Chiara Moscardelli, scrittrice romana trapiantata a Milano. 44 anni di simpatia e coinvolgimento, l’abbiamo intervistata in occasione della presentazione del suo ultimo libro, Volevo solo andare a letto presto (Giunti Editore, 2016), alla libreria Biblos Mondadori di Gallarate (VA).
Dopo il successo del suo romanzo d’esordio Volevo essere una gatta morta (2011), ha scritto per Einaudi La vita non è un film (2013) e, nel 2015, Quando meno te lo aspetti (Giunti).
Quanto c’è di biografico e quando di inventato nei tuoi libri?
Dal primo libro all’ultimo, mi sono sempre più allontanata dall’autobiografico. Anche se, indubbiamente, tutti i miei vari personaggi sono una mia costola. Quindi, a prescindere dai primi due (La gatta morta e La vita non è un film) dove ero proprio io, gli altri due hanno qualcosa di autobiografico sicuramente: personaggio femminile, l’età (anche se me la sono abbassata un poco) ma sia Penelope che Agata hanno questi blocchi sentimentali ed emotivi che sono abbastanza autobiografici e, soprattutto, derivano da un retaggio familiare che anche la scrittrice ha avuto. In più, spesso e volentieri gli amici di contorno (a parte quest’ultimo dove sono tutti inventati), hanno qualcosa dei miei amici di sempre. In Penelope, invece, in Quando meno te l’aspetti, ci sono Federico e Letizia, che sono Federico e Letizia anche nella realtà. Ne La gatta morta sono tutti i miei amici”.
Parli di questo blocco emotivo. Secondo te, la vita familiare, da bambini, influisce molto sulla nostra vita futura…
“Esatto. Siamo il prodotto – nel bene o nel male – di quello che è stata la nostra vita. Ovvio, nella vita le cose succedono e uno cerca di allontanarsi o di risolverli questi problemi. Però, la maggior parte di quello che noi siamo, di ciò che ci succede, è perché abbiamo un passato alle spalle. Come una madre e un padre più o meno ingombranti, più o meno presenti, più o meno assenti. Siamo questo. Non conosco persona che abbia avuto, con i propri genitori, un rapporto normalissimo. Sinceramente, devo ancora incontrare qualcuno che mi risponde così. Ci sarà sicuramente perché non bisogna generalizzare. Però, in linea di massima, conosco tutti amici che hanno avuto rapporti pessimi con i genitori… ma anche negli ottimi rapporti c’è qualcosa che non va. In un modo o nell’altro, quello che ci portiamo dietro, è quello che abbiamo vissuto durante l’infanzia e l’adolescenza”.
Però è possibile cambiare. Durante la tua presentazione in libreria, ci parlavi di una nuova Moscardelli….
“Sì. È possibile e necessario cambiare. Ahimè, conosco tanti miei cari amici che sono ancora bloccati e hanno ancora grossi nodi da risolvere e che difficilmente risolveranno. Quando ci sono cose grosse che succedono è difficile. Però, è necessario, secondo me, fare il salto a un certo punto…. Come la copertina del mio ultimo libro, Volevo solo andare a letto presto: andare incontro e affrontare le tue principali paure e prenderle di petto. Non dico superarle ma almeno impararci a vivere che già è tanto”.
A proposito di Volevo solo andare a letto presto, puoi spiegarci il significato del titolo?
“Ho scelto apposta la copertina: non solo è un episodio del libro – Agata, la protagonista, salta ostacoli perché si trova a scappare da una situazione di pericolo – ma, per me, è anche il simbolo di una persona che salta l’ostacolo e va verso la felicità… che ci fa paura.
Il titolo, in realtà, doveva essere Non è mai troppo tardi, perché per me ha un significato legato al discorso che facevo prima: non è mai troppo tardi per fare quello che vuoi nella vita e seguire la tua felicità. Ma non si sposava bene con la copertina quindi, una sera, chiacchieravo con un amico scrittore, Federico Baccomo, cercando di trovare un titolo. Non lo trovavamo… Federico si è buttato su una panchina di Milano, alle due di notte, in un parco, dicendomi: ‘Moscardelli, io volevo solo andare a letto presto questa sera’. Mi sono illuminata. E abbiamo detto ‘ecco il titolo perfetto’. Lui voleva solo dire che voleva solo andare a letto presto. Per me, collegato a quella copertina, voleva dire che Agata – quindi non la sottoscritta – voleva una vita ordinaria, ordinata, rigorosa e invece le sono successe tante altre cose che non le hanno consentito di rimanere nel suo mondo. Così è uscita dal suo mondo ordinario ed è entrata in un mondo straordinario che le ha consentito di andare a prendersi la vita”.
Il 25 novembre si celebra la giornata contro la violenza sulle donne. Tu scrivi di donne alla difficile ricerca di questo ‘introvabile’ principe azzurro. Però, spesso, assistiamo a donne che, piuttosto, trovano un ‘principe nero’…
“Non sono un’esperta certo, però – secondo me – esistono tutti questi principi neri perché noi donne siamo cresciute convinte che esista il principe azzurro. Cioè: ci hanno sempre abituate a pensarci non come donne ma come madri, compagni, mogli etc. Così, se siamo da sole o indipendenti, non siamo nessuno.
Mi sono sentita un sacco di volte chiedere ‘ma perché sei single?’ o ‘ma guarda che ti manca poco per poter avere figli’: non è che, siccome sono donna, sono obbligata a riprodurmi e a procreare. Quindi, ho iniziato a dire che ero vedova: la vedovanza mi dava qualsiasi alibi. E, per i figli, rincaravo: ‘Noi volevamo…. Ma eravamo lì lì e lui è morto’. Almeno, così, mi lasciavano in pace.
Io sono una persona abbastanza solida. Invece, penso a quanto, tutta questa pressione, possa avere una grande influenza su una donna che cresce, magari, con una situazione familiare molto seria e grave, incontra un uomo che la fa sentire importantissima e, quindi, fa presto a darsi completamente: poi è la fine. Ti affidi completamente a un uomo, lui non è il principe azzurro ma il principe nero e tu non te ne liberi più.
Allora – tralasciando la società che non ci dà la giusta considerazione – la cosa principale, secondo me, sarebbe iniziare a pensare che siamo complete anche senza un uomo accanto. Dal momento in cui ci sentiamo complete, non abbiamo più bisogno né del principe azzurro, né del principe nero, per certi versi. Certo, è un percorso lungo e non immediato. Ma, se sei cresciuta pensando di doverti affidare a un uomo, al famigerato principe azzurro, è la fine. Ti può andare bene o molto male, come sta succedendo. Perché sono donne fragili, insicure, convinte di non valere da sole ma solo in funzione di un uomo, anche se quest’uomo ti picchia. È sempre meglio che ti picchia piuttosto che non averlo: è terribile. Questa la mia opinione, certo non di una esperta, ma la penso così”.
Cosa non ti hanno mai chiesto e vorresti che ti chiedessero?
“In realtà, a Verona, durante una presentazione, un uomo mi ha fatto una domanda interessante. Mi ha chiesto quale fosse il momento più brutto e il più bello dello scrivere. In effetti, di momenti brutti ce ne sono: quando non ti viene la storia, quando hai paura pensando che non verrà letto il libro, ad esempio. È l’ansia da prestazione: mentre scrivo, penso ossessivamente a cosa penseranno quando mi leggeranno, ‘magari non piacerà quello che scrivo’. Questa cosa proprio mi uccide. Il momento più bello, invece, è l’incontro con il pubblico: il fatto di fare le presentazioni e chiacchierare con i lettori. Non quando il libro esce: quando consegno il libro non mi cambia niente. Quello che mi dà più emozione è, ad esempio, la prima presentazione. O, comunque, accompagnare il mio bambino virtuale in giro per l’Italia”.