Dal 19 maggio, data della inaugurazione ufficiale, al 13 giugno apre al Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano la mostra “La Memoria del dolore. Un progetto di rinascita”. La storia dell’ex carcere di Santo Stefano in Ventotene è immortala in una mostra fotografica. Tra gli scatti esposti, immagini di artisti di fama internazionale come Marco Delogu, con esperienza di lavoro in luoghi di reclusione come Rebibbia, Raffaela Mariniello, dotata di una sensibilità, tutta femminile, per il cambiamento che subiscono i luoghi storici, e Mohamed Keita, che ha subito la carcerazione in Libia e a Malta e ha vissuto il mare come ostacolo verso la libertà.
“La mostra restituisce dignità a un luogo di dolore, dove per 170 anni detenuti comuni e politici hanno vissuto e che da oltre 50 anni è stato abbandonato al degrado”, spiega all’incontro ufficiale con politici e giornalisti, Silvia Costa, Commissario straordinario per il recupero dell’ex carcere borbonico. “Questa mostra elimina la retorica visiva della prigionia e restituisce un’isola dove terribili esperienze vissute potranno trasformarsi in pensieri, idee e fatti”, aggiunge Marco Delogu, curatore della mostra.
L’ex carcere borbonico di Santo Stefano si trova su un isolotto di 27 ettari a un miglio dall’isola pontina di Ventotene, “culla d’Europa”. Ventotene e Santo Stefano, che formano un solo comune, sono due isole situate al confine geografico e storico tra Lazio e Campania e hanno condiviso la destinazione a reclusorio e confino legata anche alla dissidenza politica, alla libertà di pensiero e alla costruzione dei principi democratici e europeisti. Luogo di esilio coatto già partire dagli antichi romani e in seguito bagno penale dei Borboni ed ergastolo del Regno d’Italia, del regime fascista e della Repubblica (nel 1952 il nuovo direttore Eugenio Perucatti vi sperimentò pratiche di recupero dei detenuti alla comunità civile), il carcere di Santo Stefano viene costruito nel 1795 sull’isola di Santo Stefano, nell’arcipelago delle Isole Ponziane, su iniziativa di Re Ferdinando IV di Borbone.
Il carcere ha forma analoga al teatro San Carlo di Napoli con tre ordini di piani a circolo con 33 palchi scanditi da archi e nell’arco la doppia porta delle celle. “L’ironia – scrive Edoardo Albinati – era che in questo vastissimo teatro scoperto veniva replicato un unico spettacolo per anni, o per la vita intera dei ‘fine pena mai’, avanti a un pubblico formato solo da sbirri e aguzzini”. All’ingresso vi era stata scritta in latino una massima tranquillizzante e minacciosa che suonava “Finché la santa legge tiene tanti scellerati in catene, sta sicuro lo stato e la proprietà”. Al centro un panopticon, per consentire un totale controllo dei galeotti comuni e dei deportati politici, è stato attivo fino alla sua dismissione, nel 1965, ed allora giace in stato di abbandono.
Il panopticon – in greco “ciò che fa vedere tutto” – era, per il filosofo inglese Jeremy Bentham, a cui si ispirò l’architetto Francesco Carpi, il prototipo del carcere ideale. Le celle disposte come palchi teatrali erano tutte controllate a vista da una torretta centrale di guardia. L’idea illuminista era che i detenuti, sapendosi continuamente sotto controllo, erano costretti a comportarsi bene. E ciò avrebbe corretto il loro “carattere asociale”. In realtà nessuno da questo carcere usciva “redento” né inserito nella società, perché qui si moriva o si scontava l’ergastolo.
Adesso è giunta l’ora che questo carcere diventi “una scuola di alti pensieri”, dopo aver visto tortura ed ergastolo per 170 anni, ospitando antiborbonici, uomini risorgimentali che tentavano di costruire l’Italia e poi antifascisti. Durante il Risorgimento, infatti, ci sono passati patrioti come Silvio Spaventa e Luigi Settembrini, Giuseppe Poerio, Rocco Pugliese. A Santo Stefano arriva anche il regicida Gaetano Bresci (già Pietro Acciarito aveva tentato di accoltellare il re ma senza successo ed era stato mandato a Santo Stefano all’ergastolo), l’anarchico venuto dall’America a vendicare gli 80 morti di Milano con l’omicidio di Umberto I. E Bresci qui muore, ufficialmente suicida impiccandosi nella sua cella, in realtà dopo un pestaggio, come denunciò Sandro Pertini all’Assemblea costituente. E lo stesso Sandro Pertini conosceva bene il panopticon borbonico: venne rinchiuso a Santo Stefano durante il Ventennio, per 14 mesi nella cella 36, con altri antifascisti come Pietro Secchia, Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro e Giuseppe Di Vittorio. Il settimo presidente della Repubblica italiana venne poi trasferito al confino a Ventotene, lì dove nel 1941 con altri resistenti, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, avrebbe gettato le basi per il federalismo europeo.
Adesso il carcere di Santo Stefano è oggetto di un recupero, frutto di un progetto governativo fortemente voluto dal Ministro Dario Franceschini e dal Governo, finanziato con 70 milioni di euro, che nel 2025 gli restituirà una nuova vita, come centro polifunzionale culturale e spazio espositivo dedicato alla memoria del carcere, integrato con spazi che ospiteranno eventi e iniziative di alta formazione in chiave europea e mediterranea sui temi dei diritti umani, dei valori culturali e dello sviluppo sostenibile.
Il direttore del Museo Nazionale Romano, Stéphane Verger, commenta così l’inizio esecutivo del restauro, con la messa in sicurezza dell’edificio nello scorso novembre: “Il recupero del carcere deve essere anche il recupero della nostra storia e del nostro presente, nella prospettiva di una rinascita, culturale e sociale, a cui tutti siamo chiamati a rispondere”.
L’esposizione è integrata da otto testimonianze dei reclusi selezionate dal giornalista e scrittore Pier Vittorio Buffa, tra cui: Sandro Pertini su Rocco Pugliese, comunista condannato a 24 anni e 7 mesi di reclusione per l’omicidio – mai commesso- di un fascista; Athos Lisa, comunista condannato a 10 anni e 9 mesi dal Tribunale Speciale (cfr. Memorie: dall’ ergastolo di Santo Stefano alla casa penale di Turi di Bari, Feltrinelli, 1973); Giuseppe Mariani, l’anarchico condannato all’ergastolo per la strage del Diana a Milano nel 1921 che costò 21 morti e 80 feriti. Egli, insieme a Sante Pollastro, guidò la rivolta dei detenuti all’ergastolo di Santo Stefano scoppiata al 13 novembre 1943 e durata 4 giorni (cfr. Memorie di ex terrorista, Ultima Spiaggia, 2009), Luigi Settembrini, scrittore e patriota che aveva soggiornato nel carcere 14 mesi a seguito della rivolta che aveva dato vita alla Repubblica partenopea (cfr. L’ergastolo di Santo Stefano, Ultima Spiaggia 2010), Luigi Podda, che ha scontato lì da innocente 25 anni durante il fascismo
A completare la narrazione, un video del regista Salvatore Braca che racconta il futuro e la rinascita di Santo Stefano a partire dal progetto di recupero che lo trasformerà in un complesso con un percorso espositivo-museale, aule per l’alta formazione, residenze e laboratori per artisti e luogo per eventi”. Così afferma il sindaco di Ventotene alla inaugurazione: “in questo clima di emergenza può sembrare assurdo restaurare un carcere ma anche questa è una sfida educativa, perché la scuola, la memoria sono un’emergenza”. E ancora Zingaretti, presidente della Regione Lazio, “quel carcere è un luogo del mondo. E ricordiamo che il palazzo di Bruxelles, sede della Comunità Europea, non a caso si intitola ad Altiero Spinelli”.
Il recupero del carcere deve essere anche il recupero della nostra Storia e del nostro presente, nella prospettiva di una rinascita, culturale e sociale, a cui tutti – specialmente in questo momento – siamo chiamati a rispondere. Deve essere il simbolo di valori ispiranti la Costituzione Italiana ed Europea, riferimento per una convivenza sostenibile inclusiva e civile.