Si definisce «attivista LGBTQ+, femminista e ambientalista». Il nostro intervistato per questo PrideMonth è Yvan Molinari. Varesotto di nascita, genovese d’adozione, con la natura (e il mare) nel cuore, ci racconta il suo percorso in quanto ragazzo transgender (FtM).
Oggi è responsabile del gruppo trans* di Arcigay Varese e del suo orgoglio ne ha fatto davvero una bandiera. Grazie a lui, giusto per dirne una, è stata introdotta la carriera “alias” all’Università degli Studi dell’Insubria, ateneo nel quale ha frequentato la laurea triennale. Dallo spirito solare e analitico, le sue parole sono già fonte di ispirazione per molte persone, nonostante la sua giovane età. E lo si capisce bene fin dal suo motto: “State attenti a quello che pensate, perché è lì che arriverete”. Grazie Yvan e… ad maiora!
Chi è Yvan? Presentati
«Mi chiamo Yvan (sì, con la “Y”) e nel mio caso significa proprio che mi sono chiamato io così. Tra pochi giorni compirò 24 anni e sono felice di festeggiare il mio compleanno nel mese del Pride. Sono uno studente, ma ancora per poco. Dopo una laurea triennale in Scienze dell’Ambiente e della Natura ho proseguito con una magistrale in Biologia Marina e anche questo percorso di studi sta volgendo al termine. Sono varesotto e sono affezionato alle mie radici ma vorrei girare il mondo e non stare mai in uno stesso posto per troppo tempo. Amo la Natura più di ogni altra cosa e il Mare in particolare. Vorrei vivere di questo per sempre. Sono attivista LGBTQ+, femminista e ambientalista».
Raccontaci la tua infanzia. Come e da quando hai iniziato a comprendere di essere un ragazzo trans?
«La mia infanzia la ricordo con molto piacere. Ero sempre solare e socievole con tutti, spesso prendevo i panni del “giullare della situazione”, cioè quello che in un gruppo si distingue per essere uno che fa divertire tutti, cosa che mi è rimasta anche adesso e per questo non ho mai avuto problemi a farmi degli amici. L’unica nuvola grigia era il desiderio di essere un bambino e non una bambina e la consapevolezza di non avere speranza. Sì esatto, lo so da quando ho avuto percezione di me, perché in fondo che cos’è l’identità se non la percezione del proprio io?
I ricordi più vecchi che ho risalgono all’asilo. Potrei parlarvi del mio desiderio di avere il grembiulino blu invece di quello rosa, del fare sempre personaggi maschili nei giochi di ruolo (se non avessi interpretato “il papà” al massimo avrei potuto essere “il cane”), della tristezza nel ricevere in dono delle bambole e non delle macchinine, del desiderio (mai accontentato) di tagliare i capelli corti, delle lotte infinite con mia madre ogni volta che bisognasse comprami dei vestiti nuovi o delle scarpe…
La lista sarebbe infinita ma tutto questo, seppur vero, non deve portarvi a giustificare la mia identità maschile, perché in quanto attivista LGBTQ+ mi sento in dovere di decostruire gli stereotipi di genere: un bambino può sentirsi maschio e amare le bambole o il rosa o qualsiasi altro colore, così come una bambina che si sente tale può desiderare di giocare a calcio e avere solo amici maschi. Tutto ciò non deve assolutamente far sospettare un genitore dell’identità di genere de* figli*, perché, come detto, l’identità è pura percezione di sé, svincolata da qualsiasi gusto o preferenza. E io ero un bambino, punto. Solo che ero l’unico a saperlo.
Ma da questa consapevolezza alla comprensione della parola transessuale ce ne passa. Io non ho mai saputo cosa significasse veramente questa parola e non ho mai pensato che potesse riguardarmi fino ai miei 18 anni quando, per puro caso, dopo aver ascoltato la testimonianza di un altro ragazzo trans su YouTube, ho detto “Cavolo…quindi è nato femmina… prova quello che provo io… e ha iniziato un percorso per diventare ciò che è…”. Fulmine a ciel sereno.
Da quel momento quella parola ha preso a tormentarmi e mi ha condotto a cercare nuove risposte alle mie domande fino a che non ho trovato la strada che mi ha portato fin qui. Sono molto grato a quel ragazzo per aver condiviso la sua esperienza. A volte mi domando in che condizioni sarei ora se non avessi visto quel video ed è per questo che cerco anche io di portare la mia testimonianza sui miei profili social e tramite il volontariato nelle associazioni, perché se in giro da qualche parte ci sono altr* ragazz* smarriti come me, forse la mia storia li potrà aiutare. E lo faccio anche per infondere coraggio a chi si affaccia ad intraprendere questo percorso (tutt’altro che semplice) e per chi si sente sol* e ha bisogni di sapere che là fuori c’è qualcuno come lui/lei/*».
Com’è stato il tuo percorso di accettazione con te stesso?
«Dunque, per rispondere devo colmare un po’ il gap che ho lasciato tra l’asilo e i miei 18 anni. Prima di tutto mi sono reso conto fin da subito di essere attratto delle bambine/ragazzine e quel mio essere un po’ giullare è sempre servito anche per avere le loro attenzioni. Arrivato alle scuole medie ho perso la testa per una mia compagna. All’inizio è stato tutto molto naturale, siamo diventati subito amici e non me ne rendevo neanche conto, poi ho capito di morire di gelosia ogni volta che dava attenzioni a qualche maschietto. Ho cominciato a capire che il modo con cui si rapportava con me, non era quello con cui si rapportava con loro.
Inoltre, ho capito che da me ci si aspettava qualcosa di diverso… e ho iniziato a sentirmi diverso. I ragazzini di quell’età sanno essere molto giudicanti e divisionisti. I cambiamenti della pubertà non vanno di pari passo per tutti: metà classe sembra fatta ancora da bambini e metà da giovani adulti e questi ultimi godono di rispetto e ammirazione da parte degli altri. Io mi sono sviluppato piuttosto in là e la cosa inizialmente mi faceva piacere: crescere mi terrorizzava, non volevo saperne di avere il seno o le mestruazioni ma anche di altre cose come dovermi truccare o vestire in un certo modo. Però allo stesso tempo sentivo che per essere tenuto in considerazione dalla ragazza che mi piaceva, dalle nuove amicizie e da tutta la classe, avrei dovuto soddisfare almeno un minimo queste aspettative.
Non volevo che mi vedessero come uno strano… E qui ebbe inizio un lungo periodo della mia vita fatto di tentativi di reprimere me stesso per essere ciò che gli altri si aspettavano. Ricordo che quando confidai a quella ragazza che finalmente anche io avevo il ciclo (notiziona!) mi disse: “Che bello! Così anche tu adesso inizierai a commentare i ragazzi!”. Vi verrà da ridere ma io ho davvero sperato che avvenisse questa “magia”: innamorarmi di un ragazzo qualsiasi e non sentirmi più sbagliato, essere una ragazza al 100% e non provare più invidia per i miei compagni maschi.
Mi sono sforzato, credetemi, ce l’ho messa tutta. Ho indossato abiti e scarpe che non avrei mai voluto mettere, ho dato baci (i miei primi baci!) a chi non avrei voluto darli, ho ricambiato attenzioni che non avrei voluto ricevere, ho illuso persone che per me provavano dei sentimenti… tutto per essere “normale”. E vedendo che tutto ciò faceva piacere alle mie amicizie e alla mia famiglia, nonostante mi costasse non poche sofferenze, sono andato avanti così.
E poi? Poi viene il video, direte. No, ancora no. C’è ancora un tassello importante: Clara. Qui si potrebbe aprire un altro capitolo per dire quanto sia stata importante ma la risposta sta già diventando troppo lunga quindi cercherò di essere breve. Ci siamo conosciuti quando abbiamo giocato per parecchio tempo nella stessa squadra di pallavolo.
Tra parentesi, io avrei voluto giocare a calcio ma non mi è stato concesso dai miei e ho iniziato con la pallavolo perché non avevo molte altre alternative, ma stavolta si è rivelato essere un fatto positivo, perché mi sono appassionato, sono diventato molto bravo, mi sono divertito un mondo e ovviamente, perché ho conosciuto lei. Non mi ero reso conto che mi piacesse finché non l’ho conosciuta meglio nell’ambito di una gita in montagna. In breve, ci ho provato, lei ha ricambiato e da allora siamo insieme. Avevamo 17 anni e mezzo. Con lei sentivo di poter essere me stesso e passo dopo passo, mi sono liberato di tutti quei finti costrutti sociali che avevo indossato fino ad allora… però non bastava ancora. Capivo di non voler essere la sua ragazza, ma il suo ragazzo, capivo che avrei voluto che lei fosse attratta da me in quanto uomo e non in quanto donna. Lei aveva intravisto questa nuvola grigia dentro di me, ma io non riuscivo a dirle nulla per paura di perderla.
Poi venne il video. Condivisi subito quel video con lei e, senza che le dicessi nulla, mi disse: “è così che ti senti?”. Dopo di che ricordo solo che un giorno mi confidai (fu la prima persona in assoluto) e lei mi disse per la prima volta “Sei bellissimo” e quella “o” finale fece battere il cuore a mille ad entrambi. La bellezza di Clara sta nell’avermi amato prima e dopo, nell’avermi sempre sostenuto in ogni momento e nell’aver messo da parte le sue paure per il mio bene. Ed io per tutto questo amore le sono infinitamente grato».
E con la tua famiglia?
«Tasto dolente. I miei genitori sono stati lo scoglio più difficile da superare. Ci ho messo tanto ad aprirmi e parlare di come mi sentivo o anche solo del fatto che fossi attratto dalle ragazze. Nascondevo tutto per la paura. Ma anche perché in me c’era confusione e quando finalmente ho messo a posto tutti i tasselli della mia identità, anche forte del supporto di Clara, ho affrontato la cosa. C’è da dire che iniziai il percorso psicologico da solo, appena dopo il diploma e contemporaneamente presi anche una decisione drastica: lasciare la squadra.
Non avrei più potuto giocare in una squadra femminile perché avrebbe voluto dire continuare a fingere ancora e adesso che sapevo quale fosse la mia strada non potevo più ignorarla. Ero arrivato a livelli importanti nell’agonismo e per la società ero una risorsa preziosa e un investimento per il futuro. Tutti erano carichi di aspettative su di me e io ne sentivo il peso. Nessuno la prese bene, ovviamente. Nessuno capiva le mie ragioni nell’interrompere uno sport in cui avevo talento e possibilità future. Ma quello più deluso di tutti fu mio padre che era il mio primo tifoso e sostenitore, sempre presente ad ogni partita. E fu allora che dovetti dire la verità: “Io non voglio più giocare in una squadra femminile perché non sono una ragazza”. Ecco fatto, il dado è tratto.
Li informai subito che stavo già vedendo una psicologa e ne furono contenti perché, nella loro idea, la terapia mi avrebbe fatto “cambiare opinione”. Ma non è così che funziona, per fortuna. L’approccio della terapia riparativa (così si chiama), seppur ancora presente sul nostro territorio, è condannata dalla comunità scientifica in quanto inutile e dannosa. Non si può cambiare l’identità di una persona. E quando anche loro lo capirono, ci stettero male. Mamma mi diceva: “Spero di svegliarmi un giorno e realizzare che è stato tutto un brutto incubo”, papà si dava le colpe, cercava di capire dove avesse sbagliato con me ed entrambi non dormivano la notte. Ho anche una sorella maggiore che vedendo lo stato dei miei mi disse che ero egoista perché li stavo facendo soffrire pensando solo a me stesso e che non ero maturo abbastanza per intraprendere un percorso del genere, che non sapevo a cosa andassi incontro, che mi sarei pentito, che era solo confusione, che non ero davvero un uomo. Ovviamente non fu un bel periodo.
Erano anche preoccupati che la terapia ormonale facesse male alla mia salute e mi persuasero a non intraprenderla: “Fai l’uomo quanto vuoi ma non prendere quella robaccia!”. Si litigava quasi tutti i giorni e calai anche di qualche chilo perché quando sto male psicologicamente mi si chiude lo stomaco.
Per fortuna nel percorso di accettazione dei miei genitori ho ricevuto molti aiuti: dagli psicologi che hanno fatto da mediatori nel dialogo tra me e loro, alla mia endocrinologa che li ha rassicurati sulla questione ormoni, a Gianmarco Negri che conobbi nell’ambito di un gruppo di auto mutuo aiuto per persone trans e che fu così gentile da invitare me, mia madre e mia sorella per un caffè a casa sua per raccontare loro la sua esperienza. E ovviamente anche Clara. È stata dura ma sono felice di dire che ad oggi, dopo 3 anni dal mio inizio di cura ormonale (ci vuole pazienza tanta, ragazz*), so che hanno compreso. Certo, non penso li vedrete mai sfilare con me ad un Pride, però a modo loro mi fanno capire che mi vogliono bene e che sono fieri della persona che sono.
Con il resto della famiglia è stata una passeggiata, in confronto. Mi hanno subito accolto tutti senza troppe domande, compresa la nonna che al mio: “Nonna, mi sento di essere un ragazzo”, rispose: “Beh, perché credevi che non lo sapessi già?!”. Sorrido ancora a pensarci… alle nonne importa solo che tu abbia mangiato».
In Italia la legge impone un percorso con uno psicologo obbligatorio per le persone transgender. In una tua intervista hai detto che, per te, è stato importante essere affiancato da uno psicologo, la difficoltà invece è trovare gli psicologi preparati….
«La figura dello psicologo, a differenza di quello che si è portati a credere, non è colui che decreta la tua identità. Non è quello che ti dice se sì effettivamente sei un uomo oppure una donna, non è quello che ti dà delle risposte, ma è colui che ti fornisce gli strumenti per fartele trovare da solo. In particolare, ho acquisito la capacità di interrogarmi, di ascoltarmi, di valutare ciò che mi fa bene da ciò che mi fa male. Sono riuscito a costruire un dialogo con i miei genitori che prima era inesistente e ora non ho più paura di dirgli nulla.
Ho imparato a mantenere la calma, a non raccogliere ogni provocazione, ad evitare di trasformare una discussione in un litigio, a fregarmene del giudizio altrui, a volermi bene, a ponderare le mie scelte con un senso critico, a riconoscere le mie emozioni, accoglierle per poi distaccarmi per non farmi condizionare. Sono tutte cose estremamente utili che danno solidità ad una persona. Consiglierei a chiunque di fare, anche senza un particolare motivo, un percorso psicoterapeutico. Certo che nel caso della transessualità, la difficoltà sta nel trovare professionisti preparati, perché è un tema ancora poco approfondito nelle scuole di formazione».
Grazie a te, all’Università degli Studi dell’Insubria, è stata aggiunta la carriera ALIAS. Come hai già raccontato, nei casi in cui non sia possibile questa opzione (prima del cambio della carta di identità), c’è il rischio che alcuni professori non credano che tu sia lo studente realmente in corso o che ti valutino, con pregiudizio, per il tuo essere transgender…
«Sì, esatto. Sono molto fiero di aver lasciato in un certo senso una traccia del mio passaggio all’Insubria. I cambiamenti nascono così, da un singolo che lancia un sasso in una pozza d’acqua, da cui nasce un cerchio che diventa sempre più grande e si espande trasportando energia. Senza carriera alias dovevo fare coming out con ogni singolo professore prima di ogni esame. Solitamente scrivevo una mail il giorno precedente chiedendo di fare l’appello chiamandomi Yvan, oppure dicendo solo il mio cognome e di rivolgersi a me usando aggettivi e pronomi maschili. Non ho mai ricevuto risposte apertamente negative.
Tuttavia, quando sei uno studente e ti prepari ad affrontare un esame l’ultima cosa che vorresti è una situazione di imbarazzo tra te e il professore. Provate a pensare cosa significhi per uno studente dover presentarsi ad un esame sapendo che quel professore è a conoscenza del fatto che tu sia transessuale. La sensazione è un po’ quella di sentirsi nudi, senza vestiti che ci proteggano. Non ho mai avuto ansia per un esame in sé e per sè. Mai. La mia ansia era di non essere valutato esclusivamente sulla base della mia preparazione, ma di essere giudicato per la mia transessualità. Guardavo i professori negli occhi con aria di sfida della serie: “Guai a te se mi discrimini! Io sono uno studente come tutti gli altri, anzi, sono più bravo e adesso te lo dimostrerò!” Qualche volta mi è capitato di ricevere l’ammirazione di qualche professore e la cosa mi ha sempre riempito di orgoglio.
Il giorno della mia laurea non si era ancora giunti all’approvazione definitiva della carriera alias (la burocrazia ha i suoi tempi) ma una settimana prima mi squillò il cellulare: numero sconosciuto. “Buongiorno, sono il Direttore di Dipartimento, parlo con il signor Molinari?”…“Emh…Salve, sì sono io”… “Sono venuto a conoscenza che la prossima settimana si terrà la sua laurea. Ci tenevo a comunicarle che tutta la Commissione è stata informata di rivolgersi a lei al maschile e che la proclamazione verrà fatta utilizzando solo i cognomi. Spero che questo possa esserle d’aiuto”. E fu così che fui proclamato, in giacca e cravatta, “Dottor Molinari” con votazione 110 cum laude.
Fun fact: sono riuscito anche ad avere un brevetto da sub alias, grazie soprattutto alla grande disponibilità del mio istruttore. Fortunatamente esistono ancora persone che sanno essere davvero umane».
Quali sono state le maggiori difficoltà incontrate nel tuo cammino? Quali discriminazioni e pregiudizi verso di te?
«Certamente la prima difficoltà è con la disforia. La terapia ormonale ha sicuramente migliorato un sacco di aspetti ma non ho ancora raggiunto il mio equilibrio personale (ognuno ha il proprio) e sono convinto che le operazioni mi siano necessarie, per questo le attendo con ansia, come un bambino che attende il giorno di Natale. A causa del mio corpo ho dovuto evitare le palestre e le piscine anche se vorrei tanto andarci perché sono rimasto una persona amante dello sport, ma per ora per me quella è zona vietata. E poi, per uno che ama il mare come me, dover tenere sempre una maglietta in spiaggia non è il massimo… Ma nulla di tutto ciò mi ha mai davvero fermato dal fare tutto quello che desiderassi e questo lo devo alla mia determinazione e al mio coraggio.
Poi come dicevo, lo scoglio più difficile è stato essere compreso dai miei. Inoltre, nell’ambito di famigliari e amici, molti hanno trovato difficoltà nel cambiare l’uso del nome, dei pronomi e nel declinare gli aggettivi in modo corretto. La mia trasformazione fisica è stata di aiuto in questo ad alcuni di loro, mentre per altri si trattava proprio di un blocco non facile da superare, neanche di fronte alla crescita della mia barba. I primi anni ho avuto pazienza, comprensivo del fatto che si trattasse di un’abitudine difficile da sradicare ma poi non l’ho più tollerato. Mi arrabbiavo se vedevo che non c’era neanche il minimo sforzo, perché significava che quella persona stava completamente disconoscendo la mia identità. Fortunatamente ora accade di rado.
Tra le varie difficolta devo dire anche sicuramente i tempi d’attesa molto lunghi del percorso, specie con il tribunale e anche per operarsi. La transizione ti insegna ad avere pazienza, questo è poco ma sicuro. Ho atteso un anno per avere fissata un’udienza e 6 mesi per ottenere i documenti dopo la sentenza. Inoltre, stando al protocollo ONIG, prima di depositare la domanda in tribunale ho dovuto attendere più di un anno di terapia ormonale, il cosiddetto real life test. Il risultato è che in questi ultimi tre anni andavo in giro con un aspetto da ragazzo, ma i miei documenti dicevano un’altra cosa. Ogni volta nel mostrarli ho dovuto dare spiegazioni e devo dire che ho trovato tantissima ignoranza. Da parte di personale di segreteria e addetti alla sicurezza posso ancora ancora capire, ma quelli che mi hanno stupito sono stati medici e infermieri. Come è possibile che non venga insegnato loro che esistono queste possibilità?! Il sistema sanitario è totalmente impreparato nel gestire le persone trans.
Ero un donatore AVIS e quando iniziai la terapia, come è giusto che sia informai il medico che fa i controlli prima delle donazioni che avevo iniziato ad assumere testosterone. Lui mi disse “Ok, allora oggi invece della donazione facciamo degli esami di controllo”, benissimo. Gli esami erano perfetti, ma qualche mese dopo ho ricevuto una lettera di sospensione. Non c’era motivo perché io smettessi di donare e lo confermava anche il mio endocrinologo, ma la spiegazione dell’AVIS fu che non sapevano come “gestirmi”. Ora che ho cambiato i documenti proverò a tornare così sulla mia sacca di sangue potranno scrivere “M” e forse sapranno “gestirmi” meglio…
A parte questo non ho mai ricevuto violenza né fisica, né verbale, ma mi considero fortunato perché ho molti amici che hanno avuto tutt’altre esperienze».
Quindi, cosa significa, per te, essere transgender? Non secondo una definizione didattica ma secondo il tuo intimo sentire…
«Essere transgender per me è una difficoltà ma anche una fortuna. Una difficoltà perché, diciamocelo, la natura mi ha giocato un brutto scherzo: sarebbe stato tutto più semplice se io fossi nato maschio. Quando mi dicono “tu hai fatto una scelta” mi viene da ridere: se avessi potuto scegliere non avrei certo scelto tutto questo casino… Avere il cervello che va d’accordo con il proprio corpo è un privilegio che nessuna persona cisgender si rende conto di avere.
Ma è una fortuna perché le difficoltà stesse mi fortificano, mi fanno maturare di giorno in giorno, mi offrono dei valori da difendere, mi forniscono la spinta propulsiva per lottare ogni discriminazione. Superarle mi dà coraggio, autostima e tanto tanto amore per la vita. L’orgoglio che provo per me nasce proprio da questo».
Sbirciando il tuo profilo Instagram, ho visto che sei fidanzato. Senza scadere nel gossip o in facili pregiudizi ti chiediamo se ti va di raccontarci il tuo rapporto con la sessualità?
«Dunque, Clara l’avete già conosciuta. Per quanto riguarda la mia sessualità, certamente non avendo ancora trovato un equilibrio con il mio corpo, questo si riflette poi nei rapporti. Come ho già detto, la terapia ormonale ha fatto tanto e mai avrei creduto di raggiungere certi livelli di disinibizione e sono certo che le operazioni daranno la spinta definitiva al mio benessere.
In generale devo dire che è stato bello scoprire il mio corpo man mano che cambiava e trovare, giorno per giorno, una sessualità che fosse solo mia, che andasse bene per me e per la mia partner, con una complicità che si può instaurare solo grazie al dialogo».
Finalmente hai ricevuto la tua carta di identità… Che emozioni hai provato?
«Beh, che dire, neanche il giorno della mia laurea sono stato più soddisfatto e orgoglioso di me come quando ho stretto in mano quella carta con sopra il mio nome. È il simbolo di tutta la fatica affrontata, di tutta la pazienza avuta e di tutta la determinazione che non ha mai vacillato per un istante. È il mio orgoglio».
Transgender e Italia: a che punto siamo? Quali necessità?
«Rispetto al resto d’Europa siamo (come al solito) tra i peggiori. Intanto, manca completamente il concetto di autoderminazione, legato a tutto un discorso di leggi obsolete e protocolli fatti di step obbligatori. La nostra identità è decretata da una persona che ci vede una sola volta nella vita e poi probabilmente non ci vedrà mai più, ossia il giudice del tribunale che ci viene assegnato (spendendo un sacco di soldi!). A volte i tempi si allungano solo perché questa persona non si ritiene “soddisfatta” del percorso che abbiamo svolto o semplicemente non l’abbiamo “convinta abbastanza”. E tutto questo chiaramente è assurdo.
Poi c’è tutta la questione della sanità pubblica che è estremamente binaria (divisa in maschi e femmine) e non considera minimamente l’esistenza stessa delle persone trans. Per fare un esempio, ora che ho cambiato i documenti sarà difficile per me fare una visita ginecologica, perché fondamentalmente, come dissi nel discorso che ho tenuto durante il Varese Pride lo scorso anno, non è concepito dal sistema che un uomo possa avere la vagina. Idem, che una donna possa avere il pene.
Eppure, esistiamo e siamo cittadin* che devono poter accedere agli stessi servizi di tutti gli altri italiani. In più, i farmaci che assumiamo non rientrano nella fascia A dei farmaci di prima necessità, per questo possono essere rimossi dal commercio in qualsiasi momento a discrezione delle case farmaceutiche, come già successo diverse volte. Ma per noi sono farmaci salva vita e sempre per questo discorso dovrebbe passarceli il SSN, cosa che avviene solo in un paio di regioni (non in Lombardia) e vi assicuro che sono molto costosi, quindi non alla portata di tutt*.
La lista continua. Non c’è accettazione e integrazione nel mondo del lavoro, le persone trans faticano a farsi assumere e sono discriminate dai superiori e dai colleghi, arrivando a licenziamenti ingiustificati. C’è ancora troppa ignoranza, troppi stereotipi e questo ci porta ad un triste primato italiano, cioè quello del maggior numero di omicidi con movente transfobico in tutta Europa… e questo già fa riflettere. E in tutto ciò non esiste una legge che ci tuteli.
Infine, vorrei citare anche il mondo dello sport, nel quale le persone trans dovrebbero essere accolte come gli altri atleti e poter gareggiare nelle competizioni senza essere escluse».
Infine, come concludiamo ogni intervista… la tua canzone preferita?
«Oddio, questa è la domanda più difficile perché ho millemila canzoni preferite! Dunque, stando al mio gruppo preferito, i Linkin Park (RIP), direi che scelgo “Numb”. Quando sono un po’ giù mi dà un sacco di grinta e adoro quando dice “all I want to do is be more like me and be less like you” che incita a trovare sé stessi e non diventare quello che gli altri preferirebbero che fossimo. E poi “Battle of Simphony”, sempre dei LP, che incita a non arrendersi mai e a rialzarsi quando si finisce a pezzi.
In poche parole, vorrei dire a tutt* siate autentici e credete in voi, attaccatevi con tutte le forze ai vostri sogni e tenete fissi i vostri obiettivi. Come mi piace dire: “State attenti a quello che pensate, perché è lì che arriverete”».