Quanta delicatezza e coraggio ci vuole per raccontarsi, quando la propria storia è dolore che colpisce nel momento più gioioso della vita: la nascita di un figlio. Un figlio desiderato, malato di fibrosi cistica.
Un viaggio di cambiamenti continui tra ciò che si è stati, a ciò che si è diventati, anche grazie alla malattia. Un percorso di verità, di rifiuto e accettazione, di odio e amore. Francesca Farma, donna, moglie e mamma, che con amore e speranza, racconta la sua vita nella malattia di Davide, suo figlio. Da una decina d’anni ha iniziato a fare la volontaria per la Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica, da 5 ha aperto la Delegazione di Tradate Gallarate (provincia di Varese).
Iniziamo dal principio. Quando ti sei sposata che donna eri? Quali erano i vostri progetti di vita?
«Mi sono sposata a 27 anni, due anni dopo essermi laureata. Stefano ne aveva 30. Ci siamo conosciuti molto giovani, avevo 22 anni, all’università, frequentavamo chimica e tecnologie farmaceutiche. Che donna ero… sono cresciuta con un fortissimo senso del dovere e con l’idea di dover fare sempre la cosa giusta, che spesso identificavo con ciò che gli altri si aspettavano da me. Per me era importante riuscire a raggiungere anche gli obiettivi più difficili che mi ero posta. Sono sempre stata molto competitiva.
Quindi ero una specie di panzer: mai un esame a settembre alle superiori, facoltà difficile di 5 anni (ai tempi non erano tantissime), laureata una sessione fuori corso (mio papà al primo anno vista la difficoltà mi aveva concesso di mantenermi fino ad una sessione fuori corso, ovviamente mi avrebbe mantenuto anche oltre, ma per me quello rimaneva l’obiettivo). Adoravo quello che studiavo. Sembra impossibile ma in terza elementare nei pensierini avevo scritto che da grande volevo inventare farmaci. All’università stavo realizzando il mio sogno e, anche se sembra incredibile, riuscivo pure a divertirmi!!
Nel frattempo mi sono innamorata di Stefano. Dopo la laurea ho trovato in fretta lavoro (6 mesi e subito con contratto a tempo indeterminato, sembra impossibile adesso), e ho cominciato a mettere via i soldi per comprare la mia auto, essenziale anche per andare a lavorare, e subito dopo la casa, dato che dopo 5 anni di fidanzamento io e Stefano avevamo deciso di sposarci.
Così quando mi sono sposata avevo da poco iniziato a lavorare e tutte le mie energie erano focalizzate sul rapporto che io e Stefano stavamo costruendo e sulla mia carriera. Il lavoro era una parte essenziale della mia vita, mi piaceva e volevo dare il massimo. Lavoravo tantissime ore e, durante il primo anno di matrimonio, abbiamo dato anche l’esame di stato, quindi, dopo l’ufficio tornavamo a casa a studiare.
Nei primi anni non avevamo in progetto di avere figli, investivamo su noi stessi, sul nostro rapporto e ci bastava così. Io non ho mai avuto un gran senso materno. A 32 anni ero dirigente in una multinazionale americana. Dopo 5 anni di matrimonio, però, abbiamo capito che per dare un senso e completare il nostro progetto insieme mancavano i figli. Eravamo diventati abbastanza grandi e ne sentivamo la mancanza. Così è arrivato Davide».
La tua gravidanza come la puoi raccontare?
«La mia gravidanza è stata splendida fino all’ottavo mese. Ho lavorato tutto il periodo, facendo la pendolare tra Carnago e Baranzate. Facevo in macchina 100km ogni giorno, stavamo benissimo io e Davide. Durante quelle ore gli parlavo e scherzando dicevo che non avrebbe mai sofferto di mal d’auto (in effetti è stato così).
Non vedevo l’ora che nascesse, di poterlo tenere tra le mie braccia e ho letto un mucchio di libri e riviste su come “accogliere” il nuovo nato, l’importanza del contatto con la mamma subito dopo il parto, l’allattamento al seno…Insomma, ero entusiasta come tutte le mamme. Stavano cambiando le mie priorità, mi stavo trasformando in una mamma nonostante tutto.
Una volta sola durante la gravidanza ho sognato Davide e l’ho sognato biondo con i boccoli che mi guardava con i sui occhioni giganti. Me lo ricordo ancora, alla mattina l’ho raccontato subito a Stefano, dicendo che da me un bimbo biondo non sarebbe mai potuto nascere e invece… gli scherzi della genetica.
Ciò che è successo l’ultimo mese di gravidanza è stato incredibile per una persona come me. Faccio ancora fatica a crederci, ma la realtà è che Davide mi stava mandando dei segnali forti. Improvvisamente la mia serenità è sparita, l’ansia ha preso il sopravvento, ero convinta che Davide non stesse bene, quindi più volte di notte ho costretto Stefano a portarmi in ospedale per fare dei monitoraggi. Volevo solo che nascesse per poterlo vedere ed assicurarmi che stesse bene. Quando gli “anziani” mi dicevano di star tranquilla perché non c’è posto migliore della pancia della mamma per un bimbo, io diventavo matta e rispondevo che se stava lì non potevo capire se stesse effettivamente bene.
Con il senno di poi penso davvero che Davide mi stesse inviando dei messaggi, il legame madre figlio supera ogni logica e ogni ragione. Ovviamente Davide non nasceva… mi hanno alla fine ricoverata per farlo nascere».
La nascita di Davide è stato un momento, da un certo punto di vista, drammatico. Ti va di riviverlo?
«Durante gli ultimi monitoraggi i medici si erano accorti che Davide aveva il cordone ombelicale intorno al collo e non erano sicuri che sarebbe riuscito a nascere naturalmente. Così quando mi hanno ricoverata per indurre il parto hanno deciso di provare subito con l’ossitocina in vena per verificare come Davide avrebbe reagito.
Ho ancora in mente il suono del suo cuore nel monitor che rallentava fino a smettere per un po’ durante le contrazioni… così non sarebbe mai nato. A quel punto mi hanno portato in sala operatoria e mi hanno fatto il cesareo.
Per me la nascita di Davide ha avuto sempre qualcosa di magico. Mi hanno fatto l’anestesia generale, ma forse era davvero molto leggera, e io mi ricordo chiaramente che pensavo che volevo sentirlo piangere e solo dopo mi sarei abbandonata al sonno. Così è stato, ho sentito il suo pianto (era quasi mezzogiorno) e poi più nulla fino al mio risveglio.
Sembrava che tutto andasse bene. Davide era davvero piccolo, 2,620kg, uno scricciolo. Era nella nursery e io in camera, non potevo muovermi per l’operazione. Mi dicevano che era bellissimo e stava bene, solo piccolo. Durante il pomeriggio portavano i bimbi alle altre mamme, ma a me no e cominciavo a preoccuparmi, ma medici e infermieri mi dicevano che era tutto a posto, gli stavano dando subito delle integrazioni perché era piccolo e che l’avrei visto al giro successivo… Non è successo.
Alla sera sono ricrollata e alle 3 di mattina la pediatra mi sveglia dicendo che dovevano trasferire Davide in un ospedale con neonatologia e terapia intensiva perché doveva essere operato d’urgenza per l’ileo da meconio…in altre parole, il meconio era come un sasso nel suo intestino, che non si era quindi sviluppato (microcolon) e bloccava tutto il tubo gastrointestinale. Aveva vomitato tutte le integrazioni che gli avevano dato e l’unica soluzione era l’operazione prima che si perforasse l’intestino.
Sono solo riuscita a chiedere dove l’avrebbero portato, e a dire che io non avevo ancora visto mio figlio. Così me l’hanno portato nell’incubatrice da ambulanza già pronto per il suo viaggio da solo: io ero bloccata a letto e vedevo il mio piccolo in alto su quel carrello con tubi che uscivano ovunque. Così ho visto Davide per la prima volta, così lui a poche ore ha cominciato ad affrontare il mondo e il suo Golia da solo…
Io ero a Tradate, Davide è stato trasferito al Buzzi di Milano. Stefano in piena notte inseguiva l’ambulanza… e ancora la magia che avvolto la nascita di Davide. Quella era la notte delle Perseidi e io guardavo fuori dalla finestra e vedevo questa cascata di stelle cadenti e Stefano in autostrada lo stesso, probabilmente le stelle scendevano per coccolare Davide, ho sempre pensato questo.
Al Buzzi non avevano posto per me, quindi io sono rimasta a Tradate. La mattina dopo Davide ha subito la prima operazione e sembrava che tutto fosse andato bene. Stefano correva da un ospedale all’altro. A lui i medici avevano iniziato a parlare di fibrosi cistica: l’ileo da meconio compare, se non ricordo male, nel 20% dei malati.
Io ero ancora convinta che, una volta sistemato il problema all’intestino, avremmo ripreso la nostra vita “perfetta”. Dopo 5 giorni ho firmato per farmi dimettere (ai tempi il ricovero per un cesareo era di 7 giorni) e con ancora i punti ci siamo trasferiti a Milano dai miei suoceri, che per fortuna vivevano lì.
Stefano aveva cominciato a parlarmi di fibrosi cistica, non avevamo internet, mi ricordavo qualcosa dall’università. Il giorno in cui finalmente avrei potuto vedere il mio bimbo arriva la telefonata sul mio cellulare, mentre eravamo in strada per andare in ospedale. Ci chiedevano di fare in fretta, perché le aderenze avevano richiuso l’intestino di Davide ed era necessario firmare il consenso per una nuova operazione.
Così, arrivati in ospedale abbiamo espletato le formalità e finalmente in terapia intensiva ho visto Davide. Solo visto, perché non potevo toccarlo. Mi sentivo come dentro ad uno shaker, non più padrona della mia vita, incapace di difendere e fare la più piccola cosa per mio figlio. Mi tornavano in mente tutte le cose che avevo letto sul contatto madre figlio, l’allattamento e io ero lì che non potevo fare niente se non guardarlo piangere per il dolore, con tubi e monitor ovunque.
Così quel giorno Davide ha fatto la seconda operazione, questa volta l’esito è stato positivo: il suo intestino era completamente salvo. Al settimo giorno l’hanno tolto un attimo dall’incubatrice e per la prima volta l’ho tenuto tra le braccia per qualche minuto. Dopo 3 settimane siamo tornati a casa. Si trattava di passare la convalescenza e… affrontare il mostro che ci accompagnerà per tutta la vita: la fibrosi cistica».
Quando avete saputo della malattia di Davide, la fibrosi cistica, cosa avete pensato ?
«Dopo qualche giorno dalle operazioni è arrivato il verdetto finale, l’analisi genetica che confermava la malattia. Mi sembrava impossibile, la mia vita era sempre stata perfetta e avevo “sbagliato” nella cosa più importante (il gene mutato viene trasmesso da entrambi i genitori, portatori sani).
Ho rimosso il primo incontro con i medici del centro di riferimento. Credo ci abbiano spiegato nei dettagli la malattia e come gestirla, le aspettative che dovevamo avere. Mi ricordo solo 3 frasi, forse quelle che mi sono sembrate le più importanti: è una malattia pediatrica, ma cominciamo ad avere qualche adulto, quasi tutti i bambini con FC adesso vanno a scuola (elementare), fra 10 anni ci sarà la terapia genica quindi se si deve nascere con la FC questo è il momento migliore.
Le prime 2 erano vere, purtroppo per la terza sono passati 18 anni e stiamo ancora aspettando, ma certo la situazione è molto migliorata con le terapie innovative e l’approccio moderno alla malattia. Le emozioni che ricordo di quei giorni e dei mesi successivi è il dolore costante, l’idea che la nostra vita fosse finita, che non ci fosse più speranza, che la vita di Davide sarebbe stata piena di sofferenza e soprattutto l’impossibilità di fare alcun progetto per il futuro. Le priorità cambiano completamente».
Tu e tuo marito come avete affrontato tutto questo? Vi siete uniti come coppia o vi siete allontanati, considerato il fatto che la malattia ha componente genetica?
«Dato che dopo 30 anni siamo ancora insieme ed è un bel record, mi viene da dire che ci siamo uniti. A parte le battute, l’impatto sulla vita di coppia è fortissimo. Credo lo sia già l’arrivo del primo figlio, se poi ci sono problemi ancora di più.
Per fortuna Stefano ed io siamo riusciti a rimanere uniti. Credo che alla fine l’amore che entrambi abbiamo per Davide abbia anche rinforzato la nostra unione. Non si passa però indenni da queste situazioni, il rapporto cambia decisamente, ci sono momenti di grande crisi nella fase acuta. Avevo letto da una scrittrice israeliana che aveva perso il figlio in un attentato proprio questo: ciascuno vive il dolore a modo proprio e reagisce in modo diverso.
Quando si ha un dolore forte per un figlio, le reazioni e gli atteggiamenti sono diversi. Il problema è che ciascuno vorrebbe vedere l’altro soffrire e reagire allo stesso modo e quindi non riconosce il dolore dell’altro. Per questo ci si punisce a vicenda. Noi questo lo abbiamo vissuto nei primi anni, dopo il colpo iniziale. Ma per fortuna ne siamo usciti, puntando su ciò che volevamo entrambi di più: il bene di Davide, e questo non poteva prescindere da una famiglia unita. A volte l’amore ricomincia da una scelta».
Come sono stati i primi giorni a casa e i primi anni di vostro figlio?
«I primi anni sono durissimi, proprio perché non si sa come gestire la malattia, soprattutto su un neonato, che fin da subito deve prendere dei farmaci “solidi” e deglutirli, deve fare fisioterapia e mille altre cose. Imparare tutte le terapie a memoria per non saltarne neanche una, imparare a fare procedure che a genitori senza questi problemi sembrano torture impossibili, e sempre con l’animo devastato da mille domande, mille dubbi. Non essere mai sicuri di stare facendo la cosa giusta… ci si sente abbandonati, non si è mai pronti per affrontare una cosa simile, soprattutto se è un primo figlio, con tutte le difficoltà di un neogenitore.
Mi sentivo un fallimento su tutti i fronti: per l’amore che non riuscivo a provare, per aver dato la vita ad un bimbo che avrebbe sofferto, per non aver potuto fare tutto ciò che una madre perfetta fa, coccolarlo appena nato, allattarlo (ho tirato il latte per 2 mesi sperando gli servisse, poi sono esplosa). Bisogna imparare e capire che i libri servono solo se va tutto bene.
In più non si sa come la malattia possa evolvere e con che rapidità: non ci sono 2 casi uguali, le mutazioni sono più di 2000 e, benché gli organi toccati siano sempre gli stessi (essenzialmente polmoni e pancreas), l’evoluzione è diversa per ciascuno.
Io lo ammetto, ci ho messo un anno, non ad accettare la malattia, per questo molto di più, ma per accettare mio figlio. C’erano momenti in cui pensavo davvero che non ce l’avrei fatta a superare tutto questo, ad essere più forte della montagna che la vita mi aveva messo davanti. Continuavo a pensare rivoglio la mia vita e quando mi accorgevo che non sarebbe stato possibile andavo in crisi totale.
Non so è stata durissima per me, forse per come ero fatta, per il mio carattere…Vivevo in funzione di Davide e delle sue terapie, credo di aver fatto davvero il massimo senza sgarrare mai, vivendo in semi-isolamento a casa per evitare infezioni, ma non lo facevo con l’amore che ci si aspetta da una mamma. Lo facevo per il senso del dovere che avevo.
Ho reso la vita un inferno a tutti, con la mia rabbia, la mia angoscia, molto più concentrata su di me che su Davide in realtà… per lui in quei primi mesi non vedevo futuro. Stefano ovviamente lavorava ed era fuori tutto il giorno, rientrava la sera e mi aiutava. Un aiuto fondamentale in quel primo anno l’ho avuto da mia mamma. Le nonne sono così importanti… tutti i giorni veniva da me e, con la sua saggezza ed esperienza, mi aiutava con Davide. Non le facevo fare le terapie, quello è successo dopo, quando ho ricominciato a lavorare. Ma la sua calma e serenità, il suo essere mamma, mi hanno salvata e probabilmente hanno “salvato” anche Davide. Anche a lei ho fatto passare un anno d’inferno…
Quando Davide aveva 10 mesi ho deciso di rientrare al lavoro, sperando di riuscire a trovare un minimo di serenità. Il lavoro è stato importantissimo sempre in tutti questi anni, anche se l’ho vissuto diversamente, non più come fine, ma come strumento di distrazione, per riequilibrare la mia vita, che non poteva essere solo legata alla fibrosi cistica… Dovevo prendermi qualche ora per me, così ho chiesto un part time e ho voltato pagina.
Davide fortunatamente stava, tutto sommato, bene e mi ricordo di un giorno in cui mi sono detta che così non potevo andare avanti, dovevo scegliere se farla finita (l’ho pensato davvero), oppure se reagire a tutto questo e vivere la nostra vita al meglio delle nostre possibilità… per fortuna ho scelto la seconda e da quel momento ho cercato di vivere e far vivere a Davide la fibrosi cistica come una compagna scomoda e non come una malattia.
Ho cercato di fare in modo che la sua vita fosse normalissima, solo con tempi diversi, ma non doveva rinunciare a niente, non fino a quando saremmo riusciti a gestire il progredire della malattia….così siamo arrivati fino a qui… Quando è nato non l’avrei mai detto! Per fortuna in tutto questo ho avuto sempre Stefano al mio fianco che mi e ci ha supportati con la stessa forza e voglia di combattere».
Davide è figlio unico…
«Sì, noi abbiamo fatto questa scelta, non so se dire per paura o per proteggere noi e lui. Il rischio di avere un altro figlio con FC è del 25% ad ogni gravidanza per i portatori sani e quindi è un rischio reale. Forse il fatto di averci messo così tanto ad accettare il tutto, la paura di non riuscire a gestire due bimbi così (le terapie portano via un paio di ore al giorno quando stanno bene e, nell’infanzia, sono ovviamente i genitori a farle… raddoppiare questi tempi per due è impegnativo e, se poi non stanno bene, l’impegno di tempo è esponenziale, per non parlare di quello emotivo) e anche un senso di protezione per Davide, per evitare che fosse costantemente a rischio infezioni, cose normali fra fratelli. Ogni tanto a me sarebbe piaciuto (inizialmente ne volevo 3…), ogni tanto a Stefano, ma mai nello stesso periodo. Davide ha sempre detto di non volere fratelli, così alla fine la scelta è stata questa».
Cosa pensa una mamma come te guardando suo figlio?
«Io sono una mamma severissima, non ho mai voluto che Davide si adagiasse sulla sua situazione o ne approfittasse. Per questo, a volte sono sembrata fredda, ma in realtà io non riesco a guardarlo senza sorridere, senza che il cuore mi si gonfi di amore ed orgoglio, il mio piccolo eroe. Davide per me è un miracolo per come sta e per come è, ogni conquista anche banale è un successo enorme, perché quando è nato “probabilmente sarebbe andato a scuola elementare” ed una sconfitta per il suo Golia. Ecco, lui per me è proprio Davide che combatte ogni giorno contro Golia. Il suo destino anche nel nome… come ho detto la sua nascita era circondata da magia.
E’ sempre stato minuto, ma con la grinta di un leone non arretra di un passo e che in silenzio avanza. E sono orgogliosa anche di me e della nostra famiglia, perché siamo riusciti a superare tante difficoltà, sapendo che ne troveremo di sicuro ancora, ma abbiamo tutti imparato ad affrontarle, ognuno ha il suo ruolo, ognuno fa la sua parte».
Che donna sei oggi, dopo 18 anni? Ti senti cambiata?
«Sicuramente sono molto cambiata. Ho imparato tantissimo e, a volte, ancora adesso penso che il destino ci abbia fatto vivere questa esperienza proprio per insegnarmi tante cose, ad accettare e convivere con la malattia prima di tutto. Per me era impensabile, preferivo non vedere le persone “diverse”, non sapevo come affrontare la malattia o chi lotta contro una malattia. Ho dovuto imparare perché da 18 anni la malattia è parte della mia vita e mi ha colpito nel modo più violento, non su me stessa, ma su ciò che di più importante ho al mondo.
Questo ha cambiato tutte le mie priorità: dal momento in cui ho scelto di vivere e dare la vita migliore possibile a Davide, questa è stata la mia sola priorità. Anche la vita di coppia e la relazione con gli altri famigliari sono cambiate per questo. Da quel momento per me c’è sempre stato prima Davide, prima di tutti e di tutto.
Le scelte che ho fatto le ho fatte guidata da questo: ho in qualche modo dato la malattia a Davide (non lo vivo assolutamente come una colpa, ma è una realtà), devo riuscire a dargli il meglio che posso. Sicuramente nei cassetti della mia mente c’è sempre il fatto di non aver potuto essergli vicino nella sua prima grande battaglia e averci messo tanto ad accettare tutta la situazione. Ecco forse è questo l’unico senso di colpa che ho…
Negli anni ho imparato l’importanza dell’empatia, e quanta forza un sorriso, un abbraccio possono darci. Ho imparato ad usare il cuore e non solo la ragione. Seguo molto di più il cuore adesso… e, soprattutto, ho imparato ad essere felice, nonostante tutto, ad apprezzare la vita per quello che ci offre e per ciò che siamo in grado di cogliere.
Ho imparato ad avere fiducia nelle persone, considerando che quelle più forti sono spesso quelle che ti sembrano più indifese. Tra genitori, ragazzi, volontari ci conosciamo in tanti. La fibrosi è una malattia rara, pur essendo la più diffusa nel nostro mondo e quindi siamo una piccola famiglia. Noi usiamo il termine famiglia perché si crea un legame fortissimo. Per la maggior parte ci conosciamo solo tramite social, ma condividiamo esattamente le stesse problematiche e sembra incredibile, alla fine condividiamo più esperienze e sensazioni con loro che non con amici e parenti reali, che per quanto vicini non possono capire, perché non vivono la nostra quotidianità. E ciò che capita ad uno di noi viene davvero vissuto come se capitasse ad un famigliare stretto. Ho imparato, quindi, tantissimo dagli altri genitori e dai nostri guerrieri… ho imparato a vivere appieno».
Cosa pensi di aver insegnato a tuo figlio e cosa ti auguri per lui?
«Non so se l’ho insegnato io a lui o lui a me ma abbiamo imparato in un modo o nell’altro che qualunque cosa succeda bisogna andare avanti senza mollare, che fino all’ultimo dobbiamo credere che andrà tutto bene. Lui lo ha davvero imparato e dimostrato in tantissime occasioni. Spero di avergli insegnato che si può vivere anche con una malattia così invalidante, vivere e non sopravvivere. Molto dipende dal nostro stesso atteggiamento. Che bisogna fare progetti, crederci e fare di tutto per realizzarli: la malattia non deve essere mai e poi mai la scusa su cui adagiarsi per dire non ce la faccio. Ma, ripeto, lo abbiamo imparato insieme.
L’augurio per la sua vita è “solo” che sia felice, nonostante tutte le battaglie che dovrà combattere e che abbia al suo fianco persone in grado di aiutarlo nella sua lotta. Ma il desiderio più grande in assoluto è che presto arrivi la cura per la fibrosi, prima che la sua situazione peggiori, in modo che tutto questo diventi davvero solo un ricordo…».
Ci racconti della Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica?
«Da una decina d’anni ho iniziato a fare la volontaria per la Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica. La Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica – Onlus (FFC) promuove, seleziona e finanzia progetti avanzati di ricerca per migliorare la durata e la qualità di vita dei malati e sconfiggere definitivamente la fibrosi cistica.
Riconosciuta dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) come ente promotore dell’attività di ricerca scientifica sulla malattia, si avvale di una rete di oltre 600 ricercatori e del lavoro di oltre 140 Delegazioni e Gruppi di Sostegno distribuiti in tutte le Regioni italiane, con 10.000 volontari che raccolgono fondi e fanno informazione sulla malattia.
Si prefigge tre obiettivi: promuovere e finanziare la ricerca scientifica sulla fibrosi cistica; formare giovani ricercatori e personale sanitario; diffondere la conoscenza della malattia tra la popolazione. In particolare, la promozione della ricerca scientifica avviene principalmente attraverso il finanziamento di progetti di ricerca selezionati fra quelli pervenuti a seguito di un bando annuale. La selezione si basa sulla valutazione rigorosa, obiettiva e indipendente operata dal Comitato scientifico della Fondazione con il contributo di esperti internazionali.
La storia della Fondazione inizia nel gennaio del 1997 a Verona, ma prende le mosse più indietro nel tempo. Quando il professor Gianni Mastella, che aveva dato vita e diretto per molti anni il Centro Regionale Veneto Fibrosi Cistica, propose a Matteo Marzotto di istituire insieme all’imprenditore milanese Vittoriano Faganelli una fondazione scientifica, la fibrosi cistica era una malattia genetica ancora poco conosciuta e in Italia quasi completamente orfana di ricerca.
Marzotto veniva coinvolto nell’avventura perché conosceva la crudeltà della malattia, avendo perso la sorella Annalisa. Come lui l’attuale presidente FFC Vittoriano, che di fibrosi cistica aveva visto morire due dei suoi tre figli. Era urgente coprire il vuoto scientifico e mettere le basi anche in Italia per una ricerca avanzata che ottenesse progressi per arrivare dallo studio delle molecole al letto del malato.
Dal 2002 ad oggi la Fondazione ha investito 22 milioni di euro, con i quali ha sostenuto 313 progetti di ricerca, che hanno coinvolto una rete di oltre 170 laboratori. È riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale e contribuisce al progresso delle conoscenze che rendono la fibrosi cistica sempre più curabile. Molto è stato fatto, ma molto resta da fare, per questo è fondamentale il contributo di tutti.
Ho iniziato poco per volta, partecipando solo con un banchetto alla Campagna Nazionale dei ciclamini, perché anche il volontariato non era proprio nel mio DNA e mi spaventava l’idea di essere coinvolta anche nel mio tempo libero con la Fibrosi. Avevo paura di vivere il 100% di malattia.
Da 5 anni ho aperto la Delegazione di Tradate Gallarate e ci occupiamo delle attività nel sud della provincia di Varese. Con i volontari della delegazione in questi anni abbiamo adottato 5 progetti di ricerca per un valore complessivo di 103.000€. In questo momento stiamo raccogliendo fondi per il progetto #3/2016 (trovate i dettagli sul sito della Fondazione www.fibrosicisticaricerca.com) per un totale di 35.000€ che dobbiamo raccogliere entro fine anno.
Le persone si sono sempre dimostrate molto sensibili, forse perché ormai in zona ci conoscono, e Davide da diversi anni si è fatto promotore, raccontando la sua storia. Ci sono poi molte altre persone coinvolte in prima persona qui in zona che ci aiutano tantissimo. La Fibrosi è molto più frequente di quel che si pensi. C’è un portatore sano, ignaro di esserlo, ogni 25 persone».
La canzone della tua vita?
«Ci sono tantissime canzoni che ascolto volentieri, legate ai vari momenti vissuti ma sicuramente quella che mi tocca di più e mi fa scappare ogni volta una lacrima è “La cura” di Battiato. Credo che non sia necessario aggiungere spiegazioni….».
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