Walter Brusa, il sogno della cittadinanza italiana e le sue mille risorse

Ho conosciuto Walter a uno degli incontri di letteratura spontanea che frequento nella città di Monaco di Baviera, dove entrambi viviamo.

Walter Brusa, nel suo aspetto distinto e impeccabile, è un signore moderno d’altri tempi, come non se ne vedono molti in giro. Il suo accento italo-tedesco e la sua simpatia sono contagiosi. Una carriera lavorativa fatta di numeri e poi le sue grandi passioni, perché in realtà in Walter si nascondono uno scrittore, un poeta e… un “mago”. Sì, c’è anche questa sua passione che ha coltivato nel tempo. Così Walter è anche un bravo prestigiatore ma non solo, parla addirittura l’Esperanto. Insomma, un uomo dalle mille risorse.

Nel suo cuore, è innegabile, è un “Italiano Vero”, proprio come direbbe Toto Cutugno. L’Italia, sin dall’infanzia, per lui è il “Paese della nostalgia”. Ma la sua cittadinanza, a livello burocratico, è un miraggio. Per ora soltanto tedesco sulla carta d’identità, attende da anni di essere riconosciuto cittadino italiano, visto che nelle sue vene scorre anche sangue del Bel Paese. La sua storia affonda le radici nel lontano 1864 al di qua delle Alpi, in provincia di Varese, e il suo patriottismo contagioso per il tricolore è tutto da scoprire e da ammirare…

Ciao Walter, presentati…

«Sono Walter Brusa, nato a Monaco di Baviera e sposato con una splendida meravigliosa ragazza italiana. Abbiamo un figlio che fa l’attore di teatro e di film ed è la nostra gioia e il nostro orgoglio.

Lavoro in banca (e me ne vergogno). Il lavoro in banca ammazza tutto quanto è nobile e spirituale nell’uomo. Quante volte mi sono detto che sarebbe meglio andare in Africa e dedicare il mio tempo alle scimmie, scrivere un libro, o pubblicare i miei racconti, fare centomila altre cose insomma, ma non questa. Però ho avuto anche un periodo bellissimo in banca e cioè quando, per quattordici anni, ho lavorato in una banca spagnola. Hanno una “mentalità meridionale”, gli spagnoli, e mi ci trovavo molto bene.

Insomma, preferisco l’altra mia attività. Faccio il prestigiatore. Mi sono concentrato sulla magia da vicino, al tavolo, con carte da gioco, monete, bussolotti ecc., quel che si chiama “Close-up magic”, e sul mentalismo, ossia la lettura dei pensieri, esperimenti psicologici e via dicendo.

E mi piace scrivere storielle, racconti, saggi, poesie. Ho vinto vari concorsi, locali e nazionali, ho fatto parte di un club letterario e penso che lo scrivere sia tra le arti più nobili perché, se fatto con cura e passione, rivela il cuore dell’autore e spesso riesce a legarlo con un filo argenteo ma invisibile al suo lettore, sia nella sua stessa città o dall’altra parte del mondo.

A volte la gente mi chiede: “Ma cosa fai nel tuo tempo libero?” Io non ne ho. Sono occupato dalla mattina alla sera con centomila cose che mi interessano, che mi piacciono. I miei passatempi e campi di studio sono tanti e non mi annoio, anche se mi disperdo e magari faccio le cose in modo mediocre. Il tutto un po’ in forma edonistica, senza ulteriori scopi, con in mente l’umanesimo rinascimentale e l’avanzamento dello spirito e della cultura personale. Forse possiamo considerare, come mia massima, l’aforisma bellissimo di Oscar Wilde nel suo “Dorian Gray”: “The aim of life is self-development. To realize one’s nature perfectly – that is what each of us is here for”.

Mi piace leggere (i classici in italiano, inglese, tedesco, spagnolo, olandese e portoghese), magia, mentalismo, scacchi, filosofia, sport. Il tutto combinato con un buon sigaro e un bicchiere di vino, italiano ovviamente e sono quasi contento».

Ci racconti la tua “disavventura” con la cittadinanza italiana?

«Eh sì, questo è un aspetto carico di emozioni per me. I miei antenati sono di origine lombarda, per essere precisi di Arcisate (VA). Mio padre, circa settant’anni fa ha cambiato cittadinanza. Io mi ritrovo in Germania col passaporto tedesco ma col cuore italiano, la moglie italiana e il figlio italiano, visto che ha preso anche la cittadinanza di sua madre. Sono l’unico “fesso” in famiglia che non ha il passaporto italiano. Forse ti ricordi che ho scritto “Un italiano vero”? Parla proprio di questa situazione e dei travagli interni risultanti da questa domanda della mia identità ancora pendente.

Ho fatto la domanda di cittadinanza italiana, ma mi sa che ci vorranno anni e anni. Signora Lamorgese, se Lei legge quest’intervista: sto aspettando da due anni! Dov’è la mia cittadinanza?

Intanto, ecco il mio racconto, “Un Italiano Vero”:

Varie volte mi è successo che mi hanno chiesto: “Mi dica, ‘Brusa’ non è un nome tedesco, vero?”. E io ho risposto sempre con orgoglio: “No, è italiano. I miei antenati vengono dall’Italia”. E doveva bastare così, anche se avrei voluto gridare “Io sono italiano!

Mio bisnonno, Antonio Brusa, è nato nel 1864 ad Arcisate, provincia di Varese. È venuto in Germania, ha sposato una tedesca, ha avuto otto figli con lei e un giorno si è reso conto che la vita matrimoniale con moglie e figli, lontano dalla patria, non era una cosa proprio auspicabile. È ritornato in Italia, lasciando moglie e figli qui in Germania. E a questo momento perdo anche le sue tracce nei vari documenti a disposizione. A quanto io sappia, due o tre dei suoi figli sono andati con lui in Italia.

Uno degli otto figli, Paolo Brusa, mio nonno, nato nel 1894, è rimasto qui a Monaco. Era nato qui, parlava l’italiano a stento e non vedeva suo padre di buon occhio, perché li ha lasciati.

Nonostante tutto, approfittava della cittadinanza italiana visto che, abitando qui a Monaco, non doveva andare al fronte né nella Prima, né nella Seconda Guerra Mondiale. Ha sposato, come suo padre, una tedesca, ed è rimasto qui. Insieme hanno avuto due figli, uno dei quali era mio padre, Paul Brusa.

Nato nel 1927, nella Belle Époque dell’Italia fascista, già da ragazzo era molto più integrato nella vita della diaspora italiana rispetto a suo padre. Ha frequentato l’asilo italiano, ha fatto delle escursioni con il gruppo locale dei Balilla e ha frequentato, più tardi, la Camera di Commercio Italiana, per la quale faceva delle traduzioni di perizie e documenti commerciali. La situazione degli italiani all’estero non doveva essere migliorata dopo l’8 settembre, certamente fu causa di molte umiliazioni per loro. Mio padre era nato e cresciuto qui, e dopo la fine della guerra, in quanto italiano, si è visto senza prospettive di lavoro. Dopo la morte di mio nonno, nel 1952, ha deciso di lasciare la cittadinanza italiana e di assumere quella tedesca e di prendere la via della carriera del pubblico impiego tedesco. Per lui magari un passo logico, per me un tradimento peggio dell’8 settembre.

Con quel passo ha derubato anche a me, ancora non nato, della cittadinanza italiana perché, senza quella decisione, io ora avrei il passaporto italiano.

E sono dell’opinione che mi spetterebbe, perché nelle mie vene corre sangue italiano.

Credo che cambiare cittadinanza abbia causato a mio padre un certo senso di colpa, perché ha aspettato a fare quel passo fino alla morte di mio nonno, e con me non parlava mai di quell’argomento. E non parlava mai italiano con me.

E nonostante ciò, dalla prima infanzia per me l’Italia era il paese della mia nostalgia. Da bambino di sei anni sentivo come mia nonna, in Italia, pronunciava parole con un suono simile a monete d’argento, come se venissero da sfere celesti, come per esempio: “Un gelato di fragola da cinquanta lire!”; “Facile, difficile, buongiorno, buonasera” – che suono, che melodia, che canto angelico per me – come brillavano le parole, come luccicavano, come le lumi d’un lampadario di cristallo.

Così ho imparato le prime parole. Poi, a 17 anni ho deciso di studiare l’italiano di mia iniziativa. Non era una lingua qualsiasi, bensì un “ritorno-alle-radici”, un “back-to-the-roots”, una ricerca della propria identità.

Volete sapere che cosa mi dice l’inno tedesco mutilato? Niente! Che cosa significa per me nero-rosso-oro? Niente. Ma quando sento l’Inno di Mameli, mi vengono le lacrime e quando vedo il tricolore mi travolge un’onda di nostalgia e di tristezza, di patriottismo e di ardore. E sto lì, guardando con malinconia quella bandiera – così avrà guardato Adamo, voltandosi, il paradiso eternamente perduto.

Così l’Italia per me è soggetto d’una proiezione psicologica delle mie nostalgie, lo devo ammettere, una specie di Avalon spirituale, il quale, più mi avvicino, più si allontana. Una delle conseguenze logiche di tutto ciò è anche che il mio italiano non sarà mai sufficiente per corrispondere alle mie esigenze, e lo parlo con una certa timidezza, così come se io, con la mia pronuncia dura, barbara e tedesca imbrattassi quella pergamena bianca candida, sulla quale in un angolo ci sono anche i versi di Dante Alighieri e la prosa manzoniana.

E ora la domanda: “Sono italiano o no?”. Sangue italiano corre nelle mie vene, la mia mente è formata in modo umanistico-italiano, e nonostante ciò non ho il passaporto italiano. Sono dunque, se si vuol dire, italiano e contemporaneamente non lo sono.

Un paradosso, certo, come il famoso “gatto di Schrödinger”. In questo esperimento della fisica quantistica si rinchiude un gatto in una scatola d’acciaio, nella quale si trova una dose letale di un veleno, il quale a un certo punto viene sbloccato e uccide l’animale. Fino a quel punto si considera che il gatto sia vivo e morto allo stesso tempo. Lontano dall’essere capace di capire pienamente l’idea fisica, vorrei usare per la mia situazione il concetto filosofico dell’aspetto della contemporaneità di due stati, quello che gli inglesi chiamano “a cat-state”.

Abbiamo avuto la cittadinanza italiana in famiglia e l’abbiamo persa, e io la rimpiango come i figli d’Israele alle rive dell’Eufrate rimpiangevano la terra promessa.

Una definizione della parola “sindrome dell’arto fantasma”: “La sindrome dell’arto fantasma è la sensazione anomala di persistenza di un arto dopo la sua amputazione. Il soggetto affetto da questa patologia ne avverte la posizione, accusa sensazioni moleste e spesso dolorose, talora addirittura di movimenti come se questo fosse ancora presente”.

Certamente si può avere il passaporto italiano come tanti attori e calciatori, tramite matrimonio o cambio di residenza. Ma io non lo voglio acquistare come qualcosa di astratto, estraneo alla mia natura, bensì lo voglio ricevere come qualcosa che mi spetta, come prova del fatto ineluttabile, contro il quale attestano forse tutti i documenti, ma non il mio cuore, cioè che sono italiano!».

Passiamo ora ai libri e alla letteratura. Quando e com’è nata questa tua passione?

«Ho sempre letto molto, già da bambino. Non ero mai come gli altri ragazzi col pallone o con i tipici giocattoli “dei maschi”, come macchinine, attrezzi ecc… Preferivo rintanarmi e tuffarmi in un mondo fantastico, ma per me più reale, creato da me in collaborazione coll’autore, se vogliamo così. Tutta la letteratura classica infantile (Collodi, Bertelli, il grande e affascinante Karl May). Poi, più tardi tutto ciò che potevo aggrappare, da Carlo Marx alla Bhagavad Gita, dal manuale per l’allevamento di anatre, alla cultura etrusca. Il risultato è ovvio: l’unica cosa che so è quella di nulla sapere. Ma quanto piacere mi hanno portato questi interessi che si alternavano nel corso degli anni!».

Una volta agli incontri di letteratura spontanea hai lanciato una sfida. Hai portato un testo scritto da te in tedesco. Chi avesse saputo tradurlo in italiano avrebbe vinto una bottiglia di vino e un libro. Solo una persona ha osato provare un compito così “arduo”. Ti è piaciuta la traduzione? La vorresti riportare qui?

«Ah, sì, mi ricordo del grande lavoro di traduzione. E ancora oggi mi complimento del risultato. La traduzione è stata un capolavoro. Riportarla qui? Perché no.

LETTORE INCONTRA LIBRO

Recentemente ho fatto una passeggiata attraverso Schwabing, ero diretto al vecchio negozio d’antiquariato dietro piazza…, lo sapete, no? Lì, di fronte al monumento equestre. Non è proprio una via, piuttosto un vicoletto. Lì per me è il paese della Cuccagna, il mio Sion, la mia destinazione.

Ma non crediate che vada lì per la brama di acquistare i miei desiderati oggetti, solitamente esposti in vetrina. I libri si comprano presso la Weltbild o in libreria, non da un antiquario. Dopotutto, non andate in un ristorante stellato per saziarvi davvero. In un tempio di buongustai è importante l’atmosfera, l’impiattamento! Anche l’occhio vuole la sua parte.

Solo uno spazzacamino va da un antiquario a comprare dei libri per sentirsi sazio di lettura. No, no, così non va. Una visita dall’antiquario funziona diversamente. Prima di tutto si pregusta il momento: la mattina, il prossimo mercoledì o venerdì, il mio giorno. Poi, ci si immagina subito il “pranzo”, la degustazione dei libri che si potranno trovare stavolta. È l’apoteosi della scoperta, poiché il processo della ricerca e il curiosare senza meta rende il tutto molto stimolante. Fiutare i libri come un cane da tartufi, questo succede dall’antiquario. E vi ripeto, non comprate nessun libro, per l’amor del cielo, non fatelo!

Lì, desiderando ardentemente i tempi passati, in cui spesso si compivano viaggi spirituali attraverso le persone conosciute nei racconti, si provano emozioni che fanno rabbrividire o fanno esplodere il cuore dalla gioia. Come quando si tengono in mano le opere di Angelo Ambrogini o il Werther di Goethe. Lì, quantomeno, si ottiene l’esaudimento temporaneo di un’insaziabile nostalgica sete di sapere, conoscenza e sogni infiniti. Conoscenza che accrescendosi rende più assetati di libri. Nonostante questo, non comprate lì nessun libro!

Qualcuno legge un libro, l’erede sfoglia la stessa opera e poi la porta nel negozio d’antiquariato e tu, fortunatamente, la trovi lì, nascosta dietro un’edizione in cinque volumi di Jean Paul. Tre volte è lo stesso libro, ma non sono gli stessi sentimenti, le stesse gioie, le stesse bellissime ore trascorse a lume di candela mentre si era avvolti, al caldo, in una coperta, con uno scotch e un’edizione speciale di Poe del 1925. Disegni a penna e copertina rilegata in pelle verde. Lo sa solo Dio come sono arrivati a questo esemplare…

Quindi, non libri ma stati d‘animo. Questo è ciò che si trova lì, ammesso che fosse ciò che cercavate.

Ecco! Un piccolo libretto marrone rilegato in pergamena ruvida. Chiudo gli occhi, come Omero sperimento, brancolando nel mondo. Le dita accarezzano e coccolano la copertina, avvicinandola teneramente, con timidezza, come se fosse il primo amore. Il naso percepisce la fragranza di un tempo, dei giorni ormai trascorsi. Gli occhi aperti rivestono il libretto di uno sguardo amorevole. Nuovamente una carezza, tremante, contenuta mentre la copertina viene sfiorata. L’apertura è solenne, festosa e piena di aspettative. La prima pagina interna vuota, macchiata. Poi il titolo: “Poems of John Milton“, al di sotto piccolo e modesto, “Galwys and Sons London”, e poi il predicato nobiliare e la data, 1814. Era l’anno prima di Waterloo. Chamisso scrisse il suo “Peter Schlemihl”, Walter Scott il suo “Waverley”. 1814, anno di nascita di Mikhail Lermontow.

Così Inizia: “Paradise Lost”. “Of Man’s first disobedience and the fruit/Of that forbidden tree, whose mortal taste…”.  Chiudo gli occhi, posiziono il dito indice tra le pagine come un segnalibro. Chiudo il libro. Sogni che mi portano fino alle sommità del cielo e negli abissi, come la fragile nave di Poseidone nell’Odissea. Lentamente riapro gli occhi, una lacrima scorre sul viso, non so perché. Lentamente, esitante, rimetto il libro al suo posto. Il mio sogno, per oggi – l’ho vissuto».

Potrei continuare all’infinito perché i tuoi testi dovrebbero essere letti da tutti. Ricordo anche la lettera che hai scritto per la “Madre”. Toccante…

«Esatto, non era rivolta, come hanno pensato alcuni, a mia madre, ossia alla mia genitrice, bensì alla “Madre Italia”, fonte di nostalgie e speranze, come ho già spiegato. Effettivamente la prima frase era, se mi ricordo bene, “Non è forse l’Italia mia madre?”. Forse oggi non la scriverei più in quel modo, ma a volte è proprio così che l’emozione ti sconvolge e ti porta via con sé, mentre scrivi. Grazie di essertene ricordata».

Come vedi i tuoi testi mi rimangono impressi. Non me ne sono perso uno. Sempre lì ad aspettare con sorpresa il tuo nuovo racconto. Ma c’è un testo in particolare che non ho citato e che ti piacerebbe condividere?

«Sì, ce ne sarebbero, ma aspettano una traduttrice capace e volenterosa, preferibilmente lombarda… (ride ndr.). Magari una che viene a “sciacquare i suoi panni nell’Isar” (parafrasando ironicamente il Manzoni). Sono testi che sono stati scritti con tanto dolore e tante lacrime agli occhi, il cuore sanguinante e, a volte, forse anche troppo personali. Mi ricordo per esempio i racconti “La moneta sbagliata” o “Gli occhi di Santa Lucia”. Quest’ultimo (scritto in tedesco) è nato da un concorso del circolo letterario del quale facevo parte».

Parliamo dell’altra tua passione. Quando e com’è nato il tuo interesse per la magia? Un mondo incantato.

«Il mondo magico è proprio qualcosa di bello. Ho cominciato tardi, nel lontano 1981. Qualche libro, qualche giochetto. Poi ho conosciuto il grande professore Alberto Sitta, presidente del Club Magico Italiano, il quale mi ha invitato a Bologna alle riunioni magiche nazionali. Faccio spettacoli per ditte e privati, di magia generale, magia con le carte, ma anche di mentalismo, il gioco con la mente ed i pensieri dello spettatore.

In questi circa quarant’anni ho pubblicato, per due anni, una rivista magica dal titolo “Drudenfuß”, ho scritto un sacco di articoli in giornali riservati strettamente ai prestigiatori, ho scritto due libri di magia in inglese e ho compilato un mini-dizionario dei termini tecnici più importanti della magia in inglese, tedesco, italiano e spagnolo.

La cosa più bella è la magia su due piedi, improvvisata, con un gruppo di amici. Voler ingannare e voler essere ingannati in modo divertente e misterioso, questo è il nocciolo. Forse è l’altro braccio della leva: la manipolazione elegante con le parole e quella altrettanto elegante e sofisticata con le mani».

Walter Brusa cittadino tedesco di origini italiane prestigiatore e scrittore Esperanto

Non solo testi quindi ma anche “magia”. Un prestigiatore senza cilindro che riesce a catturare l’attenzione del suo pubblico con un incredibile savoir faire. A volte ci mostri un tuo trucco e ci lasci con le bocche spalancate di stupore, perché il trucco c’è ma non si vede! È possibile scrivere un gioco di prestigio e lanciare una sfida al lettore per risolverlo? O la magia è più un’illusione da mostrare?

«Sì, è necessariamente da mostrare. Questo è pure una cosa unica – tutte le altre forme d’arte non necessitano d’uno spettatore. La pittura è sempre pittura, la musica è sempre musica, con o senza ascoltatore, ma la magia diventa tale solo nell’interazione tra prestigiatore e spettatore, tra chi esegue una manovra, una mossa segreta e chi percepisce il gioco, il trucco in maniera magica e fa diventarne un miracolo nelle profondità del suo cervello, del suo intelletto».

Cos’è per te la vita?

«La vita è tutto ciò che gira intorno alle “mie tre colonne”, ossia la famiglia, i passatempi e tutto ciò che è bello nel mondo, come l’arte, l’amore, l’amicizia, l’umanità (nata dall’umanesimo rinascimentale), la dignità umana e la voglia e la capacità di aiutare anche il vicino (e letteralmente il vicino, ovvero anche quello che sta nell’appartamento accanto)».

Vedo che per te l’umanesimo rinascimentale è molto importante…

«Sì, mi sta a cuore. Tutti quei personaggi famosi non si limitavano a una sola cosa. Gli “studia humanitatis” con la riscoperta dei classici, della filosofia, specie quella greca, la
filologia, e (visto che molti vivevano in piccoli stati/comuni) anche della politica facevano sì che fossero quasi tutti come Michelangelo scultori, pittori, disegnatori, poeti, alcuni esercitavano anche funzioni diplomatiche come ambasciatori ecc. Guarda il vasto campo di
sapere di personaggi come Leonardo da Pisa, Piero della Francesca, Leonardo da Vinci, Machiavelli, Ariosto ecc. Questa è la meta: coprire tanti campi, esplorare tutte le possibilità intellettuali e umane. Un compito da Prometeo! E che bello il significato di questo nome: “Colui che riflette prima”. Forse non possiamo portare la luce al mondo, ma almeno portiamola nel nostro piccolo ambiente, nel nostro cuore e nella nostra vita quotidiana. Io di certo non la posso portare al mondo, perché sono troppo miope nel senso figurato, ma ogni lucciola fa luce».

Walter Brusa cittadino tedesco di origini italiane prestigiatore e scrittore Esperanto mezzo busto.

Ti piacerà sicuramente anche la musica. Allora a conclusione della nostra intervista ti chiedo qual è la tua canzone preferita?

«Io non sono musicale. Sono stonato come una campana rotta. Però mi piacciono gli interpreti dello jazz classico (Armstrong, Gillespie, Ellington, Stan Kenton, Billie Holiday), i classici come Mozart, Tchaikovsky, Vivaldi, ma anche roba completamente diversa come p. es. Carlos Gardel e Charlie Feathers. A casaccio, come tutto. Il vantaggio della diversità a costo della profondità. Ovviamente, se dovessi fissarmi su una sola canzone, quale potrebbe essere se non “Un italiano vero” di Toto Cutugno?».

Le interviste si concludono quasi sempre con la canzone preferita. In questo caso faró un’eccezione perché la domanda che non ti è stata fatta, ma che trovo piú appropriata al termine di questa intervista é: Ti piace tanto leggere. Ci sveli i tuoi libri e autori preferiti?

«Beh, nella letteratura tedesca ovviamente il sommo Goethe, poi tutti i romantici come per esempio E.T.A Hoffmann, Eichendorff, Novalis, ma anche Heinrich von Kleist. Come lingua spagnola indubbiamente Jorge Luis Borges e sempre il “Martin Fierro” di José Hernandez. In olandese Multatuli (“Max Havelaar”), Hugo Claus, Guido Gezelle. In inglese Shakespeare, Milton, Conan Doyle, Jane Austen, Laurence Sterne (“Vita e opinioni di    Tristram Shandy Gentiluomo”). In Italiano Il Poliziano, Machiavelli, Foscolo, Leopardi, Umberto Eco, Mario Tobino. Potresti dire che non è molto ricco di idee, citare semplicemente i classici. Ma non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace. E ovviamente hanno passato il test dei secoli, molti almeno. E poi, qui c’entra veramente quel piccolo testo che tu hai tradotto con tanta partecipazione emotiva. La lettura è e rimane un’esperienza emotiva ed emozionante, a volte quasi erotica, quando la mano passa leggermente sulla copertina, accarezza le pagine…

È per questo che prego ogni giorno: “Dio, fammi scrivere come Borges”. Non per me, che non sono degno, ma per la mia traduttrice, per darle un lavoro degno delle sue capacità. Amen».

Copyright © 2016 Sguardi di Confine è un marchio di Beatmark Communication di Valentina Colombo – All rights Reserved – p. iva 03404200127

redazione@sguardidiconfine.com – Testata registrata presso il Tribunale di Busto Arsizio n. 447/2016 – Direttore Responsabile: Valentina Colombo