantautore Roberto Vecchioni).
Così, in occasione della Giornata contro la Violenza sulle Donne del 25 novembre, abbiamo intervistato Diana Palomba per conoscere da vicino questa lodevole realtà e i suoi progetti, attuali e futuri.
Uno dei vostri più importanti obiettivi è riuscire a far inserire nel Codice Penale l’omicidio di identità.
«Sì, è stata una nostra lotta dello scorso anno. Ora è stato introdotto un aggravamento della pena per chi sfregia il volto di una persona. Vediamo quindi un piccolo passo avanti.
Nel 2018, di fatti, abbiamo appoggiato la battaglia promossa e iniziata dall’Associazione “Io Rido Ancora” di Carla Caiazzo: il suo compagno le ha dato fuoco all’ottavo mese di gravidanza. Noi l’abbiamo seguita nel percorso verso le Istituzioni.
Certo, non abbiamo raggiunto tutto ciò che chiedevamo ma qualcosa, in parte, è stato recepito.
In generale, chiediamo la certezza della pena quando questi uomini commettono violenza contro le donne. E, soprattutto, che venga considerato l’omicidio di identità: anche se non ammazzi la persona, non è più la stessa. Non si può considerare come un tentato omicidio aggravato, deve essere identificato come una fattispecie a sé. Continueremo a lavorare in questa direzione».
Siete parte quindi del cambiamento, verso la creazione di nuove leggi….
«Facciamo squadra per fare delle proposte. Lo facciamo insieme a Inclusione Donna: è una rete di 53 associazioni femminili inspirata da Sila Mochi. Con loro abbiamo, ad esempio, formulato delle istanze in materia di lavoro, sia professionale che dipendente. Chiediamo maggiore rappresentatività delle donne: abbiamo presentato questa Istanza al Governo e speriamo che qualcuno la prenda in considerazione».
Vi siete battute per i 2.100 orfani di femminicidio in occasione di “In Piedi per Tutte”. È una tematica della quale spesso non si parla…
«Sì, li chiamiamo “gli orfani invisibili”, sono vittime invisibili. In occasione di quella serata abbiamo cercato di accendere i riflettori attorno a questo tema. È importante parlarne, oltre al nostro sostegno concreto: grazie ai fondi devoluti permettiamo ad alcuni di questi ragazzi di continuare a studiare.
Continuando a parlarne, inoltre, cerchiamo di smuovere sempre di più l’opinione pubblica. Gli orfani vanno aiutati, in generale. In questo caso però stiamo parlando di bambini che si ritrovano da un giorno all’altro orfani e hanno bisogno di un percorso e attenzioni psicologiche ancora più delicati: non solo sono rimasti senza madre ma hanno anche assistito alla violenza del padre contro di lei. Altrimenti c’è il rischio che si ritrovino persone violente o facili vittime di altra violenza a loro volta.
Per noi è molto importante il fronte “education”. Poter fare studiare i bambini è importante. Non facciamo beneficenza fine a se stessa: devolviamo denaro al fine di recuperare, oggettivamente, questi bambini nella società».
A proposito dell’educazione: in base alla vostra attenzione in questo campo, è più importante far crescere la consapevolezza alle bambine rispetto al loro valore o far comprendere ai bambini il rispetto dell’altro genere? Oppure le due questioni sono di pari importanza?
«Lavoriamo, assolutamente, sui due fronti. È importante che le bambine assumano consapevolezza di se stesse e quindi non si pongano come vittime passive. Dall’altra parte è fondamentale insegnare il rispetto degli altri a tutti (bambini e bambine). Da quello deriva tutto il resto.
La consapevolezza di se stessi vale anche per il bimbo: deve capire che la sua forza non è uno strumento attraverso il quale può ottenere tutto o raggiungere obiettivi meritevoli. Se sei consapevole di questo o hai ricevuto una buona educazione, non ti misuri in base alla tua forza.
Il nostro impegno quindi è l’educazione del bambino a 360 gradi: l’accettazione del diverso, il linguaggio non stereotipato e tanto altro».
A proposito di “gender gap”: tra i divari maggiori uomo donna, a parte quello del reddito, su quali questioni vi concentrate?
«Uso un termine che non amo molto ma è indicativo: “conciliazione” tra lavoro e famiglia. Si dice che noi dobbiamo “conciliare” questi differenti aspetti della vita ma gli uomini no. Il bisogno stesso di utilizzare questo termine, solo in ambito femminile, fa riflettere.
Altri temi sono la mancata (quasi nulla) rappresentazione a livello governativo, tra le Istituzioni, e questo lo paghiamo: sono gli uomini a fare le leggi per noi».
Quali gli elementi comuni tra gli Stati in cui è presente Féminin Pluriel e quali quelli differenti?
«Pensando agli Stati europei, tutto sommato ci sono elementi comuni. Inghilterra, Francia, Spagna, Italia, non sono molto differenti: il ruolo della donna è sempre rilegato a quello dell’uomo. Forse solo i Paesi scandinavi sono maggiormente “evoluti” rispetto a noi. Se pensiamo invece alla condizione della donna negli Emirati Arabi, si riscontrano altre tematiche: la donna non può guidare la macchina e tanto altro, ad esempio».
Prossimi progetti e sviluppi futuri di Féminin Pluriel Italia?
«Ora è tempo di “brainstorming”: come ogni anno a dicembre ci raduniamo per riflettere sui prossimi progetti e su quanto fatto fino ad oggi. Sicuramente continueremo a lavorare sul discorso education e abbiamo già in mente molto. Stiamo cercando di ottenere finanziamenti per un progetto nelle scuole per riflettere attorno al tema “linguaggio”. Stiamo preparando e selezionando le tutor per il progetto “Da Donna a Donna”, in collaborazione con Nicoletta Lanza: vogliamo mostrare alle studentesse e agli studenti del liceo come vive una donna di successo nella sua attività lavorativa. Vogliamo dare così spunti positivi differenti rispetto a quelli canonici.
Faremo altri progetti di fundraising e continueremo a sostenere gli orfani di femminicidio. Saremo parte del charity project di “Cuoio di Toscana”: si chiama sempre “In Piedi per Tutte” ed è collegato al territorio regionale. Stiamo aiutando la “Casa delle Donne” di Pisa, è la prima casa rifugio per donne realizzata in Toscana».
Quali donne possono aderire a Féminin Pluriel e qual è l’impegno richiesto?
«Non abbiamo una selezione di alcun tipo. Normalmente la prassi vuole che una socia venga presentata da un’altra socia. Chiediamo un curriculum per attestare che siano donne professioniste o che siano autonome nel loro lavoro, che abbiano quindi potere decisionale. Stiamo valutando però anche altri profili: se una donna si distingue per particolari meriti, non mettiamo paletti. Di base, comunque, si tratta di un network professionale.
L’impegno per le donne che partecipano non è molto: organizziamo un evento al mese, chi si trova geograficamente vicina è invitata a partecipare. Poi, in generale, chiediamo di portare idee, proposte. Non abbiamo limiti o vincoli. L’importante è che sia una partecipazione attiva, senza obblighi».