Francesco Riva: «La dislessia? È una potenzialità»

Francesco Riva lo sa bene. Come diceva Albert Einstein, “ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido”.

Per Francesco, infatti, è stato così. Da piccolo lo ha quasi sfiorato il dubbio di “essere stupido”. Poi, la diagnosi: è dislessico e, in particolare, discalculico. Così della sua caratteristica (perché la dislessia non è una malattia), ne ha fatto il suo punto di forza.

Oggi gira l’Italia con il suo spettacolo “DiSlessiA… Dove Sei Albert?“. Qui narra la vicenda di Giacomo, un bambino incompreso dalla scuola e dai genitori perché non “apprende” come i “bambini normali”. Con brillante ironia, l’attore riesce a far riflettere sulla dislessia, un problema sempre più diffuso ma ancora sconosciuto sia nella scuola che nella società.

Con il suo libro “Il pesce che scese dall’albero, la mia storia di dislessico felice“, invece, ha vinto il Premio Zocca Giovani 2018. Grazie a questo racconto ricorda la sua infanzia: alle elementari è un disastro, non ricorda i mesi dell’anno, confonde le lettere e non riesce a imparare le tabelline. L’ora di matematica – la sua bestia nera – la passa a disegnare, relegato in fondo all’aula. Finché arriva la maestra Diana, che capisce tutto: quel bambino non è pigro né stupido, ma dislessico e discalculico. Non studierà sui libri, ma ascoltando e, per esercitare la memoria, recitando.

Così Francesco finisce il liceo, impara tre lingue e scopre la passione per il teatro. Nel suo primo spettacolo – e ora in questo libro – ha raccontato la storia di un bambino che affrontando la dislessia ha realizzato i suoi sogni.

Abbiamo deciso di intervistarlo…

Chi è Francesco Riva?

«Sono un ragazzo di 25 anni, classe ’93, attore, scrittore da un anno, dislessico. Sono nato a Fiesole, sopra Firenze e cresciuto ad Arese (appena fuori Milano). Mi sono trasferito per 3 anni all’Accademia di Roma e poi sono tornato a Milano».

Com’è stata la tua infanzia? Hai avuto difficoltà a causa della dislessia?

«Ho avuto sicuramente delle difficoltà. Quello che mi fatto più soffrire sono stati gli episodi di bullismo da parte dei miei compagni ma sono stato vittima di pregiudizi anche da parte di alcuni insegnanti.

Ho vissuto un periodo in cui la Legge 170 non era ancora stata attuata. Invece, dal 2010, questa legge ha stabilito tutti i diritti dei DSA e gli ha dato un connotato effettivo, legittimandone l’esistenza.

È stato anche un raggiungimento di tipo ideologico: è la prima legge ad affermare che tutte le persone apprendono in una maniera diversa. Io però, essendo del ’93, non ho fatto in tempo a viverne l’effetto.

Ho avuto insegnanti buoni e cattivi, l’ho scritto anche nel libro. Alcuni mi capivano molto e mi aiutavano. Altri mi escludevano. Pensa che sono dislessico, disgrafico e disortografico ma, in particolare, gravemente discalculico, ho proprio problemi nella matematica. Questo era il mio tallone d’Achille.

L’insegnante di matematica, alle elementari, mi diceva: “Disegna, tanto sei un peso per la classe”… quindi ho disegnato tantissimo. Immaginati che mano splendida avevo dopo 8 anni di scuola. Poi, alle superiori, è arrivato l’insegnante che è stato in grado di farmi recuperare tutto».

Come hai scoperto di essere dislessico e discalculico?

«Ho avuto una diagnosi a 7 anni. Mi hanno detto subito di essere dislessico e gravemente discalculico. Sai, a quell’età, vedendomi diverso dagli altri, ho iniziato a pensare di essere stupido. Invece, con questa diagnosi, ho capito cosa succedeva dentro di me e nella mia testa. Ma non solo, mi è stato anche detto che il mio quoziente intellettivo era superiore alla media. Quindi non ero stupido, ero addirittura molto intelligente.

Per me è stato un motivo di orgoglio. Certo, la diagnosi è stata solo un punto di partenza, dal quale bisognava iniziare a costruire le fondamenta di un metodo, degli strumenti compensativi e capire come adoperarsi».

Quindi alcuni tuoi insegnanti hanno capito come comportarsi con un bambino dislessico, altri no…

«Esatto. Pensa che mia madre ha poi scoperto di essere dislessica grazie a me, mio fratello Federico pure. Quindi si può parlare di familiarità».

Nonostante la Legge 170 abbia dato valore ai disturbi di apprendimento in quanto tali, alcuni genitori pensano sia un’esagerazione mentre “prima non c’erano tutte queste diagnosi e tutti i bambini andavano avanti lo stesso”… cosa risponderesti a queste persone?

«Non posso dire i primi pensieri (ride ndr.). Diciamo solo che, in realtà, una volta non si sapeva cosa fosse la dislessia. Mia madre, che è del ’63, ha subito l’ignoranza oggettiva degli insegnanti riguardo questo argomento. Nessuno sapeva cosa fosse la dislessia.

A volte, dopo il mio spettacolo, mi si avvicinano degli adulti. Ricordo ad esempio una signora di 60anni in lacrime: “Signora le ha fatto così schifo lo spettacolo?”, ho chiesto. Lei invece mi ha spiegato: “Per anni mi sono sentita stupida, non capita. Ho lasciato la scuola prima delle superiori e solo ora ho capito di essere dislessica”.

Insomma, prima non si sapeva cosa fosse mentre ora si conosce. L’argomento è supportato da una ricca ricerca scientifica. Non lo dico io, parliamo anche in percentuali: la dislessia si ritrova nel 5% della popolazione mondiale, in Italia nel 4/4,5%. Questi sono i dati ufficiali, non sappiamo quanti realmente siano dislessici.

Intanto bisogna dire che la dislessia non è una malattia, è solo una caratteristica. Non c’è una cura, deve esserci invece un’attenzione a fornire strumenti giusti, a trovare strategie corrette e soprattutto avere un metodo molto universale: un metodo che funziona per il dislessico, sicuramente funziona anche con gli altri, questo perché stiamo avendo a che fare con una persona che, per eccellenza, ha disturbi di apprendimento».

Insomma, consigli agli insegnanti di partire con una modifica dell’insegnamento, pensato per una persona dislessica, così potrebbe andare bene per tutti…

«Brava, forse sto dicendo delle utopie ma non è impossibile. Spero sia possibile perché va fatta. Molti insegnanti, in autonomia, già lo fanno».

Cos’è per te la dislessia?

«Ho scritto una filastrocca nel mio libro, Filastrocca DSA. Qui, dico che per me DSA significa dislessico, sognatore, attore ma spero che ognuno trovi il suo significato.

Io credo che la dislessia sia una potenzialità perché in questo l’ho trasformata e, di fatto, lo è. È un modo diverso di concepire e vedere tante cose, crea un pensiero divergente, alternativo. Non sono caratteristiche da buttare via, anzi».

Infatti ho visto che hai condiviso questa frase: “Gli ostacoli possono diventare un’opportunità per crescere e farci vincere nella vita”…

«Sì, intendevo questo discorso. Nel mio libro ho raccontato la mia storia di vita. Racconto questo: prendere un ostacolo e trasformarlo in un’occasione per crescere. È stato così per me, come per tanti altri. Non credo di essere l’unico».

Cosa consigli a chi scopre o ha il dubbio di essere dislessico e cosa ai genitori?

«Dico sempre che ci sono tanti strumenti compensativi. Il primo è l’autostima. Quindi bisogna cercare di lavorare sulle proprie capacità. È vero, ci sono tanti deficit nella dislessia ma anche tante capacità. Bisogna cercare di riconoscere il valore di se stessi: se noi per primi non lo facciamo, gli altri stenteranno a credere che sia possibile.

I genitori devono prima di tutto alimentare i sogni dei ragazzi. Forse sembra banale quello che dico, ma non lo è per niente. I ragazzi sono fatti di sogni, i sogni sono ciò in cui si riconoscono e si identificano. Ci identifichiamo in un sogno, in qualcosa che vogliamo diventare o fare. Quindi credo sia importante alimentare questo. Non smettere mai di sognare solo perché abbiamo un problema.

Io ora lo racconto con il sorriso, ma la dislessia mi ha portato una grande sofferenza. Anche io avrei potuto decidere di non lottare più. Invece ho continuato a sognare. È importante buttarsi e vivere ciò che ci capita come opportunità di crescita. È sempre una questione di punti di vista dai quali guardiamo le cose».

Sei un artista a 360 gradi tra teatro, cinema, danza, armi da fuoco… nel futuro ti vedi sempre così eclettico o hai una strada in particolare che vuoi seguire?

«Penso che il lavoro dell’attore sia fatto di tante caratteristiche. Si può occupare di tanti aspetti nel suo lavoro. Il teatro non lo mollerò, è da dove nasco. Così come il cinema, lo porto avanti in parallelo insieme al teatro. Sono due mondi che mi affascinano tantissimo. E perché no, scriverò ancora. Sto già scrivendo una seconda opera. Insomma, mi vedrei sempre poliedrico».

Qual è la tua canzone preferita?

«Direi “Vieni via con me” di Paolo Conte, canzone del mio spettacolo che mi piace molto».

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