TerremoTosto +10
Tutte le storie dei bambini cominciano con un castello e una prova da superare. A Camarda, frazione de L’Aquila, ce n’era uno proprio come quelli delle fiabe: si stagliava contro il cielo e il Gran Sasso, in cima al centro abitato. Lo faceva, fino al 6 aprile 2009.
La torre quasi completamente crollata del castello di Camarda è una fra le immagini più vivide che chi scrive conserva di quei giorni di agosto di dieci anni fa, trascorsi da tardivo “soccorso” agli sfollati del sisma abruzzese. Non ricordo il momento esatto in cui decisi di partire; ricordo la crisi che vivevo in quel periodo e che, stolta, a vent’anni mi sembrava vera tragedia, mentre adesso sono in una situazione di incertezze continue e profonde ma diametralmente opposte. Tutto ciò è quasi ironico, dato che “crisi” deriva dal greco krìno, cioè “spaccare, tagliare”, e che cos’è un terremoto, se non una terra letteralmente spaccata, che si muove senza controllo?
I numeri di quella crisi li conosciamo bene, li abbiamo sentiti centinaia di volte. Trecentonove morti, milleseicento feriti, ottantamila sfollati. 5.9 Richter. Il quinto sisma più disastroso della storia del Paese. Dieci miliardi di danni stimati. Verrebbe da chiedersi che cosa significhino quei numeri oggi, una decade dopo. Ce ne ricordiamo? Ci ricordiamo anche dei numeri invisibili, delle fatiche quotidiane di chi ha dovuto non solo ricostruire quattro mura e un tetto, ma riappropriarsi, spesso lontano da casa, di una condizione di salute fisica e mentale stabile, ed è stato in questo senso abbandonato pressoché completamente?
Memoria è un termine potentissimo. Da essa dipende ogni opportunità di riscatto, ogni anelito di redenzione; redenzione in contumacia, peraltro, dato che molti dei reati di cui troppi individui si sono resi responsabili, con imperizia, negligenza, malafede, vile avidità, sono ormai in prescrizione. La memoria, però, non può e non deve andare in prescrizione. Se mai io potrò dimenticare le prime immagini che mi apparvero dal finestrino dell’autobus – il borgo di Onna raso al suolo, con solo un muro che sembrava di cartongesso a separarlo dalle nuove casette tutte identiche, quasi ci trovassimo dentro un’inquietante ripresa di Lynch –, non ho mai osato pensare al contenuto dei ricordi di chi, ventitré secondi dopo le 3:32 del 6 aprile, si è ritrovato la vita stravolta in accezioni più o meno drammatiche.
«Un incubo che sembrava non finire mai. A distanza di dieci anni il pensiero è ancora fermo lì», mi ha detto Desirée, aquilana, fortunata e fresca conoscenza di social media. Io stessa forse non avevo ancora realizzato né rielaborato quanto ciò che ho visto in Abruzzo nel 2009 mi avesse segnata: ogni tanto mi sembra di esserci ancora, sull’autobus, che dieci anni siano andati nel nulla senza che io abbia ottenuto o cambiato granché, o concluso abbastanza. Quello che so è che i giorni di Paganica e Camarda, oltre ad avermi regalato uno fra i legami che oggi considero imprescindibili per la vita, hanno rappresentato il tempo zero della mia esperienza nel mondo del volontariato e della cooperazione, che, in varie vesti e varie locazioni, non ho più abbandonato, e che rimane il mio porto salvo in ogni mare in tempesta; in altre parole, devo a L’Aquila un bel pezzetto di identità.
«Qualcosa è stato ricostruito, altre cose restano abbandonate. Ma la costante è una sola: la vita è cambiata, per tutti. Si impara pian piano a conviverci e ad andare avanti, certo… Ma che fatica». Una ricostruzione lenta, quindi, frustrante, ancora dopo anni concentrata sul privato ed estremamente rallentata sul centro storico, le scuole e gli edifici pubblici, che di fatto costituiscono la vita, la cultura e l’anima di una città, e specialmente de L’Aquila, descritta da tutti pre-sisma come una realtà florida, accogliente, pullulante di giovani e di eccellenze, di tessuto sociale e di vivacità. Secondo l’USRA – Ufficio Speciale per la Ricostruzione dell’Aquila, i lavori sul versante pubblico dovrebbero concludersi solo nel 2025 (altri sei anni!); ma senza far passare tutto questo tempo, la ripartenza della città a 360° passa attraverso la riqualificazione del suo centro, il suo commercio, il ritorno alla vita culturale: una scommessa su se stessa, insomma.
E non ci sono dubbi che gli Aquilani ne siano in grado. Quando ci preparavano per la partenza e per quello che avrebbe dovuto essere il nostro ruolo, che era pur di umile supporto e minuscola risonanza nel grande schema delle cose, è capitato che gli Abruzzesi ci venissero presentati, in maniera semplicistica e superficiale, come un popolo tendenzialmente chiuso, ruvido, rivolto su se stesso. Eppure io oggi ricordo solo la fierezza accanto alla disperazione, l’ironia brillante accanto alla delusione, gli abbracci più che la diffidenza. Ricordo la volontà di ricostruire la torre del castello delle fiabe, affinché il Gran Sasso la vedesse ancora. Ricordo le mani del signor Giovanni, sempre seduto con bastone e cappello, che stringevano le mie mentre mi diceva «Quando me riesco ad alza’ in piedi, t’o o’ faccio vede’ il Saltarello»; ricordo il caffè che la signora Domenica ci offriva sempre sul suo fornellino da campo, raccontandoci la sua vita dalle poche foto che era riuscita a salvare; ricordo gli occhi sinceri e grati dei bambini che facevamo giocare con quello che ci eravamo portati dietro o avevamo recuperato; ricordo i sogni mai infranti di F., poco più che mio coetaneo – esattamente come gli otto della Casa dello Studente e tutti i cinquantacinque universitari che persero la vita in quella notte – mentre ci mostrava le rovine della sua città.
Appunto “la generazione dimenticata”, come l’ha ribattezzata il docufilm diretto da Dario Acocella in onda ieri sera sulla Rai, cioè i giovani fra i 20 e i 30 anni che vivevano a L’Aquila al tempo del sisma e che ne hanno patito le conseguenze per molto tempo, la generazione che corrisponde alla mia in senso lato, è proprio quella che non ha mai fatto cadere la torcia della memoria. “Ricordo” e “memoria” sono stati fin qui ripetuti svariate volte non a caso, né per vezzo retorico: la speranza nel domani migliore è possibile solo se non ci si dimentica di ciò che è stato.
Chiamando in causa la meravigliosa delicatezza di Domenico Tiburzi nel suo Sotto la città – 1915, di cui sentirete parlare molto presto se non l’avete già fatto, forse potremmo dire che memoria sia “sotto di noi, come un nostro familiare, che non muore mai, che resta lì a guardarci, proteggerci e custodirci, sta lì e a noi questo basta”.
A Camarda c’era un castello delle fiabe. Il castello delle fiabe può esserci di nuovo, ma ecco la prova da superare, tutti, dieci anni dopo e sempre. TerremoTosto.
“Eccola, improvvisa, inevitabile, venire fuori la nostra umanità (…);
quel sentirsi tutti parte della stessa Terra, dello stesso destino.
E allora un pensiero, ingenuo, mi passa per la testa:
quanto sarebbe bello assistere a questa umanità, così splendente,
senza bisogno di una tragedia, e ritrovare così il senso di comunità, che ci appartiene”.
L’Aquila 3:32 – La generazione dimenticata