Il Signore Gentile (Sandro Teti Editore, 2020) è il racconto di decenni di lavoro, scoperte, difficoltà, immense tragedie e altrettante soddisfazioni di cui è stato attore o diretto testimone Lino Bordin, storico operatore dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), per lo più nel continente africano.
Narrato con uno stile assolutamente personale, crudo, privo di reticenze o timori reverenziali, dipinge l’Africa per com’è stata direttamente esperita dall’autore, con le sue durezze e i suoi colori. Vi si intreccia un tempo di vita vissuta in prima persona, fino alle riflessioni che gli suscitano i tentativi di integrazione da lui osservati nel quartiere romano sull’Esquilino, dove Bordin vive oggi, terminata la carriera professionale.
In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato che si celebra il 20 giugno, abbiamo raggiunto Lino per una chiacchierata al profumo di ironia e storie di ogni colore.
Dopo tutti questi anni di incontri, chi è “il rifugiato” per lei?
Oggi per me rifugiato significa una delle persone più disperate del mondo. Capisco ovviamente quali sono i metodi per classificare una persona come tale: ci sono posizioni legali ben precise. Però in effetti oggi io direi che, con tutti i movimenti di popolazioni con cui ci stiamo confrontando, secondo me il rifugiato è il più “sfigato” che esiste sulla Terra.
Lo racconta nel libro: al contrario di altre persone, sembra che il lavoro con l’Alto Commissariato per i Rifugiati – che avrebbe poi rappresentato la quasi totalità della sua vita professionale – le sia quasi “capitato”, è così?
In qualche misura sì. A un certo punto della mia vita, mi ero interessato ai boat people vietnamiti e pensavo di andare a lavorare in quell’area del mondo, invece mi hanno mandato in Africa. Però io sono partito comunque con la voglia di curiosità e di esperienza, dopo un po’ mi sono reso conto del lavoro con cui avevo a che fare, e di questo mi sono innamorato.
Che cosa l’ha spinta a scrivere un libro così personale, schietto e senza filtro, sui suoi anni di lavoro a contatto con le situazioni di estrema povertà e displacement?
Io vorrei fare capire alla gente che siamo tutti esseri umani, e che abbiamo tutti bisogno di un certo tipo di rispetto e di considerazione, da qualsiasi parte proveniamo e di qualsiasi colore sia la nostra pelle e comunque siano le nostre intelligenze, perché anche questo bisogna considerare. Se ci consideriamo più intelligenti di altri, dovremmo a maggior ragione avere la possibilità di capire e di comportarci in maniera più onesta e generosa. Quindi io speravo con questo libro di riuscire, non dico a cambiare il mondo, né le persone, ma a dare un “aiutino” a considerazioni diverse da quelle che si sentono normalmente. E visto che io l’ho vissuto direttamente sulla pelle, penso che sia più incisivo andare avanti con la verità.
In un passo quasi poetico dice: «Ancora credo dell’essere umano, pur riconoscendone l’indole pericolosa e rapace», e continua descrivendo l’ignoranza come ciò che accomuna il male di tutti i popoli e causa l’estrema sofferenza, cioè la guerra.
Secondo me il peggiore dei mali è l’ignoranza. Ho notato che i popoli, meno diventano ignoranti, e più sembra capiscano le cose. D’altra parte è un po’ il processo che abbiamo avuto in Occidente: 3000 anni di storia, culture e difficoltà di tutti i tipi hanno leggermente alleviato l’ignoranza; adesso comprendiamo un po’ di più alcune cose, e queste cose che comprendiamo un po’ di più, nei secoli ci aiutano a vivere meglio. Quindi, malgrado la nostra natura infame, riusciamo a portare dei cambiamenti positivi. È difficile vederli a volte perché noi li vorremmo immediati, e invece quando si ha a che fare con le culture ci vogliono tempi lunghi e pazienza. Ecco perché spero che risollevando dall’ignoranza si possa anche arrivare a trovare un sistema per vivere in pace: purtroppo mi sembra che qui in Occidente non ci si ricordi più di quanto grave sia la guerra.
Nella sua narrazione risultano preponderanti e grandemente rappresentati tutti e cinque i sensi, in special modo olfatto e gusto.
Non è stata una scelta specifica, piuttosto obbligata dalla relazione che gli odori e i sapori hanno con ricordi e le emozioni. Fa parte delle sensazioni che provavo e ho provato.
Quando racconta del suo primo arrivo a Mogadiscio, descrive perfettamente, per chi in Africa è stato, la sensazione di calore improvviso che ti assale quando esci dalla cabina dell’aereo. Le manca qualcosa in particolare di quelle terre?
Lo sa, non mi manca niente dell’Africa. Forse a volte il perdermi da solo in assoluta natura. Ecco, quello a volte mi manca, ma sono percezioni. Altrimenti no. Io ho vissuto anche cose molto gravi là. Grandi ricordi, belli, intensi, grandi amicizie ancora, ma avrei anche difficoltà a ritornarci, a dir la verità. Ho vissuto il Rwanda, il Burundi, la guerra del Congo… questo verrà nei prossimi libri!
Ci racconta un episodio particolarmente strano o singolare, una sensazione, uno spot…?
Al primo cocktail a cui sono stato invitato dalle Nazioni Unite a Mogadiscio mi ero un po’ disperato, perché vedevo tutti questi colleghi, di vari colori, vestiti in maniera che per me era… ehm… abbastanza strana (ride, ndr), in un giardino pure molto strano, e io venivo dall’Occidente e ho pensato “mamma mia, dove sei finito…”. Io che credevo di lasciare l’Europa e arrivare in mezzo al mondo internazionale. Invece poi fortunatamente ho rivisto tutte le mie posizioni, ho capito.
Nel 1996 uscì un articolo su Repubblica che la citava in relazione a un terribile episodio avvenuto alla frontiera tra Rwanda e Zaire, in cui un milione di profughi si era messo in una sorta di “marcia della morte”. Che cosa ricorda di quel momento?
Li gestivo io, ma quell’articolo fece confusione… Una prima parte di personale non indispensabile, funzionari e cooperanti, era stato evacuato all’inizio della guerra, quando il Congo fu invaso da Rwanda e Burundi. Siamo nel novembre del 1994. Poi è cominciata la guerra, noi operatori siamo rimasti tre giorni e tre notti nell’ufficio, nascosti nei sotterranei, mentre intorno a noi gli scontri esplodevano, e alla fine dei tre giorni abbiamo avuto la possibilità di andarcene, di essere evacuati, ma ci siamo evacuati noi da soli. Siamo fuggiti, abbiamo attraversato la frontiera e siamo arrivati in Rwanda.
In tempi recenti si è molto discusso di Kurdistan, soprattutto siriano. Sappiamo che Lei ha lavorato molto con i Curdi iracheni e anche in cooperazione in Europa. Ci racconta qualcosa di questo popolo?
Il popolo curdo è un popolo fantastico, che io adoro veramente. Però devo dire anche che sono un uomo, e quindi la percezione di un uomo in mezzo agli uomini e diversa da quella che potrebbe avere una donna in mezzo a quel tipo di uomini, a parte la recente esperienza siriana.
Il mio discorso generale è che sia un popolo splendido, eccezionale, però soprattutto un popolo delle montagne, e questo è un problema, perché non sono mai riusciti a trovare un’unità fra loro. Sono sempre vissuti divisi dalle montagne, che li hanno costretti a stare lontani gli uni dagli altri.
C’è una percezione di non legame tra le varie tribù. Questo mi dispiace, e credo che renda l’eventuale costituzione di uno Stato curdo impossibile. Chi andrebbe a lottare contro Teheran, o Ankara, o Baghdad? Si è visto che cos’è successo in Siria. No, i Paesi sono ancora troppo schiavi del petrolio e dei bisogni di ricchezza, per poter dare ai Curdi la possibilità di rimettersi insieme e di creare un loro stato.
Ci avevano anche provato dopo la Prima Guerra Mondiale con i Patti di Losanna: avevano chiesto ai Curdi di arrivare con una dichiarazione unitaria, e invece è stato una vera confusione totale. Gli Americani a quel tempo cercavano di spingere per l’autodeterminazione dei popoli: ci hanno provato con i Curdi, ma non ci sono riusciti e tutto è rimasto com’era.
Nell’epilogo del suo libro, descrive il sentimento di disillusione che spesso coglie i rifugiati e i richiedenti asilo quando, arrivati in Italia, si rendono conto di tutte le difficoltà e si sentono sradicati, proprio come espresso nell’ “Addio ai monti” manzoniano; ma in seguito dice anche che il futuro migratorio è inevitabile e «si trova già in atto», nonostante chi provi a fermare l’evoluzione del mondo. Quali pensa siano le strategie migliori di integrazione, per fare quello «sforzo eccezionale […] per un futuro migliore»?
Ci vuole generosità, di animo e di portafoglio. Sono le uniche soluzioni. Altrimenti è inutile stare a discutere, cercare di preparare. Se ci sono soldi si possono fare le cose. Poi tutto viene ripagato, sono investimenti che si farebbero, non una spesa a vuoto. Pensi quale macchina si mette in moto in Italia, per poter fare un programma serio di integrazione. I principi di base sono questi: generosità, sia intellettuale, che sentimentale, che economica. D’altra parte in Italia un carcerato costa 150 € al giorno, e per i rifugiati invece si stanziano 35 € al giorno. E non li prendono loro, li prendono gli Italiani, per pagarsi gli stipendi, gli affitti, le macchine, i viaggi a New York… Però c’è anche gente onesta, non solo queste persone, non esageriamo!
Per concludere, chiediamo sempre di lasciarci con un’impressione sonora favorita, che sia una canzone, una melodia, un ricordo in musica…
“Jambo, jambo bwana, habari gani, Mzuri sana…” (canta, ndr.). Il saluto di una canzone tradizionale in swahili, kenyana, si chiama Jambo Bwana. È una canzone simpatica, significa «Buongiorno, signore. Come stai? Stai bene?»
Su queste note, ringraziamo Lino Bordin della sua disponibilità, simpatia e schiettezza, in attesa di leggere le altre mille storie che avrebbe da raccontare.
Il Signore Gentile è ordinabile qui.