“Come vi siete conosciuti tu e Federico?”
“L’ho conosciuto in galera”.
Basta questa premessa per ribaltare i ruoli e far sì che gli sguardi vadano a frugare cercando i dettagli, i segni evidenti che confermano senza ombra di dubbio che il delinquente è lui. Punto.
Basta guardarlo e si capisce a colpo d’occhio che il galeotto è lui, quel Federico Corona con i tatuaggi malamente camuffati sotto la camicia, che nonostante tenti di darsi una parvenza di credibilità è un avanzo di galera, nel senso che per la galera ci è transitato, seppur da direttore del giornale scritto dai detenuti, quelli veri. Dettagli.
Era la nostra prima volta insieme dopo l’esperienza del carcere e Federico si è fidato, mi ha seguito camminando sul cornicione – senza guardare in basso, come mi ero raccomandato – e ci siamo ritrovati a Vittoria, in provincia di Ragusa, all’istituto comprensivo Portella della Ginestra. Non in un giorno qualsiasi, non poteva essere.
“Seguimi e non preoccuparti, gli avevo detto, andiamo a braccio”.
Davanti a noi una platea di ragazzi ha preso posto, in ordinata confusione, sotto l’occhio vigile delle docenti che lasciavano trasparire molta più ansia dei loro studenti.
Sguardi. Occhi che scrutano gli ospiti, occhiate di intesa e sguardi che impartiscono disposizioni. Sguardi che si incrociano per tranquillizzare, carezzare e dire che sì, sta andando tutto bene.
Siamo già immersi negli sguardi quando ci rendiamo conto che no, non è un giorno qualsiasi: è l’anniversario della strage di Capaci. Ce lo ricorda il sindaco di Vittoria nel suo intervento, e mentre lo ascolto mi rendo conto che è una delle due date che mi hanno segnato. L’altra è stato l’attacco alle Torri gemelle. Di entrambe ricordo esattamente dov’ero e cosa facevo mentre la notizia mi insegnava per sempre cos’è la paura.
Quel 23 maggio eravamo a Vittoria da incoscienti, per parlare di pena e riabilitazione, senza alibi, coscienti che il carcere non è un argomento da Bar dello Sport, come il calcio. Non appassiona, non alimenta discussioni, non ci sono allenatori e non ci sono trofei da vincere. È un tema che rimane imprigionato – appunto – tra gli addetti ai lavori. Ci vuole coraggio a parlarne, a mettersi in gioco ribaltando i ruoli.
Parlare di sbagli, cadute e possibili risalite a ragazzi che assimilano ogni singola sfumatura è una responsabilità e se ne avverte il peso. Occorre adeguare le parole, pesarle, velocemente e senza titubanze, perché gli occhi scavano e cercano risposte immediate. Anche quegli occhi lucidi dell’ultimo banco che sanno cos’è un colloquio in carcere.
E se a promuovere un dibattito incentrato sulla galera è un istituto che si trova ai margini, allora significa che c’è speranza, quella che ci hanno trasmesso con i loro sguardi i ragazzi e le docenti di una scuola di frontiera che ha avuto la temerarietà di accogliere un ex detenuto che scrive di carcere e un giornalista che assomiglia a un galeotto. Incuranti del fatto che quest’ultimo fosse il fratello di quell’altro Corona. Ordinaria confusione, straordinario coraggio.
Vista da un’altra angolazione: biografia di Federico Corona
Federico Corona nasce a Milano nel 1988 da genitori catanesi. A 24 anni diventa giornalista professionista e comincia a occuparsi di progetti editoriali sul web, tra cui un innovativo magazine digitale interamente redatto dai detenuti e di cui è ideatore e direttore. Da freelance ha collaborato con testate online e cartacee come Panorama, Il Fatto Quotidiano e Sportmediaset, occupandosi di attualità, sociale, giustizia e sport.