A 3 settimane dalla morte di Fidel Castro il futuro di Cuba è schiacciato da un gigantesco punto interrogativo che porterà l’intera società, forse per la prima volta, a riflettere con estremo raziocinio sugli effetti reali della revolución.
Da una parte le celebrazioni, la commozione, il pellegrinaggio da un estremo all’altro dell’isola per tributare i momenti salienti del percorso compiuto dal Líder Maxímo e dai suoi, fiancheggiando nel corteo funebre l’urna scortata dai militari in divisa. Dall’altra il risveglio, il disincanto, la consapevolezza dell’emergenza segnata dalla povertà e la paura per l’ascesa di Trump.
Il quesito è semplice ma allo stesso tempo lungo e articolato in quanto contenitore di un’infinità di storie e di vite che per decenni sono state soffocate da un ideale imposto, da molti considerato ancora oggi pura utopia.
Il sogno rivoluzionario di Castro è rimasto tale e, salvo pochissime eccezioni, la linea dura dettata dal regime ha viaggiato su binari completamente sconnessi dalle esigenze reali del popolo. Nonostante la malattia, la decadenza politica e il passaggio del testimone al fratello Raúl abbiano aperto uno spiraglio di crescita e di comunicazione, il volto dell’isola oggi appare ancora stanco e sofferente.
Lo sviluppo economico è da anni quasi impercettibile, le vendite di nichel e zucchero diminuiscono vertiginosamente e anche l’agricoltura subisce battute di arresto. Solo il turismo in questo grande polverone permette di scorgere in lontananza la direzione del miglioramento.
Ma torniamo alle storie, quelle di coloro che hanno vissuto sulla pelle le conseguenze dei sogni rivoluzionari. In particolare le storie di chi ha dovuto piegare il capo davanti alla repressione delle idee, di chi ha dovuto sottomettersi all’assenza di scelta politica e alla mancanza di libertà di espressione.
In qualsiasi parte del mondo, in ogni epoca storica, un regime dittatoriale si presenta così al suo popolo, incatenando il libero pensiero e oscurando le sue tradizionali forme di diffusione e condivisione.
Reinaldo Arenas, lo scrittore scomodo di Fidel Castro
Reinaldo Arenas, scrittore e saggista cubano, è solo un ragazzino quando nel 1958 Castro e i Barbudos scatenano la rivolta contro il regime di Fulgencio Batista. Il giovane sente la necessità di sfogare la frustrazione per un’infanzia trascorsa nella povertà, facendo divampare le fiamme della sua rabbia contro il principale responsabile di quella indegna condizione sociale.
Per questo motivo abbraccia la causa dei rivoluzionari ma l’adesione a quel coraggioso atto militare, che cambierà la storia del paese, ha però breve durata. Arenas sviluppa le sue qualità artistiche e contemporaneamente scopre l’omosessualità, una passione incontenibile che per il nuovo regime è peccato imperdonabile, motivo di condanna.
Userà l’arte per combattere l’omologazione e l’odio ma pagherà l’affronto a duro prezzo. Costretto a vivere nell’ombra, a scrivere di nascosto nei posti più impensabili, a vedere le sue pagine distrutte e messe al bando, viene arrestato negli anni ’70, imprigionato e torturato. Nel 1980, dopo molteplici tentativi, riesce ad abbandonare Cuba e migrare negli Stati Uniti. Qui però percepisce fin da subito che la sua esistenza è ormai giunta alla fase conclusiva e schiacciato dal deperimento fisico e dalla contrazione dell’Aids, sceglie di porre fine alla sofferenza.
Dopo aver completato la sua autobiografia, “Prima che sia notte”, destinata a un grande successo e alla trasposizione cinematografica, si toglie la vita con un mix letale di droga e alcol. Nella sua abitazione di New York viene ritrovato un biglietto riportante la seguente scritta: “Vi lascio in eredità tutte le mie paure, ma anche la speranza che presto Cuba sia libera”.
Heberto Padilla, il poeta condannato da Fidel
Diversa la sorte toccata a Heberto Padilla, poeta e giornalista, anche se la sua esperienza nella Cuba di Castro è per molti aspetti simile a quella di Arenas.
Supporta la missione di Fidel nella fase embrionale ma sul finire degli anni ’60 manifesta pubblicamente la sua indignazione per i metodi violenti e autoritari. Anche per lui si apriranno le porte del carcere secondo la volontà del regime. La diffusione di molti dei suoi versi viene bloccata e a suon di minacce e percosse il poeta accetta l’umiliazione di ritrattare il materiale incriminato.
Riabbraccia la libertà e inizia una seconda vita negli Stati Uniti, dove nonostante i problemi legati all’immigrazione e alle vicende politiche del suo paese, fonda con la moglie una rivista letteraria e si dedica all’insegnamento accademico.
“Fuera del Juego”, l’opera al centro della sua condanna, ha ottenuto riconoscimenti internazionali ed è stata tradotta in diverse lingue. L’episodio del suo arresto inoltre, avvenuto con l’accusa di promuovere letteratura antirivoluzionaria, ha mosso gli animi di un nutrito gruppo di intellettuali (tra cui Sartre, Curtázar e gli italiani Fellini e Moravia).
Da pochi anni le sue raccolte vengono nuovamente stampate in patria, consentendo alle nuove generazioni di confrontarsi con la produzione poetica di un uomo che per decenni è stato cancellato dalla vita culturale del paese.
Altre storie si incrociano con le vite dei due letterati, come ad esempio quella del giornalista Carlos Franqui, autore di libri che sfatano il mito della revolución e raccontano il dramma dell’esilio. O ancora quella di Yoani Sanchez, la più recente in ordine cronologico, nota e stimata blogger perseguitata a Cuba per il suo ruolo di paladina dei diritti umani nell’isola, libera grazie agli orizzonti sconfinati della rete.
Fidel aveva 3 anni quando nel 1929 Valentino Bompiani fondava la casa editrice che porta il suo nome. Alla base del progetto, nella fase iniziale, c’era soprattutto la volontà di promuovere un approccio nuovo nei confronti della letteratura e della cultura, pubblicando quegli autori che non trovavano spazio nella terra d’origine a causa di restrizioni imposte dai regimi.
Secondo Bompiani “un uomo che legge ne vale due”: forse la ragione della censura, necessità e priorità dei dittatori, sta tutta qui.