Unorthodox, serie tv: l’identità è un viaggio senza fine – recensione

Unorthodox è la nuova miniserie tv in quattro episodi presente su Netlix dal 26 marzo. Creata da Anna Winger e Alexa Karolinski, si basa su una storia vera, l’autobiografia del 2012 di Deborah Feldman: Ex ortodossa. Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche (Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots).

La storia narrata nella serie è quella di Esther Shapiro, ragazza diciannovenne che abita a Williamsburg, Brooklyn e fa parte della una comunità ebrea Satmar. Sebbene le numerose regole di questa comunità appaiano anacronistiche e soffocanti per la libertà individuale, lo scopo della serie non sembra essere quello di farcele condannare. Il contesto specifico di questa comunità peculiare, come viene spiegato nel dietro le quinte di Unorhodox, riguarda il fatto che essa emigrò dall’Ungheria dopo la seconda guerra mondiale per stabilirsi negli Stati Uniti, richiudendosi su se stessa e su una forte ideologia identitaria per difendersi dalle atrocità della Shoah. Per le prime due generazioni questa forte ideologia servì da collante per la comunità, le nuove generazioni invece, delle quali probabilmente Esther è una portavoce, arrivano a sentire il richiamo di una libertà individuale che tuttavia non è esente da dolore. 

Più che il dolore vissuto sul corpo di Esty, palese e compartecipato dallo spettatore, c’è un tipo di dolore più sottile ritratto sullo schermo, che unisce tre personaggi principali.
La madre di Esther viene costretta a lasciare la comunità, a causa dei costumi che la vedono sposa giovane di un uomo che la maltratta; il cugino di Yanky, Shloime, lascia la comunità perché “peccatore” e Esther stessa lascia la comunità per il suo desiderio di emancipazione.

Ma nessuno dei tre vive con gioia quel distacco. Lasciare la comunità è come lasciare parte della propria identità, un’identità che quelle regole interiorizzate non riesce a disprezzarle fino in fondo come qualcosa di fanatico o assurdo. Le regole che la religione impone non sono la causa della fuga, ma l’ipocrisia, la persecuzione e la forzatura di dover interpretare un ruolo sono ciò che si riflette sulla pelle di questi personaggi.

Divisi tra il desiderio di appartenenza e accettazione, perché comunque comunità significa anche famiglia e protezione, e la propria libertà personale, i personaggi e non solo Esther si trovano di fronte all’aut-aut. Quel dolore, la tragedia interiore che vivono i personaggi è reso magistralmente dagli attori che hanno cercato di renderne la profondità. Shira Haas, l’attrice che interpreta Esther, spiega nel “making of” che il suo personaggio cerca fino alla fine l’appartenenza e il rispetto delle regole, quella battaglia interiore avviene perché l’oppressione, oltre ad essere esteriore, è anche una battaglia identitaria.

A Esther è stato insegnato che essere una moglie, una generatrice di figli, una donna è tutto ciò che si può essere all’interno di una comunità, e quando lei dice di essere diversa, forse fa riferimento al fatto di essere diversa da quello. Non ortodossa. 

Unorthodox è una serie molto profonda, rende con empatia una tragedia che alla fine si rivela commedia, nel senso classico del termine. Tuttavia, il lieto fine e il raggiungimento dell’emancipazione non è reso certo; Esther attende i nuovi amici al bar nella scena finale, non si sa quale sarà il suo futuro ma quella potrebbe essere la sua nuova comunità. Fuori dalla comunità si trova l’individuo, ma il cambiamento dell’identità resta costante e non c’è fine al viaggio

Quello di Esther si conclude in quattro brevi episodi che sarebbero tranquillamente potuti diventare film. Vedere questa serie è un viaggio in un tempo altro che unisce la storia nell’individuo, punto di convergenza di un’identità post-diaspora. Il suo appeal è innegabile per lo spettatore, perché le storie di libertà parlano soprattutto a chi non la possiede. 

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