Disabilità e sessualità, quando il tabù è donna. Con ‘Non volevo morire vergine’, Barbara Garlaschelli ha “l’ambizione di toccare temi per troppo tempo lasciati silenti”. La scrittrice 51enne, tetraplegica, in questo romanzo biografico edito da Piemme, rompe il muro di un silenzio invadente e ipocrita. Quello che non ammette che le persone con disabilità possano avere pulsioni sessuali. Proprio al pari di tutti gli altri.
‘Non volevo morire vergine’, è il suo secondo libro autobiografico. Il primo, ‘Sirena, mezzo pesante in movimento’, ripubblicato da Laurana, racconta il periodo trascorso in ospedale subito dopo il tuffo in acqua bassa, nell’estate del 1982, che cambiò la sua vita per sempre. Il 28 marzo è uscito questo suo nuovo mémorie per Piemme con la prefazione di Daria Bignardi.
“A Milano, in una giornata di ottobre del 1982, guardo fuori da una delle tante finestre della classe e vedo ragazzi e ragazze che passeggiano nel prato della scuola. Una volta ero come loro. Camminavo, correvo, saltavo. Ora tutto è cambiato. Io sono ferma mentre loro continuano a correre, ignari del tesoro che possiedono: un corpo che risponde alla propria volontà.
E io non voglio morire vergine. Non sarà facilissimo”.
Chi è Barbara?
«Sono una scrittrice di 51 anni che da 36 vive sulla sedia a rotelle dopo aver avuto un incidente in acqua bassa al mare a 15. Nella mia carriera ho scritto moltissimi libri. Alcuni romanzi hanno vinto premi: ‘Non ti voglio vicino’ è arrivato allo Strega. ‘Sorelle’ ha vinto il premio Scerbanenco. Insomma, sono contenta della mia carriera di scrittrice».
Di cosa tratta ‘Sirena’?
«Racconta solo dei 10 mesi che ho trascorso in ospedale da quando ho avuto l’incidente in acqua e sono finita in ospedale. Un tuffo banale, niente di spericolato, che però mi ha procurato una grave lesione al midollo spinale. Ciò ha comportato il diventare tetraplegica che significa avere anche gli arti superiori compromessi.
È stato un periodo doloroso e difficile. Fino al 3 agosto 1981 camminavo sulle mie gambe e poi, dopo le ore 16, non ho camminato più. Ho trascorso questo periodo in vari ospedali, sia in Italia che all’estero, dove ho subito operazioni molto dolorose. Però ho fatto anche un percorso di riabilitazione, ad Heidelberg, in Germania, che mi ha portato ad imparare molte cose. Diciamo che ho reimparato molte cose.
Sono riuscita a non perdere l’anno scolastico. Mi sono ritirata dalla scuola perché altrimenti mi avrebbero dovuto bocciare per il numero di assenze. Allora mio padre ha chiesto alle mie compagne di aiutarmi. Mi hanno ritirata dalla scuola, ma venivano a darmi lezione in ospedale e quando sono andata ad Heielberg mi mandavano lezioni registrate su musicassette. E così, nel settembre del 1982, ho portato tutte le materie e sono rientrata nella mia classe.
Ho scritto ‘Sirena’ anche per un atto di amore verso me stessa e verso tutti coloro che mi hanno aiutato, consci che si trattava di un percorso lungo e difficile. In ‘Non volevo morire vergine’, invece, riprendo un po’ le fila da dopo che sono tornata a casa dall’ospedale, insomma dagli anni passati da ‘Sirena’ a oggi. Anni che sono stati intensi, difficili, ma anche ricchi di esperienze, successi personali e letterari. E poi racconto di un tema ancora tabù, ovvero la sessualità e la disabilità.
Ho deciso di narrare la storia in prima persona perché non volevo generalizzare a tutti. Sono convinta che ognuno di noi sia un mondo. Dopodiché, credo anche che una storia possa diventare universale nel momento in cui molti, non solo disabili, ci si riconoscono. Gli argomenti di cui scrivo riguardano tutti, visto che si parla di sessualità e del rapporto con il proprio corpo che è sempre stato un tema centrale, nella mia narrazione e nel mio interesse. Il corpo e le relazioni con gli altri. Nel mio caso, per esempio, influenza anche il mio lavoro come scrittrice, perché il respiro e la fatica che si fa stando seduti hanno una diretta conseguenza sul mio modo di scrivere.
E’ importante, parlare di sessualità e disabilità. Cosa che, in Italia, è considerata ancora tabù. Se ne comincia a discutere da qualche tempo ma c’è un vuoto culturale molto grave e colpevole che dura da molto. Esiste un disegno di legge abbandonato in Parlamento, presentato qualche anno fa, sulla figura dell’assistente sessuale ma quasi nessuno sa nemmeno cosa sia. Ora la disabilità e la sessualità continuano a essere un tema verso il quale o si scherza o, molto spesso, si pecca di omissione: si tace, ci si nasconde, ci si vergogna. Ho voluto raccontare, raccontando il mio percorso personale, un po’ la storia di tante persone».
Qualche esempio dal libro?
«Nel libro racconto alcuni degli uomini che ho incontrato nella mia vita e che mi hanno aiutata ad affrontare questa parte di vita che io stessa mi ero preclusa. Mi dicevo:
‘Sono sulla sedia a rotelle, nessun uomo mi troverà mai desiderabile’.
Quindi per prima io mi sono autocensurata. Dal momento in cui ci si apre alla vita, le cose accadono, belle o brutte che siano.
Il racconto di ‘Non volevo morire vergine’ termina con il momento in cui ho incontrato quello che sarebbe divenuto mio marito. Ci siamo sposati nel 2011».
Quindi conta molto il buttarsi, così come lo scoprire che è tutto possibile, se si crede veramente in se stessi?
«Esattamente così. Concedersi di provare, liberarsi dall’idea che l’immobilità in cui noi viviamo fisicamente (soprattutto chi ha una lesione come la mia), sia invalicabile, che non sia possibile scegliere. Invece no, si può scegliere ancora. Fin quando si è vivi, si può scegliere».
È mai stata vittima di pregiudizio?
«Più che pregiudizio, c’è una grande ignoranza nel senso di non conoscenza. Anche da parte dei partner intendo, per quanto riguarda il fatto di non sapersi relazionare con una persona che sta su una sedia a rotelle. Ci sono degli uomini che sono stati più coraggiosi di altri e non si sono fermati perché hanno visto che sopra alla sedia a rotelle c’era una donna. Ma questo è accaduto nel momento in cui io mi sono permessa di pensarci.
Quindi, come nella vita di tutti gli uomini e le donne, ci sono stati incontri belli e brutti. Ci sono state storie d’amore belle e storie da letto e basta. Tutto questo io l’ho vissuto come una grande conquista: mettere in gioco il mio corpo che era invece una cosa che pensavo non potesse accadere».
D’altra parte, soprattutto la società italiana, ci rimanda il messaggio che chi è in carrozzina è asessuale…
«Sì, asessuato o angelo. E verso le donne lo si pensa in modo particolare. Non se ne parla. Il corpo del disabile è da accudire, curare ma non è possibile concepirlo come fonte di godimento. E quando si parla di sessualità spesso è declinata al maschile, come se le donne, in questo campo, non esistessero. Invece sono ben vive e combattono insieme a noi».
Quindi, essendo donna, è una doppia battaglia
«Esatto. C’è una doppia battaglia, legata anche al fatto che siamo un paese cattolico, con un’educazione che guarda alla questione come a qualcosa di sporco. Se poi è associato a un qualunque tipo di disabilità…
L’amore e il sesso dovrebbero essere accessibili a tutti».
La battaglia più grande ora, a livello sociale, è far passare una legge e parlarne?
«Soprattutto parlarne, scriverne. Certo, poi si passa dalla legge che è importante. Ma la legge passa se diventa normale parlare di sesso. Per ora se ne discute soprattutto nei convegni o nella cerchia ristretta di chi ha questi questi problemi. Nella narrativa non esiste quasi questo tema, invece è necessario parlarne e scriverne, possibilmente in modo intelligente».
Né in maniera volgare, né irrisoria…
«Sì, c’è un modo naturale che riguarda tutti».
Che cos’è la vita per Barbara?
«È una strada con salite e discese, ostacoli da superare ma è una strada che mi piace percorrere».
Come vede il suo futuro e qual è il suo sogno?
«Il mio futuro… non ne ho la più pallida idea. Il mio sogno è avere una casa al mare».
Qual è la sua canzone preferita?
«Il bacio sulla bocca di Ivano Fossati, che è la canzone mia e di mio marito».
Foto ©: Paola Cominetta
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