Da quando è stata abolita la pena capitale il nostro Paese – in nome della tanto declamata civiltà giuridica – ha apparentemente rinunciato all’idea della vendetta sociale. Da allora è stata delegata alla galera la pulsione punitiva nei confronti di Caino, in un inferno il cui ultimo girone è rappresentato dall’ergastolo. Quel “fine pena mai” che nella narrazione comune soddisfa le pulsioni securitarie e giustizialiste di quanti vorrebbero “buttare la chiave”, perché “quelli devono marcire in galera”.
Difficile immaginare un surrogato della pena di morte, che tuttavia esiste: il decimo girone dell’inferno si chiama ergastolo ostativo e rappresenta null’altro che una pena di morte viva, quello che non prevede permessi, premi, libertà condizionata. Uno scenario di indifferenza, solitudine imposta e mancata rieducazione, con un fine pena cinicamente fissato al 31 dicembre 9999. Il che vuol dire la stessa cosa: dal carcere uscirà solo il cadavere di quel Caino cui abbiamo civilmente risparmiato il patibolo. L’ergastolo ostativo è questo: una morte a gocce che annienta la speranza di costruire un futuro, l’idea di poter scegliere una nuova strada – diversa – da intraprendere.
Carmelo Musumeci: da “boss della Versilia” alla rinascita
Se si pensa solo a punire, la gente non potrà comprendere gli errori. Ne sa qualcosa Carmelo Musumeci, 65 anni, che ha trascorso in carcere più di tre decenni portando avanti una lotta sociale per far conoscere l’esistenza di questo tipo di ergastolo. Meglio noto all’epoca col nome di “boss della Versilia”, viene arrestato nel 1991 e portato all’isola dell’Asinara dove è stato sottoposto a regime del carcere duro del 41 bis per reati di mafia, droga, estorsioni e omicidio e per questo motivo condannato in via definitiva all’ergastolo ostativo.
«I dispensatori di giudizi non vogliono che moriamo subito. Vogliono che crepiamo lentamente. A poco a poco. Piano piano. Vogliono che soffriamo più a lungo possibile, così impariamo la prossima volta a non fare del male» dice Musumeci. Peccato che non arriverà mai una prossima volta, ma questo è solo un dettaglio.
La gente non sa cosa accade dentro il carcere, si è detto tante volte Musumeci, e per questo ha cominciato a scrivere, a raccontare cosa accadeva tra quelle alte mura protette dalle sbarre. «La speranza non andrebbe mai negata a nessuno, molti giovani ergastolani, entrati in carcere all’età di 18/19 anni senza poterne più uscire, potrebbero essere salvati. Bisognerebbe dar loro una possibilità di riscatto allontanandoli dalle dinamiche criminali. Se, invece, sanno di dover morire in carcere non potranno mai cambiare mentalità».
Non si tratta di tirar fuori delinquenti dal carcere a ogni costo, ma di dare una possibilità a chi – in un Paese civile – ne avrebbe diritto. Dopo ventisei anni, anche in seguito a pronunciamenti della Corte Europea e della Corte Costituzionale, il suo calvario è stato tramutato prima in ergastolo ordinario, poi in semilibertà e, attualmente, in libertà condizionale.
Musumeci è un uomo cambiato, che ha utilizzato al meglio gli anni di carcere senza sprecare la propria e l’altrui sofferenza. Una trasformazione graduale, non un’illuminazione ma un percorso in cui ha incrociato l’amore gratuito e le relazioni sociali «che mi hanno anche spaventato e devastato – racconta -. Quello che fa più paura a un criminale incallito è il perdono sociale, perché ti fa perdere gli alibi. È un dolore che ti sana».
Fondamentale è stato l’incontro con Nadia Bizzotto, il suo “diavolo custode” in carrozzina, responsabile della comunità Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi, a Bevagna in provincia di Perugia, dove oggi Carmelo è impegnato.
«Svolgo il mio lavoro di volontariato convinto che adesso la mia pena abbia un senso: è un luogo speciale perché alla base di ogni azione risiede l’amore, la migliore delle medicine. Vivere lì mi dà la possibilità di rimediare al male che ho fatto, facendo del bene».
Se fuori dal carcere il tempo non basta mai, dentro è l’unica cosa che abbonda e Carmelo l’ha usato, per sopravvivere senza impazzire, studiando e scrivendo. Ha inseguito costantemente un obiettivo: quello di comunicare con l’esterno, con la società che l’aveva condannato a essere cattivo e colpevole per sempre. L’ha fatto attraverso lo studio, per trovare quel filo della comunicazione con il mondo esterno che il “carcere duro” auspicherebbe di recidere.
Entrato con la quinta elementare, ne è uscito conseguendo tre lauree, e diventando inoltre autore di tanti libri, l’ultimo dei quali “Diventato colpevole”, sta riscuotendo un grande successo. In mezzo ci sono decenni di vita sospesa, tra le braccia dell’Assassino dei sogni (altro titolo di un suo libro), come egli definisce l’ergastolo. Nel suo infinito lockdown Musumeci ha fatto anche una lunga sosta al carcere di Padova dove ha avuto la possibilità di partecipare a Ristretti Orizzonti, la redazione reclusa magistralmente diretta da Ornella Favero.
«Nella mia famiglia mancava l’amore, forse perché non era una roba da mangiare, quindi interessava ben poco. Perché ho scelto di fare il criminale? Per un senso di giustizia».
L’adolescenza difficile ad Aci Sant’Antonio, Catania, vissuta in una condizione precaria, “impregnata da una cultura cattiva”, poi il collegio, il carcere minorile e la galera, quella dura. Se in “Nato colpevole” descrive un po’ tutti i passaggi della sua infanzia fino ai diciotto anni, in “Diventato colpevole” racconta, senza assolversi, di come la sua sia diventata una vera e propria scelta deviante e criminale.
I libri che ha scritto non vogliono giustificare le azioni compiute, bensì far capire come tutti possono cambiare e venire recuperati. In “Diventato colpevole”, Carmelo Musumeci descrive quindi il passaggio, la scelta.
«Aver voluto dare ai miei figli quello che non ho avuto io mi ha portato a fare delle scelte sbagliate. Mentre loro desideravano solo avere un padre vicino, io volevo dar loro solo soldi. Facendo così ho perso più di un quarto di secolo e non sono potuto star loro accanto nei momenti più importanti della vita. Così mi sono accorto di avere sbagliato tutto nella vita, ma purtroppo è accaduto e devo accettarlo».
Se si pensa solo a punire, la gente non potrà comprendere gli errori. Tra quelle pagine c’è un pezzo di umanità, da leggere con la mente sgombra, perché “bisogna conoscere per deliberare”.