Mio Figlio in Rosa, ovvero il nome del blog che altro non è che il modo di indicare il secondogenito di 9 anni e non etichettarlo, forzatamente, come transgender, omosessuale, persona con problemi di identità di genere o gender fluid.
Da sempre, infatti, il bimbo ha dimostrato interesse ad indossare abiti femminili e la mamma, per questo, non l’ha mai ostacolato ma lasciato vivere. Lei è Camilla Vivian, 45 anni, vive a Firenze, tre figli e un ex marito ancora presente nella vita familiare. Per dare forza e voce a tutti coloro che vivono nella stessa situazione, ha lanciato il suo blog, miofiglioinrosa.com – “storia di una crescita anticonvenzionale”.
A chi la critica risponde così…
“I dubbi che hanno tutti, me li sono posti anche io. Se sono arrivata a una conclusione, significa che ci ho pensato. E mi chiedo: possibile che stiamo a discutere per una maglietta rosa? Prima mi criticavano per il fatto che lo lasciavo troppo libero, ora mi criticano di esporlo troppo. E a criticare sono soprattutto gli amici più vicini. Aver lanciato il blog è servito per scremare le vere amicizie insomma.
Alcuni pensano che mio figlio faccia così per la presunta mancanza del padre, solo perché siamo divorziati: ma il padre c’è, è presente. E poi, se tutti i figli il cui padre lavora sempre, avessero problemi di identità di genere, campa cavallo, sai quanti ce ne sarebbero?”.
Raccontami com’è la vostra famiglia
“Siamo una famiglia normale, siamo in 4 più appunto il papà che svolge la sua attività di padre, come tutti i padri separati. Abitiamo a Firenze da poco dopo la nascita della nostra primogenita che ora ha 13 anni, gli altri due hanno 9 e 7 anni”.
Perché hai creato il blog “Mio Figlio in Rosa”?
“Perché mio figlio è in rosa, nel senso che ha sempre avuto una predilezione per tutto quello che era il mondo femminile. Fin da piccolino si è sempre comportato come una bambina: non erano solo i vestiti ma anche il mettersi le cose in testa per farsi i capelli lunghi, l’immedesimarsi solo in personaggi femminili, il chiedermi
‘quando posso diventare una bambina?’
All’inizio pensavo fosse una situazione passeggera, poi ho visto che diventava più strutturata e l’ho lasciato fare. Probabilmente, agli occhi di molti, se una bimba fa il ‘maschiaccio’, è più comprensibile, mentre se è un maschietto a comportarsi da bimba, sembra più strano.
Ho visto però le differenze tra mia figlia che ha sempre fatto il ‘maschiaccio’, c’erano strutture diverse: aveva amichette femmine, giochi da femmina e non aveva questo desiderio continuo di avere solo amici maschi, giocare a pallone etc, era più un mix. Mentre per mio figlio è una costante come l’avere solo amiche femmine e il voler avere sempre i capelli lunghi.
Ha sempre avuto la fortuna di avere un carattere molto carismatico e non è mai stato escluso. Di questo si preoccupava la psicologa con cui mi sono confrontata sulla disforia di genere. Per questi bambini, infatti, c’è il rischio di non ritrovarsi più in un gruppo ma stare nel mezzo: con i maschi non si trovavano perché fanno giochi più fisici e le bambine però dicono ‘sei un maschio e con noi non puoi giocare’.
Insomma, molti bimbi come mio figlio si trovano spesso esclusi: lui questo problema non l’ha avuto visto che dal punto di vista fisico è molto ‘maschio’ e se c’è da far la lotta non si tira indietro; dall’altro canto ha grande sensibilità e dolcezza, caratteristiche che gli hanno permesso di stare tranquillamente con le bimbe.
All’inizio ho pensato fosse omosessuale ma, confrontandomi con amici omosessuali, ho capito che si trattava di una questione differente: nessuno di loro, da piccolino, aveva sentito la necessità di vestirsi come l’altro sesso o di cambiare sesso. Quindi mi sono messa a cercare e ho trovato all’Estero un mondo infinito che parla di casi come il mio”.
Che differenza c’è tra la disforia di genere e il modo in cui identifichi tuo figlio?
“Lo identificherei come gender fluid ma proprio perché ‘bisogna’ dare una definizione. In realtà non c’è una definizione da dare. È una necessità di noi adulti, quella di etichettare tutto.
La disforia di genere viene considerata una malattia psichiatrica, questo sia per arretratezza cerebrale, sia perché si teme che, togliendola dal manuale diagnostico di malattie, queste persone da grandi non possano aver accesso alle cure da parte di Asl. C’è paura che poi ce ne si approfitti.
La disforia è quando un bimbo come il mio non viene accolto, quando gli vengono tarpate le ali e viene obbligato a fare ciò che non vuole: con queste condizioni, spesso, poi si sviluppano una serie di problematiche psicologiche. A quel punto diventa disforia, ovvero una mal sopportazione del proprio genere. Secondo me, però, dovrebbe essere considerata una forma di minority stress: è uno stress che, in realtà, viene da fuori.
Poi è vero che, con l’adolescenza, il cambio del corpo ti viene da dentro. Ho parlato di recente con un ragazzino che ha 17 anni e sta facendo la transizione. Mi ha detto: ‘Fino a che il corpo ti permette di stare in questa sorta di neutralità, te la cavi. Quando inizi a cambiare, è la morte’.
Che tu sia stato accolto o no, comunque, hai il terrore che il tuo corpo cambi, nel sesso in cui non ti senti di appartenere: a quel punto viene fatta questa diagnosi di disforia di genere. Da lì si può partire con le terapie psicologiche e farmacologiche.
Ci sono bambini che, da quando hanno l’uso della parola, affermano di essere il sesso opposto a quello biologico. Mio figlio non mi ha mai detto ‘sono una femmina’ oppure ‘voglio cambiare nome’, è sempre stata una cosa molto blanda. Una dottoressa con la quale mi sono confrontata ha detto che il picco di consapevolezza di sé si ha intorno ai tre anni: il bimbo è abbastanza grande da sapere chi è ma abbastanza piccolo da non rendersi conto di quello che il mondo si aspetta da lui.
Con il blog ho conosciuto molti ragazzi all’ultimo anno di materna che devono passare alle elementari. È un po’ come se si rassegnassero tutti, ‘sono maschio e mi piacciono queste cose da femmina’. E così dice sempre anche mio figlio: io gli faccio notare che, allora, se è maschio può anche vestirsi da maschio ma per lui non se ne parla proprio. Insomma, credo che questi bimbi, dentro di loro, abbiano un sacco di pesieri. Per un po’ ho insistito chiedendo cosa si sentisse, ma poi ho capito che era più un’esigenza mia quella di definire.
Parlando con la psicologa che l’aveva seguito (che era più un dover seguire e dare dritte ai genitori per proteggere dal mondo esterno questi bimbi), ho chiesto cosa pensasse se io avessi aperto un blog. Mi ha consigliato di farlo in forma anonima, a me sembrava un contro senso: se non c’è nulla di cui vergognarsi, perché nascondersi?”.
Cos’è successo da quando hai aperto il blog?
“Mi hanno scritto tantissime persone. Ho trovato un’accoglienza incredibile. Ero preparata alla guerra, invece ho trovato – da parte delle persone esterne – tanta accoglienza. Non mi sono mai arrivati commenti negativi, solo confronti molto civili e costruttivi. Il blog è attivo da 8 mesi: mi hanno scritto una ventina di famiglie con bimbi dai 4 agli 11 anni, tantissime famiglie con figli più grandi e molte persone transessuali adulte per ringraziarmi, raccontandomi la loro storia”.
Nel blog scrivi ‘siamo soli’, vista l’assenza di preparazione in Italia su tale argomento…
“Ci sono alcuni centri. L’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere che ha base a Napoli, segue i pochi centri che si occupano di questo argomento in Italia. A Firenze avrebbero tutta la volontà di svilupparsi in maniera più strutturata, ad esempio. Ma loro, come tutti questi centri, trovano sempre opposizione, non è facile mandarli avanti.
Manca proprio l’informazione in generale. Andrebbe fatta con i pediatri, i medici di base, gli psicologi nelle scuole. Tanti adolescenti con cui ho parlato, hanno fatto lo stesso percorso: si erano sempre sentiti che c’era qualcosa che non andava ma non capivano cosa, poi si rassegnavano che quello fosse il loro carattere. Poi, guardando su internet, hanno trovato (ad esempio) video di un altro ragazzino che raccontava la propria storia e si sono rivisti. Insomma, se ci fosse un minimo di informazione in più, magari sia le famiglie che i ragazzi potrebbero cominciare prima a capire la situazione.
Certo, dicono che nel 90% dei casi lo sviluppo atipico dell’identità di genere passa con l’adolescenza. Intanto questi bambini – come mio figlio che ha iniziato da quando aveva un anno – fino a 12 anni ci devono arrivare. Se ci fosse un’informazione che porta a un accoglimento maggiore della società, non ti devi scervellare per capire come muoverti.
Succede spesso che questi bimbi non facciano più sport, non vogliono andare in piscina o al mare perché non sanno in quale spogliatoio entrare perché in quello dei maschietti vengono presi in giro e in quello delle femmine non possono entrare. Così è successo a mio figlio, lo guardavano tutti male nello spogliatoio dei maschi”.
Com’è la situazione scolastica in Italia?
“Gli insegnanti accolgono ma non sono preparati. Noi abbiamo la fortuna di essere in una scuola molto piccola, con pochi bimbi, ci sono solo tre classi: siamo in una sorta di isola felice. In una classe sono tutti suoi amici e in un’altra ci sono i compagni dell’altro figlio. Solo nella quinta ogni tanto c’è qualche bimbo che lo prende in giro ma lui sa come difendersi bene.
Le maestre sono sempre state accoglienti. Ho sempre spiegato tutto prima dell’inizio di ogni ciclo, sia della materna che delle elementari, chiedendo di segnalarmi eventuali problematiche che sarebbero potute uscire in classe. Per il resto, nessuno sa niente su queste cose, vuoto totale.
Lo scorso anno, in effetti, mio figlio era continuamente preso in giro e la maestra non sapeva più come uscirne, ha cercato aiuto ma non c’erano uffici o assistenti che sarebbero potuti intervenire. Siamo andati quindi insieme dalla psicologa dell’ambulatorio di disforia di genere per fare chiarezza su come agire. Non è facile: avevo ipotizzato di fare una riunione con i genitori per spiegare ma mi è venuto il dubbio potesse essere un accentuare la questione. Insomma preferivo lasciare la questione tra i bimbi”.
Come deve rapportarsi un genitore verso il proprio figlio?
“Lasciarli liberi, comprendere e non arrabbiarsi. In ogni caso, si deve imparare a mettersi nei panni degli altri. Si deve pensare: ‘Se fosse mia figlia che fa il maschiaccio, cosa farei?’. Se una bambina ti chiede a carnevale di vestirla da Superman, tu lo accetti e se qualcuno te lo fa notare, ci fai una battuta su. Ecco, bisognerebbe reagire così sempre.
È vero certo che il mondo reagisce in modo diverso nel caso di un maschio, piuttosto che di una femmina, è vero che un occhio di protezione in più va dato ma non bisogna mai farlo sentire inadeguato, sbagliato”.
Come vedi la tua famiglia nel futuro?
“Non ne ho la più pallida idea. Qualunque situazione dovremmo affrontare, la si affronterà. Quello che sarà, sarà. Forse noi, a differenza di altri, non cascheremo dal pero, saremo già preparati psicologicamente e sapremo dove andare a parare perché spesso si perdono anni per capire a chi rivolgersi davvero”.
La tua canzone preferita?
“Just the way you are di Billy Joel”.