Spesso c’è confusione attorno alle professioni sanitarie che operano nel campo della prevenzione e delle riabilitazione si parla di mancanza di tutela in più direzioni, tra i professionisti si parla di abusivismo, tra i pazienti si parla indifferentemente di massoterapisti, massofisioterapisti, fisioterapisti, fisiatri, posturologi, chinesiologi…
In questa “giungla” sanitaria finalmente sono stati istituiti degli albi per cercare di delineare e disciplinare questi settori. Laura, David e Mattia parlano a tutto tondo di questa novità e del loro lavoro di fisioterapisti
Ognuno ricorderà il 2018 per un motivo diverso: chi si è sposato, chi è diventato genitore, chi è diventato maggiorenne, chi ha comprato un’auto nuova, chi ha firmato un contratto a tempo indeterminato e c’è anche chi ha visto la nascita del proprio albo professionale che riconosce, tutela e disciplina il proprio lavoro.
Mi riferisco alla legge che ha previsto la costituzione dell’Ordine delle Professioni Sanitarie Tecniche, della riabilitazione e della prevenzione e all’istituzione di 19 nuovi albi delle professioni sanitarie, grazie al decreto attuativo del Ministro della Salute, datato 13 marzo 2018.
Tra questi, dal 1 luglio sono ufficialmente iniziate le iscrizioni all’albo dei fisioterapisti, con il quale molti professionisti si auspicano, finalmente, di regolamentare e diminuire il “Far West” intorno al loro settore lavorativo e per i cittadini è ora possibile verificare se il professionista a cui si rivolgono sia realmente abilitato, in quanto tutti i fisioterapisti devono essere iscritti all’albo e all’ordine professionale.
A distanza di pochi mesi dall’introduzione di queste novità, sono andata da Laura, David e Mattia per avere il loro parere a riguardo, per addentrarmi nel loro mestiere e per capire cosa c’è dietro alla figura professionale del fisioterapista.
La prima domanda che gli faccio ovviamente riguarda l’albo e se Mattia mi dice di aspettare e riparlarne tra un po’ perché «per ora si paga e si compilano scartoffie burocratiche, speriamo a buon rendere», Laura è più propositiva «l’albo forse riuscirà a ridurre il fenomeno dell’abusivismo soprattutto riguardo al numero di persone che lavorano presso studi privati».
Chiedo quindi se c’è realmente tutto questo abusivismo di cui si sente parlare anche nel loro ambito; Mattia me lo conferma anche se ammette che non ha avuto molte occasioni per confrontarsici in prima persona probabilmente perché, come mi spiega Laura, dipende dal luogo in cui si lavora «in strutture pubbliche o private convenzionate il personale viene controllato al momento dell’assunzione , non credo quindi che ci sia abusivismo in questi casi».
David mi conferma questo fenomeno: «L’abusivismo è sicuramente presente, penso che non sia una novità per nessuno. Spesso sono i pazienti stessi a raccontarmelo. Quello che mi preoccupa di questo fenomeno tuttavia, più che il fatto che possa essere messa a repentaglio una professione è la sicurezza del paziente. Sulla salute non si scherza e chi ha necessità di sottoporsi a cure deve sapere di potersi fidare al 100% del professionista al quale si rivolgerà. Solo se si comprende che l’abusivo rappresenta un pericolo in primis per il paziente, il fenomeno può essere ridimensionato ed arginato».
Anche Laura è di questo parere «di persone che si spacciano per fisioterapisti ce ne sono molti, forse considerano il nostro lavoro “semplice” o forse è solo un modo per accaparrarsi un’altra fetta di mercato. Per me è solo un inganno ai danni di persone che non stanno bene e che stanno cercando un professionista cui affidarsi. Sono 13 anni che sono una fisioterapista e in questo arco di tempo ho conosciuto molti pazienti che prima di giungere da me erano stati in cura da altre persone non qualificate. Sinceramente è una cosa che mi infastidisce sempre perché fare fisioterapia non è solo muovere un arto ma è anche conoscere la patologia e sapere cosa si può fare o non fare con una persona e comunque agire sempre razionalmente».
Questo concetto è ben riassunto nelle parole di David che mi parla di tre ingredienti indispensabili nel loro lavoro: «Non sono sicuro esista una ricetta ma mi viene da dire che un bravo fisioterapista ha a disposizione tre ingredienti da miscelare nelle giuste dosi: il cuore, la testa e le mani. Il cuore è l’empatia col paziente, l’umanità; la testa simboleggia le conoscenze teoriche ed il bagaglio esperienziale che ognuno porta con sé; le mani rappresentano la parte più pratica della professione».
Chiedo quindi a Mattia di farmi un elenco di quali caratteristiche debba avere un fisioterapista completo: «Saper ascoltare, non aver pregiudizi, avere una buona forma fisica, essere capace di accettare fallimenti ed errori come occasioni da cui imparare. Inoltre deve avere molta pazienza ed elasticità mentale perché un fisioterapista è sempre a contatto con persone in difficoltà ed essere troppo quadrati ha l’unico risultato di alzare un muro, tra te e il paziente, che vanifica tutto il lavoro. Ma la caratteristica più importante di tutte è saper sorridere».
Laura conferma e mi rivela un piccolo segreto, un “trucco del mestiere”: «Bisogna mostrarsi sicuri di sé anche quando si fa qualcosa “per provare e vedere come va”, perché il paziente deve sempre sentirsi al sicuro. Questa è una cosa che dico sempre ai tirocinanti, dico loro di non far vedere che hanno paura di far fare un esercizio perché i pazienti se ne accorgono e poi non riescono ad affidarsi completamente» .
Vedo David, che in passato è stato un tirocinante di Laura, annuire con la testa sorridendo pensieroso, mentre Laura continua aggiungendo all’elenco di Mattia un’altra caratteristica «bisogna avere tanta, tanta umanità: per i pazienti più complessi si tratta di un vero e proprio cambio di vita per cui bisogna essere in grado di affrontare i loro momenti di sconforto e la loro conseguente mancanza di motivazione, bisogna essere in grado di trovare il giusto modo di spronare adeguatamente ogni paziente».
Dai loro discorsi capisco che il mestiere del fisioterapista non è solo un dare, ma è anche un ricevere infatti la domanda successiva, quasi obbligatoria è cosa hanno imparato dai pazienti. «Lavoro in ambito neurologico e personalmente non è stato facile, soprattutto agli inizi, fronteggiare alcuni tipi di patologie e sofferenze ma col tempo ho imparato ad accettare e rimanere positivo anche in situazioni spiacevoli. A volte ci si preoccupa per motivi banali: vedere la forza con la quale alcuni pazienti e i loro familiari reagiscono di fronte ad una malattia o ad un trauma fa sicuramente riflettere».
Anche Mattia concorda con il pensiero appena espresso da David e mi spiega che lui ha imparato che «il corpo umano è una cosa fantastica, ma quando si rompe la vita ti cambia proprio tanto; saper apprezzare quello che ognuno di noi ha invece di rimpiange quello che si perde è una cosa da tenere sempre a mente. Negli anni ho conosciuto tante persone che hanno saputo risollevarsi e trovare motivi per andare avanti e vivere la loro vita anche dopo il trauma: questo deve essere di esempio a tante persone che sempre troppo spesso tendono a crollare e a chiudersi in loro stesse alla prima difficoltà. Ma forse la cosa più bella che mi hanno insegnato i pazienti è che è possibile donare sorrisi e momenti di felicità anche nella difficoltà».
Laura mi dice che ogni giorno si rende conto che «i pazienti sono una forza della natura! Ognuno di loro è una sorpresa sia per le risorse che ha anche nei momenti più duri sia per la capacità che mostra nell’affrontare la sua nuova situazione. Ti faccio un esempio concreto di quello che intendo: una volta tu stessa mi hai detto che la tua malattia invalidante non è una “sfiga”, ma è una continua opportunità che ti permette di conoscere un sacco di persone e di situazioni nuove».
Tante piccole lezioni di vita quotidiane impreziosite dalle belle amicizie che nascono al lavoro nelle settimane di ricovero ma che poi si coltivano durante tutto l’anno e sfociano in veri e propri legami amicali afferma David, le cui parole trovano conferma nel racconto di Mattia «qualche anno fa stavo trattando un paziente tetraplegico a cui ero, e sono tutt’ora, legato da una profonda amicizia, e quindi con cui sono molto in confidenza. Non ricordo più come era nato il discorso ma siamo finiti a parlare di argomenti personali e gli chiesi se non avesse paura (non specificai di cosa…) lui ha capito al volo la fine della domanda che avevo lasciato in sospeso e mi rispose: “No Mattia, ricordati che se non hai paura non hai coraggio!” Ecco, vedi? Ancora una volta un esempio di come il mio super amico, che ha da sempre un bellissimo modo di fare e di approcciarsi alla vita nonostante la disabilità, mi ha insegnato qualcosa di prezioso».
Poi mi rivela che per lui essere fisioterapista significa guadagnarsi da vivere aiutando le persone «certo a volte non è semplice e ci sono sempre da risolvere dei problemi, però queste amicizie uniche e vedere la soddisfazione sui volti dei pazienti per i risultati raggiunti dono due momenti in cui mi si riempie il cuore e mi fa stare decisamente bene, dimenticando ogni fatica. Mi ritengo molto fortunato a fare quello che faccio, sono orgoglioso di dire che sono un fisioterapista».
Da queste parole traspare proprio che essere fisioterapisti è uno stile di vita, non un lavoro. Essere e non fare, infatti Laura afferma che per lei essere fisioterapista significa «essere un’opportunità per i miei pazienti di riprovarci. Spesso con i pazienti neurologici bisogna intraprendere un percorso fatto di tentativi e di piccole conquiste quotidiane che gli permettono di tornare a sperare di avere una vita il più normale possibile. Per me fare parte di questo progetto e di queste conquiste quotidiane è un grande privilegio».
Da paziente posso dire che questo dare-ricevere di cui mi parlano i fisioterapisti, a sua volta è reciproco perché noi pazienti non riceviamo solo cure mediche per migliorare e guarire dai nostri problemi, ma questi ragazzi, e in generale la figura professionale del fisioterapista, diventano come una famiglia a cui ci si appoggia anche emotivamente.
Mi ha sempre colpito il giudizio di un amico che li definisce come “i suoi angeli” e il motivo è quello che mi spiega Laura «spesso passiamo talmente tanto tempo con i pazienti (a volte anche mesi, per non parlare dei professionisti che hanno palestre o studi loro e offrono cicli di ginnastica anche annuali) che per loro diventiamo come parenti stretti, gli viene spontaneo aprirsi con noi e raccontarci molti particolari delle loro vite. Molti pazienti hanno bisogno di parlare e che qualcuno li ascolti: ecco che noi diventiamo confidenti. Diventiamo figure importantissime nelle loro vite, e di certo non solo per l’aiuto “fisico “ che gli diamo».
Qualche giorno fa ho letto un articolo sull’esperimento di corsi di “Educazione ai Sentimenti” rivolti a ragazzi di alcune sezioni delle scuole superiori della regione piemontese. Essi (ma non tutti a mio giudizio, “fare di tutta l’erba un fascio” è una frase che descrive bene il mio pensiero) sono definiti “nativi digitali” e sono accusati di incapacità di empatia e di analfabetismo affettivo.
Questa notizia mi ha lasciato perplessa e mi sono venute in mente le parole di Laura sull’importanza dell’empatia nel loro lavoro, quasi un paradosso a giudicare dal numero di matricole che vorrebbero iscriversi a Fisioterapia in università: «La teoria dice che per prima cosa bisogna essere in grado di creare un rapporto di fiducia col paziente, se lui non si fida di te difficilmente riuscirà a dare il meglio. Instaurare un rapporto empatico sarebbe l’ideale ma a volte è difficile, non farsi coinvolgere emotivamente spesso è impossibile visto quanto tempo passiamo con loro e tutte le confidenze che ci fanno. Per alcuni di loro diventiamo una delle persone più importanti della loro vita durante il ricovero e come si fa a non farsi coinvolgere?!».
In Laura vince quella dolcezza materna tipica della sensibilità femminile, anche David e Mattia concordano sull’importanza di sviluppare empatia. Quest’ultimo precisa: «Se si vuole ottenere i migliori risultati un po’ di empatia ci vuole. Spesso lavoriamo con persone in uno stato di salute grave, per la prima volta a contatto con la disabilità, disorientati, confusi o spaventati, e l’obiettivo è farli stare meglio sia dal punto di vista fisico che mentale quindi bisogna saper gestire tutti gli aspetti di questa persona.
Il legame con le persone che tratti è inevitabile; passi molto tempo a contatto con una persona che ha bisogno e il tuo dovere è aiutarla: è nella natura dell’uomo costruire rapporti di fiducia. Quando lavori pero, è importante concentrarsi e non farsi trasportare dal legame emotivo altrimenti si rischia di non essere obiettivi, lavorare di impulso e magari essere meno lucido solo perché sbagli prospettiva da cui guardare le cose. Io ho tantissimi pazienti a cui voglio un bene dell’anima, siamo diventati amici e spesso, dopo tanti mesi di riabilitazione passati a stretto contatto, ci ritroviamo o ci sentiamo per telefono anche solo per una risata; ma quando lavoro cerco di dare il massimo come fisioterapista, non troppo come amico, sono convinto di poterli aiutare molto di più cosi. Poi ti assicuro, e mi conosci, io sono il primo a ridere e scherzare con i miei pazienti perché mi piace un sacco strappare loro un sorriso e far sì che si sentano a proprio agio».
Capisco che dietro il loro sorriso e il loro essere amici dei pazienti c’è grande serietà e professionalità; lo capisco dalle parole di Laura, David e Mattia e devo ammettere che, rileggendo l’intervista prima di mandarla alla direttrice, con le loro parole sono riusciti a strapparmi un sorriso a distanza!