Ci sono molti tipi di case ma a Busto Arsizio ce n’è una speciale: è la casa del Pime, una casa che accoglie molti giovani che tra lavoro e riflessioni diventano come una seconda famiglia. Non importa da dove provieni e i motivi per cui sei lì, ciò che conta sei tu stesso, e alla fine di quell’esperienza esci dal cancello già sapendo che presto tornerai perché tra quelle quattro mura ci hai lasciato un pezzo di cuore.
Tra le proposte estive che il Pontificio Istituto Missioni Estere offre a tutti coloro che vogliono avvicinarsi al mondo missionario c’è quella di un campo incontro-lavoro presso la casa “Sant’Alberico Crescitelli”, la sede che il Pime ha nella città di Busto Arsizio. Non è un caso se la casa bustocca è considerata come la più sociale perché ci sono sempre un gran numero di persone che frequentandola, da dentro come volontari o da fuori come donatori e acquirenti, contribuiscono al sostentamento di numerose missioni sparse in tutto il mondo.
Il campo di incontro-lavoro da più di trent’anni è un appuntamento abituale di fine agosto per giovani e meno giovani: ogni anno, infatti, più di cento persone, dai 17 anni in su e provenienti da tutta Italia, si ritrovano insieme a vivere un periodo durante il quale non solo si è a servizio delle missioni e del prossimo ma, soprattutto, si è alla scoperta di chi ti sta intorno e alla riscoperta di sé stessi.
In questa esperienza di condivisione e di collaborazione con persone di tutte le età, ognuna con la sua storia e con il suo bagaglio culturale, si impara ad allontanarsi dalle abitudini e ad apprezzare la diversità che non è un ostacolo ma si trasforma in arricchimento personale. Questo è dovuto alla completa interculturalità del Pime capace di riunire sotto lo stesso tetto cristiani, musulmani, buddisti, atei, padri missionari, laici, suore e seminaristi, italiani, sudafricani, cambogiani, cinesi, bangladesi…
Viene da chiedersi come possono convivere per dodici giorni culture e modi di pensare così diversi tra loro, ma ben presto si scopre che la risposta si trova insita nella stessa domanda: persone con età, quotidianità e vissuti completamente diversi si ritrovano qui inizialmente per uno scopo missionario comune ma dopo poco si abbandonano le convenzioni, la diversità diviene stimolo per migliorarsi, una risorsa preziosa per arricchire il proprio pensiero, e il lavoro diviene il pretesto per creare relazioni e fare nuove conoscenze. Parteciparvi è accettare di mettersi in gioco a 360° per farsi scombussolare interiormente, per tornare alla propria vita con occhi nuovi e con tanti nuovi amici; il tutto condito dalla sicurezza di aver dato un aiuto concreto alle missioni.
I campisti che si iscrivono lo fanno con motivazioni diverse: chi arriva per curiosità, chi è stato costretto a parteciparvi come “punizione” per brutti voti scolastici, chi è un veterano e non rinuncia a questo appuntamento fisso, chi è stato trascinato da amici o fidanzati, chi è venuto per avere del tempo per sé, chi è stato spinto dal basso costo di partecipazione, chi per caso ci è capitato, chi ha bisogno di cambiare, chi, giunto per accompagnare i figli, ha deciso di fermarsi e c’è anche chi è “scappato” di casa, come mi racconta Antonio: «Vivo in Campania dove ho una casa, una famiglia e tanti amici. Qualche tempo fa una figura essenziale della mia vita è venuta a mancare, il bisogno di cambiare aria, di fare un’esperienza nuova, di staccare la spina erano necessità sempre maggiori… così appena ho visto la possibilità di sfuggire un attimo dalla sua ombra, sono saltato sul treno e sono partito. Sono arrivato a Busto Arsizio completamente vuoto, senza nessuna pretesa e senza aspettarmi alcunché. Ero convinto che una volta lì non avrei conosciuto nessuno al di fuori dei discorsi di circostanza, mi chiedevo quante persone avrei veramente conosciuto bene e mi domandavo se quelle stesse in futuro si sarebbero ricordate di me. Ad essere onesto alla fine non mi interessava molto questo, il mio era solo un volermi allontanare da tutto e da tutti. Invece nulla è andato come avevo pensato. Ho conosciuto tantissime stupende persone che mi hanno fatto scoprire una nuova famiglia e una nuova casa».
Le giornate al campo seguono una formula semplice che interseca riflessioni personali e condivisioni di gruppo, testimonianze e incontri con la comunità, lavoro e divertimento, collaborazione nelle piccole mansioni quotidiane e condivisione degli spazi. Le mattine la routine si mette in standby per lasciare posto a sé stessi aiutati da dinamiche e riflessioni su un tema che viene sviscerato da più punti di vista nel corso del campo; i pomeriggi si formano squadre di lavoro: alcune “escono” con camion ed auto per sgomberi di appartamenti e per raccogliere mobili, libri, elettrodomestici, vestiti appartenuti a persone che li vogliono donare, altre lavorano all’interno della struttura come supporto ai volontari che gestiscono il mercatino dove vengono venduti a un prezzo simbolico gli oggetti recuperati in buone condizioni. Alla sera si sta tutti insieme tra balli, giochi e chiacchiere. I campisti sono suddivisi in gruppi che a turno svolgono mansioni semplici, apparentemente banali, ma non scontate come lavare le pentole, servire il cibo durante i pasti o raccogliere l’immondizia.
Come ricorda il nome stesso, Pontificio Istituto Missioni Estere, il Pime ha come prerogativa le missioni estere, l’uscita verso i più bisognosi, l’incontro con il prossimo; è quindi curiosa la scelta di quest’anno della tematica “Rincasare”.
Una chiusura?
Un passo indietro?
No, si è sentito il bisogno di fermarsi, guardarsi dentro per poi ripartire verso l’esterno. In linea con la tematica anche la scelta di quest’anno di non sostenere progetti esteri ma di lavorare per sostenere le spese di ristrutturazione e di adeguamento degli spazi della stessa casa bustocca in modo da renderla sempre più accogliente per i giovani che si spendono qui per aiutare le popolazioni bisognose in tutto il mondo.
Pensando a cosa fosse casa per me, mi sono ritrovata a dire che per me casa non è tanto l’edificio fisico, la house come la intendono in Inghilterra, ma è quel legame che si crea con certe persone con cui mi sento totalmente a mio agio, cioè la home degli inglesi con cui appunto denotano l’ambiente familiare come nucleo affettivo in cui sentirsi accolti e ritornare sempre. Le persone che formano la nostra famiglia, non necessariamente sono quelle di sangue, sono il nido da cui partire, scoprire ciò che c’è attorno a noi e poi ritornare sapendo di essere accolti a prescindere da tutto. Un po’ come la “homepage” dei siti internet, la pagina iniziale da cui si parte per navigare nel sito e in cui si ritorna sempre come punto di riferimento da cui si snodano altre pagine.
Lorenzo invece mi dice che quando pensa alla parola “casa” si immagina: «Un luogo fisico dove mi trovo a mio agio, senza aver brividi e senza sudare freddo. Un luogo dove non mi sento agitato e spaventato per qualsiasi cosa io faccia. Un luogo sicuro dove non sono osservato e giudicato in modo distruttivo da qualcuno. Casa deve essere un posto dove se fuori fa freddo e c’è la tempesta, dentro si può stare a maniche corte perché c’è il calore di un posto sicuro e accogliente: sicuro perché ti piace e lo ritieni tuo, accogliente perché al suo interno ritrovi persone che ti vogliono bene e dimostrano ogni giorno quel bene per sé stessi e per gli altri. Penso infatti che se per primi non si ama sé stessi sia impossibile amare gli altri. “Casa” può anche essere un posto che si trova dall’altra parte del mondo di dove vivi solitamente, “casa” è dove senti emozioni più forti e diverse dal solito che ti fanno capire di essere nel posto giusto, “casa” è dove vorresti vivere tutti i giorni della tua vita insieme alle persone alle quali si vuole bene. Tutti questi valori li ho ritrovati tra le mura del Pime quindi per questo motivo per me Pime è casa. Al Pime trovo sempre gusto a ritornarci, mi sento sempre accolto, so di poter stare a maniche corte: questo è il miglior modo di sentirsi a casa».
Antonio continua la sua testimonianza rivelandomi cosa è casa per lui: «“Casa” è essere parte di qualcosa, “casa” è non sentirsi mai esclusi, “casa” è un sorriso, “casa” è un saluto di prima mattina, “casa” è dove non ti senti mai fuori luogo, “casa” è nelle braccia di un amico, “casa” è tra le risate con gli amici. Il Pime è “casa” perché riesce a riunire persone con idee diverse che da paesi e nazioni diverse con differenti religioni e culture; il Pime è “casa” perché mette tutti sullo stesso piano e fa sentire parte di un grande progetto. Il Pime prima di essere casa è famiglia, un luogo sicuro e confortevole dove si è certi di poter sempre tornare».
Come insegna l’esperienza di Antonio, al campo del Pime si arriva spinti da diverse e soggettive motivazioni ma alla fine dell’esperienza si torna alla propria quotidianità cresciuti interiormente con la bellezza di collaborare per uno scopo comune, di condividere idee, spazi e tempi, la scoperta di aspetti personali che prima non si riconoscevano e tanta voglia di ritrovarsi per stare nuovamente insieme!
Questo percorso estivo non si conclude con agosto ma ritorna durante l’anno. Da ottobre a giugno, una volta al mese, infatti, sono programmati dei weekend durante i quali si riassapora il clima e le attività del campo! Queste “giornate di lavoro” iniziano il sabato sera con una pizza insieme e a seguire un percorso di riflessione che si sviluppa durante l’anno; la domenica mattina con la preparazione, proprio a partire dalla scelta della tematica in base alle esigenze dei campisti presenti, del campo dell’estate successiva e la Santa Messa; nel pomeriggio si riparte sui camion per il lavoro di raccolta nelle case.
Un appuntamento mensile per far ritorno a casa, ricaricare le batterie e ripartire, perché, prendendo in prestito le parole del giornalista Dino Basili: “Il viaggio perfetto è circolare. La gioia della partenza, la gioia del ritorno”.